Il rilancio dell’Ilva: che l’Europa lo guardi

La vicenda dell’Ilva di Taranto va oltre i il suo perimetro aziendale e i confini nazionali. Ha rappresentato, e ancora oggi rappresenta, nonostante l’accordo sindacale siglato lo scorso 6 settembre, lo specchio di un Paese in guerra con se stesso. Un Paese che, pur dovendo gran parte del proprio benessere all’industria (siamo ancora la seconda […]

La vicenda dell’Ilva di Taranto va oltre i il suo perimetro aziendale e i confini nazionali. Ha rappresentato, e ancora oggi rappresenta, nonostante l’accordo sindacale siglato lo scorso 6 settembre, lo specchio di un Paese in guerra con se stesso. Un Paese che, pur dovendo gran parte del proprio benessere all’industria (siamo ancora la seconda manifattura d’Europa e l’ottava potenza industriale al mondo), mostra di continuo l’insana propensione a gettare sabbia dentro gli ingranaggi.

Non che vi sia molto di cui stupirsi. Imbattersi in un esponente politico in grado di calibrare parole e azioni sulle coordinate di fondo del settore è quasi impossibile. L’Italia si è retta negli ultimi anni grazie al traino delle esportazioni e all’avanzo della bilancia commerciale. Il contributo più significativo arriva proprio dall’industria, e in particolar modo dalla meccanica (il 52% nel 2018).

 

Il paradosso dell’industria in Italia

L’epilogo positivo della vertenza Ilva è stato possibile solo grazie alla responsabilità delle organizzazioni sindacali, ma per anni la questione del più grande siderurgico d’Europa si è presentata come un grande cartello rivolto al mondo intero che diceva: se volete investire state alla larga dall’Italia. Viviamo in un paradosso: siamo un Paese industriale che non vuole e non sa parlare di industria. Ciò non deve meravigliare: l’avversione all’industria affonda le radici nell’avversione all’economia di mercato e alla società aperta, così diffusa nei media e nella pubblicistica.

A sua volta, l’avversione all’economia di mercato si configura come una forma di resistenza all’incedere della modernità e dell’innovazione tecnologica: i rigurgiti sovranisti ne sono la più plastica dimostrazione. Come spiegare altrimenti la perdurante fortuna di una retorica politico – sindacale da tempo svuotata di senso, come quella che imputa ogni male alla globalizzazione e alle multinazionali?

Gli investimenti diretti dall’estero (Ide passivi) restano, in Italia, comparativamente bassi rispetto ai nostri partner europei, perché l’habitat che offriamo alle imprese è inospitale: burocrazia inefficiente, giustizia lenta, infrastrutture scadenti, costo dell’energia troppo alto, diffidenza verso l’innovazione, e si potrebbe continuare ancora parecchio.

Il fatto che lo spettro della chiusura abbia per lungo tempo aleggiato su Taranto dimostra l’immaturità delle nostre classi dirigenti e la percezione alterata che hanno non solo della rilevanza del settore manifatturiero, ma pure del giudizio che di noi si fanno gli investitori internazionali ogniqualvolta, per ragioni di tornaconto politico, si mettono in discussione asset fondamentali per l’economia italiana. Taranto è una città delle contraddizioni, che potrebbe diventare bellissima con poco, ma che preferisce la polemica quotidiana. Quando una persona fa il primo passo e pianta un albero, se ne alzano almeno dieci a spiegarne le controindicazioni. Una tipicità italiana che nella citta ionica ha trovato troppo spazio.

Non mi illudo che l’epilogo positivo della vicenda Ilva possa indurre nell’immediato un mutamento profondo di un orientamento culturale, pervasivo al punto di divenire quasi un connotato del carattere nazionale.

Gli ultimi provvedimenti del governo giallo-verde, dal decreto dignità al decreto anti-delocalizzazioni, per passare alla nuova tassa sui motori diesel e allo scontro sulle grandi opere, mostrano, se mai ce ne fosse bisogno, come l’iper-ideologizzazione con cui vengono affrontati i temi del lavoro si ripropone in forme e modalità sempre nuove.

 

L’accordo per il rilancio dell’Ilva e la sua applicazione

La siderurgia, anche in un’epoca fatta di bit come la nostra, rappresenta l’ossatura, la dorsale dell’intero sistema industriale dei Paesi avanzati. Senza siderurgia non potrebbe esistere il digitale: come dice spesso Corrado La Forgia, anche in futuro i bit puzzeranno d’olio e acciaio. In un Paese povero di materie prime, poi, la produzione primaria di metalli è una precondizione per non perdere ulteriori quote di sovranità economica e industriale.

L’intesa che abbiamo firmato con ArcelorMittal, e che i lavoratori hanno promosso a stragrande maggioranza nel referendum che si è tenuto a metà settembre dello scorso anno, era la migliore possibile nelle condizioni date. L’accordo nella sostanza salvaguarda tutti i lavoratori e mette le basi per il rilancio industriale e la bonifica del sito di Taranto. ArcelorMittal investirà complessivamente 4,2 miliardi; un altro miliardo, fondi ottenuti dalla transazione con i Riva, verrà speso per le opere di bonifica dai commissari. Si sarebbe potuto firmare prima? Sì, anche se alla fine siamo riusciti a spuntare alcuni miglioramenti rispetto al documento predisposto da Carlo Calenda. Purtroppo alcuni sindacati hanno manovrato in modo da danneggiare politicamente l’ex ministro e il governo di cui era espressione.

 

 

 

 

Oggi, dal punto di vista ambientale è visibile l’avanzamento della copertura dei parchi minerali: il primo dei due capannoni sarà ultimato entro la fine di marzo. Un’opera che aiuterà a contingentare le polveri che si abbattono sul quartiere Tamburi, fortemente voluta dal sindacato e anticipata nei tempi durante la trattativa. Anche gli altri interventi avanzano, benché nell’ultimo incontro tra le organizzazioni sindacali e i vertici di ArcelorMittal abbiamo chiesto ulteriori sforzi oltre a quelli messi già a programma sulle manutenzioni. Siamo consapevoli che recuperare un gap di sei anni non è facile, ma siamo anche convinti che sia una priorità. Il processo di assunzione dei primi 10.700 dipendenti è quasi completato, mancano solo alcune decine di unità che andranno a concretizzare il piano iniziale. Continueremo quindi a incalzare l’azienda affinché si riduca il più possibile il periodo di utilizzo della cassa integrazione e sia mantenuta la garanzia di fine piano. L’accordo prevede infatti che alla sua scadenza quanti non hanno trovato collocazione in ArcelorMittal (sono 1600 i lavoratori rimasti nell’Ilva in amministrazione controllata, la maggior parte dei quali a Taranto) vengano assorbiti dalle società controllate dal gruppo.

È comunque positiva la ripartenza, seppur lenta, di alcuni impianti dei tubifici, segno inequivocabile che anche i tubi, come da piano industriale, interessano ad ArcelorMittal. Si tratta di un’area che ha fortemente pagato la crisi Ilva con fermate durate anni, e per molti aspetti ancora in corso. La Fim non ha mai smesso di crederci e chiedere il loro rilancio, restando al fianco dei lavoratori anche quando eravamo oramai gli unici a farlo. Pensiamo che anche in Italia, come nel resto del mondo, sia possibile produrre acciaio in maniera sostenibile sul piano ambientale e sociale.

Sugli appalti è positiva la regolarizzazione dei processi di pagamento, che ha permesso a molte aziende di poter meglio programmare le attività e recuperare le somme in sospeso.

L’accordo non è ancora completo, è ovvio: bisogna intensificare gli interventi, velocizzare i processi e l’acquisizione di commesse, dare ancora maggiori garanzie occupazionali ai lavoratori diretti e a quelli degli appalti. Il nostro compito sarà quello di vigilare su quanto abbiamo concordato perché la scommessa che abbiamo fatto sul rilancio dell’Ilva sia vinta.

Rilancio che, con la ripresa della domanda di acciaio su scala internazionale, può schiudere prospettive interessanti sia per il gruppo che per il Paese. Il ritorno in pista dell’ex-Ilva potrebbe infatti allentare la nostra dipendenza dall’acciaio tedesco, questo sì un limite alla nostra sovranità industriale, e riproporre con forza la presenza dell’Italia su un mercato che a lungo ci ha visti protagonisti.

Tuttavia per tornare a recitare un ruolo di primo piano non possiamo confidare esclusivamente in noi stessi. Abbiamo bisogno che l’Europa punti con più decisione al rafforzamento del suo tessuto industriale, obiettivo che non può essere disgiunto da quello di una riforma delle sue regole antitrust, che troppo spesso finiscono per penalizzare i player continentali a vantaggio di quelli extraeuropei, specie asiatici, in omaggio a una declinazione troppo astratta del principio di concorrenza.

 

(Photo credits: La Presse)

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