È passato molto tempo da quando mi sono appassionata ai temi dell’inclusione e della pluralità in azienda. Correva l’anno 2000 e con alcune colleghe della scuola di management in cui lavoravo interessate al tema abbiamo prodotto la prima ricerca sullo stato dell’arte delle carriere in Italia, uscita con il titolo Soffitto di vetro e dintorni. […]
Il vecchio e il bambino nel giornalismo italiano
“Autunno caldo”, nell’accezione negativa del termine, quello appena passato per i giornali di casa nostra. Lo “scandalo” delle copie digitali, e conti in profondo rosso, per il quotidiano di Confindustria: una situazione davvero penosa che non pare si sblocchi a breve visto il recente annuncio di slittamento del piano industriale originariamente previsto per febbraio. Se […]
“Autunno caldo”, nell’accezione negativa del termine, quello appena passato per i giornali di casa nostra. Lo “scandalo” delle copie digitali, e conti in profondo rosso, per il quotidiano di Confindustria: una situazione davvero penosa che non pare si sblocchi a breve visto il recente annuncio di slittamento del piano industriale originariamente previsto per febbraio.
Se Atene piange, Sparta non ride, per dirla in una battuta. Infatti anche l’Unità naviga in brutte acque e il rischio che il giornale chiuda è estremamente concreto tanto che Emanuele Macaluso, in risposta all’editoriale di Staino rivolto a Renzi, conclude con «In ogni caso, è ormai il momento di un confronto vero e reale tra il segretario del Pd, gli imprenditori-editori e il direttore, con un solo punto all’ordine del giorno: che fare? Se fare…» e anche il CdR del giornale prova a “tirare la giacchetta” all’ex premier nella speranza di salvare il salvabile, come direbbe Bennato. Situazione ancor più surreale, se possibile, quella dell’appendice online del quotidiano fondato da Gramsci. Il sito, che prende il suffisso [unita.tv] dagli atolli polinesiani delle Tuvalu, non ha un direttore responsabile, non è dell’editore dell’Unità ma di altri: Eyu, la cui storia è davvero interessante, diciamo, e pubblica gli articoli del giornale di carta senza che vi lavori un giornalista del cartaceo. Conclude Matteo Bartocci, vice direttore de il Manifesto, che «si tratta di una gestione schizofrenica se non piratesca del brand Unità». Difficile dargli torto.
Ed ancora, è di questi giorni la notizia di un’istruttoria dell’Antitrust sulla fusione tra Gruppo Espresso e Itedi. L’operazione annunciata nel marzo scorso, subito ribattezzata “StamPubblica”, pare possa avere dei problemi: infatti, come si legge nella nota dell’Autorità garante della concorrenza, «porterà alla costituzione di posizioni di monopolio o quasi monopolio nei mercati della raccolta pubblicitaria locale sui quotidiani nelle province di Torino e Genova» come conseguenza dell’integrazione delle attività delle concessionarie Manzoni [Gruppo Espresso] e Publikompass, che fa capo a Italiana Editrice [Itedi, appunto], la società in cui nel 2014 si sono fuse le editrici del quotidiano torinese e di quello genovese.
Insomma, c’è davvero poco di cui essere allegri, anzi, visto che l’ingresso di Cairo in RCS, da un lato ha finalmente garantito un azionista di riferimento, dall’altro sembra portare una nuova ventata conservatrice al quotidiano di Via Solferino con le prime dichiarazioni di intenti – rilancio della carta e minori investimenti sul digitale, lancio di un grande periodico da 100 mila copie – che sembrano descrivere un editore intenzionato a giocare in casa con strategie che hanno caratterizzato fino ad oggi la sua storia.
Un quadro, di cui vi risparmio gli altri dissesti non citati, rimandando allo speciale di DataMediaHub dello scorso settembre che ha letteralmente passato il settore al setaccio. Si tratta di un panorama davvero preoccupante che potrebbe fare del 2017 l’anno della verità per i giornali italiani. Anche perché l’influenza dei giornali è sempre più scarsa sull’opinione pubblica come dimostrano sia i risultati di oltreoceano della vittoria di Trump – con la Clinton che nonostante sia stata il candidato alla presidenza che ha ricevuto il maggior numero di endorsement dalla stampa statunitense, più di ogni altro candidato nella storia del Paese – sia, per tornare a noi, i risultati del referendum del 4 dicembre scorso che, nonostante l’appoggio dai grandi quotidiani nazionali, ha ottenuto come sappiamo un risultato sfavorevole al Governo. Non solo. A completare la fotografia della situazione sono i dati della 17esima edizione dell’“Edelman Trust Barometer” dai quali emerge come la fiducia nei media, anche in Italia, non sia mai stata a livelli così bassi.
Certo, come noto, la situazione di quella che Emily Bell definisce l’ex industria dell’informazione per definirne i contorni, non è certamente rosea neppure altrove ma sia negli Stati Uniti che in America Latina, ed anche in altri stati europei, si vedono sperimentazioni, cambiamenti, innovazione, mentre da noi pare regnare “calma piatta”.
Quando nel 2014 il gruppo di lavoro dei Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti pubblicò la ricerca sul giornalismo digitale, il gruppo di lavoro, di cui faccio parte, decise di intitolarla “Giornalismo digitale in Italia: nelle redazioni domina ancora la “carta” ma la talpa del cambiamento sta scavando”. Se le redazioni online più strutturate [sia quelle native sia quelle di testate ‘’tradizionali’’] considerano il digitale più come uno strumento tecnico/tecnologico che non come un nuovo modo di fare giornalismo, un modo cioè che forzi il paradigma culturale del giornalismo tradizionale in cui l’organizzazione e le gerarchie interne restano sostanzialmente quelle della carta, in tre anni la situazione non pare essere cambiata di molto. Con le dovute eccezioni che inevitabilmente tutte le generalizzazioni comportano, in realtà i tentativi fatti sono rimasti tali e nella stragrande maggioranza dei casi si è trattato di elementi così rarefatti ed episodici da renderne pressoché nullo il valore.
La cultura della carta [quell’insieme di valori, di rapporti gerarchici e di pratiche che hanno dominato il processo di produzione giornalistico dagli inizi del Novecento] continua a dominare in modo incontrastato. E in molte testate la tendenza sembra essere infatti quella di preservare le funzioni giornalistiche tradizionali e di evitare qualsiasi “contaminazione”.
Di fatto, per quanto a me noto, in quasi tutte le redazioni il ritmo lavorativo, e la relativa organizzazione del lavoro, sono ancora oggi scanditi dal ciclo produttivo della versione cartacea del giornale con la prima riunione di redazione alle 10:30 – 11:00 del mattino, se non più tardi, in cui si commentano i giornali già in edicola e ci si inizia a fare una prima, vaga, idea di come sarà il giornale – di carta – del giorno dopo. Un ritmo che evidentemente non è conciliabile con l’online e con il digitale come testimonia la decisione, ad esempio, di un paio di anni fa del NYTimes che ha creato una business-unit staccata per la carta per non inficiare, appunto, il digitale. Esattamente il contrario di quello che succede qui da noi, ahimè.
Due problemi irrisolti
E’ una situazione che, al di là delle ben note dinamiche di mercato brevemente succitate, si basa su due problematiche di fondo ad oggi irrisolte.
Da un lato le imprese editoriali sono organizzazioni a “due teste” con la parte editoriale e quella manageriale che vivono, parrebbe davvero, come se fossero due corpi estranei i quali, quando va bene, non si incontrano mai e, quando va male, si scontrano tra loro e in alcuni casi anche pesantemente.
Dall’altro lato vi è una situazione di stallo di competenze e comportamenti della parte giornalistica dei quotidiani. Infatti sino ad oggi, per cercare di far fronte alla crisi, si è tagliato in maniera orizzontale senza però reintegrare con nuove figure professionali in grado di fare quello che oggi il giornalismo, e i giornali, richiederebbero. Redazioni costituite in buona parte da “vecchi”, non necessariamente e non solo dal punto di vista anagrafico, attaccati alla loro sedia sino alla morte, senza competenze e, purtroppo, senza neppure un minimo di volontà di acquisirle (come testimonia, banalmente, la necessità di prorogare la scadenza di fine 2016 per i 60 crediti formativi obbligatori – nel triennio – per mantenere la tessera dell’OdG, stante il fatto che una larga fetta in tre anni non ha potuto, o meglio voluto, dedicare 60 ore del proprio tempo ad aggiornarsi professionalmente).
Incompetenza manifesta tappata sempre più spesso con il ricorso a collaboratori esterni sottopagati e sfruttati per mantenere lo status quo di chi molto spesso, da dipendente e profumatamente pagato, non ha invece alcuna propensione a seguire le evoluzioni del giornalismo e dei giornali.
Cantava Francesco Guccini in uno dei suo brani più celebri: «I vecchi subiscon le ingiurie degli anni, non sanno distinguere il vero dai sogni, i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero». Ecco!
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