Bagnoli com’era, Bagnoli com’è. Il passato e il presente di un territorio fatto a pezzi dal lavoro diventa uno spettacolo teatrale: “Mare di Ruggine”, di Antimo Casertano
La bella addormentata nel golfo
Bagnoli com’era, Bagnoli com’è. Il passato e il presente di un territorio fatto a pezzi dal lavoro diventa uno spettacolo teatrale: “Mare di Ruggine”, di Antimo Casertano
Questo articolo è tratto dal numero cartaceo di settembre/ottobre di SenzaFiltro: “Nel lavoro vince chi sfugge“.
Bella, anzi bellissima; così bella da rappresentare un caso nazionale. Per descriverla, Edoardo Bennato, in un live del 2012, utilizzava le stesse parole: bellissima, un posto tra la collina e il mare, appetibilissimo. “Tant’è vero – recitava prima di intonare le prime note di Vendo Bagnoli – che qualcuno lo ha messo anche in vendita”. E giù con un attacco ben preciso già nelle prime strofe: giù il fumo e le acciaierie, su le decisioni.
La storia di Bagnoli degli ultimi due secoli nulla ha a che vedere con le sue radici greche e romane, quando attraverso la grotta di Seiano, che tagliava la collina di Posillipo portando alla villa dell’aristocratico Vedio Pollione, si creava una connessione tra la città di Napoli, cullata tra le sue alture, e il territorio flegreo, cumano e domizio.
La storia di Bagnoli dell’ultimo secolo, in particolar modo, è una storia industriale collegata a doppio filo con l’acciaieria che qui ha trovato un terreno dove allargarsi e un mare dove scaricarsi. E.A. Mario non aveva ancora composto Santa Lucia Luntana, cristallizzando in note l’epopea degli emigranti napoletani in cerca di fortuna negli USA, che a Bagnoli non sembrava vero di avere l’America a casa, e poco conta che le acciaierie con i suoi forni e le sue ciminiere avrebbero per sempre cambiato immagine e destino di un territorio.
Tra il Sessanta e il Settanta, quando l’ex ILVA diventò Italsider, erano all’incirca 8.000 i lavoratori direttamente assunti in acciaieria, che arrivavano a 12.000 considerando l’indotto. Ma il fumo, gli odori, il frastuono coinvolgevano l’intero quartiere, che a fine anni Settanta contava poco meno di 40.000 abitanti, forgiando le espressioni di chi ci viveva così come accadeva con l’acciaio: sulla falsariga logica per cui dopo un po’ marito e moglie finiscono per assomigliarsi, così i bagnolesi hanno iniziato ad assumere i tratti dell’acciaio, con i volti che negli anni diventavano sempre più duri, ruvidi, affilati.
L’Italsider non se n’è mai andata del tutto, nonostante l’impianto abbia chiuso nel 1992. Su via Diocleziano ci sono ancora i binari dismessi che servivano la fabbrica. Le ciminiere e i ruderi svettano sul quartiere, fanno parte del panorama di quanti raggiungono la collina di Posillipo e volgono lo sguardo verso il golfo meno noto della cinta metropolitana partenopea, quello di Pozzuoli. La fabbrica uccide ancora, a causa di una latenza lunga intrinseca alle malattie legate all’amianto. L’Eternit è stato bonificato solo da poco, e dei pontili che si stagliavano sul mare cristallino solo uno è stato riconvertito per il passeggio. Mare cristallino, sì, ma negato, con una bonifica che tarda ad arrivare: la “colmata” è ancora lì, così come ancora si dibatte sulle soluzioni da attuare.
Con il fuoco davanti, con il mare alle spalle
Del resto, non vi è casualità nella scelta di costruire un’acciaieria sul mare, con i suoi tentacoli che si stagliano oltre costa e la possibilità di far attraccare qui le navi. Franco Iorio spesso raccontava all’ex circolo ILVA che lì si lavorava “con il fuoco davanti e con il mare alle spalle”. La brezza del mare che colpiva come una lama i corpi degli operai, davanti ad altoforni dove veniva prodotta la ghisa grezza, che raggiungevano i 1.900 gradi. Le polmoniti erano all’ordine del giorno. Ma era normale, normalissimo morire di lavoro, di fabbrica.
Tutti quelli che abitano in quella che attualmente è la Napoli flegrea possono scavare nell’albero genealogico e scoprire che in famiglia un nonno, un prozio, un vecchio cugino lavorava in fabbrica, si ammalava in fabbrica. Come lo stesso Bennato, anche Giovanni Calone aveva papà Umberto in fabbrica. Senza quel lavoro certo e garantito di Umberto, Giovanni non sarebbe mai diventato il Massimo Ranieri che tutti conosciamo. Lo racconta la memoria, quella di Nunzio Brandi, caposquadra all’altoforno; una memoria raccolta da Antimo Casertano, attore e autore che porterà il racconto intergenerazionale di Bagnoli a teatro questo settembre, con lo spettacolo Mare di ruggine.
Il lutto causa fabbrica segna la storia degli avi di Antimo, che ha ricostruito un secolo di storia italiana e flegrea attraverso studio e testimonianze dirette. “Il cantiere rappresentava la vita e la morte. Già dagli anni Sessanta si sapeva che faceva male. Entrare a lavorare nell’Italsider non era lavorare in miniera ma nemmeno in gioielleria”. Ciò nonostante, secondo Casertano, un senso che può essere assimilabile a quello di gratitudine serpeggia ancora tra i testimoni di quell’epoca. “L’Italsider era il lavoro, era il posto fisso. Guai a toccarlo”. Così fisso da essere garanzia di occupabilità al pari dell’assunzione pubblica, al punto di essere per gli innamorati una dote per chiedere in sposa qualcuna, quando era ancora il padre a dover acconsentire.
Il tutto nonostante la fabbrica uccideva, lo si sapeva, lo si capiva. I nonni e le nonne avevano il fiato corto, morivano giovani o all’improvviso. I medici spesso pronunciavano sempre più spesso termini come silicosi. Ma quel “posto” era necessario, un male dovuto. Il lavoro è qui, il lavoro è così.
“Se parli con gli operai Italsider, per loro ‘a fabbrica è ‘a fabbrica. Era sofferenza”, racconta Vincenzo Sansone, osservatore privilegiato, tra i fondatori del comitato Mai Più Amianto e attualmente alla guida di Rinascita flegrea. “È nell’elemento di sofferenza che gli operai avevano costruito luoghi di interazione con il territorio. Con le loro battaglie hanno ottenuto il campo dell’Italsider, il poliambulatorio al centro di Bagnoli, e così via”.
La fabbrica, insomma, suppliva al welfare e a tutto quell’ordinario che il Pubblico avrebbe dovuto garantire. Con i CRAL e i collettivi operai a disposizione di tutti, la fabbrica (o meglio, la sua forza lavoro) usciva nel rione trasformandolo in comunità.
Una precisa scelta politica
L’Italsider chiuderà nel 1992, non senza polemiche e non senza lotta. E, qualunque sia la fazione a cui si appartiene e l’idea che si persegue, su una cosa tutti i bagnolesi e i flegrei convergono: fu una “precisa scelta politica”. Premiare Taranto, depotenziare una Napoli industriale che spaventava, punire i caschi gialli di Bagnoli che erano i più attivi e schierati d’Italia quando c’era da mobilitarsi contro i padroni. Chissà.
Ma non bisogna lasciarsi ingannare da una retrospettiva rosea che permea i racconti dei superstiti. La fabbrica era la fabbrica. Era sofferenza, sudore, lacrime. Quello che viene meno oggi è il senso di comunità, tutto quel sistema di supporto tra le persone che si era creato negli anni. Collateralmente alla fabbrica, insieme alla fabbrica o nella fabbrica, per volontà degli operai. “Col venire meno della fabbrica e di tutte le altre aziende del territorio è venuta meno la collettività operaia, sono venute meno le battaglie del consiglio di fabbrica e dei caschi gialli” racconta Sansone, che aggiunge: “Il lavoro oggi non è più aggregazione sociale”.
Bagnoli oggi: la memoria che si cristallizza (e che si perde)
Che cosa resta oggi di quella Bagnoli? Una storia da raccontare, una storia di lavoro che era simbiosi con la vita stessa. Di lavoro che uccideva e andava bene così: il “purché si lavori”, le cui tossine ancora si respirano oggi, era all’epoca regola e legge.
Una memoria che però sembra già svanire. I giovani – e anche i meno giovani tra i giovani – accettano ruderi e ciminiere come un dato di fatto, appartenente alla loro quotidianità e al loro tessuto urbano.
“Il problema del bagnolese è quello dell’essere umano: si abitua a tutto”, sostiene Casertano. “Bagnoli è assuefatta nell’attesa. È un po’ come la descrive Bennato (di nuovo, N.d.R.) nella Bella Addormentata, ferma lì in attesa che qualcuno compia un miracolo per risvegliarla”. In questa lunga attesa da un lato si continua a morire per l’età che avanza, dall’altro per patologie che hanno una coda lunga. “Ma se mi chiedi se sono più incazzato di mia mamma o mio padre”, confessa Casertano, “direi che sono più deluso”.
Un sentimento latente, quello della delusione, in un quartiere disilluso e pieno di volti stanchi. Gli occhi che luccicano sono pochi: all’ex circolo ILVA ogni tanto si accendono, tra i testimoni (sempre meno) di quella storia industriale a metà tra la gloria, la morte e la retrospettiva rosea (nei limiti del possibile), di quegli anni in cui fabbrica e quartiere erano una cosa sola.
Non come oggi. “I ragazzi – sottolinea Sansone – questo quartiere lo hanno conosciuto come è oggi: senza punti di aggregazione. Non come noi”. E sciorina circoli di partito, dopolavoro, CRAL, polisportive con logo PCI o DC. Altro mondo, altri tempi. “Ora, invece, i giovani che tengono?”, si chiede Sansone.
L’unica cosa che di certo appartiene alle nuove generazioni di bagnolesi e di flegrei, in effetti, è uno stato dell’arte immutato da trenta e passa anni, durante il quale i loro famigliari hanno atteso – spesso rassegnati – che venisse scritta la parola “ripartenza” in questa storia, tra chi la vede vicino e chi ancora non ci crede. Per questo è impossibile raccontare Bagnoli senza parlare della fabbrica, fulcro della vita, inferno obbligato. Maledetta e benedetta. Un po’ come ogni cosa, in questa città.
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