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La bella addormentata nel porto
Chi la definisce “una città del profondo Sud trapiantata al Nord”, in fondo, ha le sue ragioni. Perché a Livorno la vita non è frenetica come nelle città del Nord; ha i suoi tempi e i suoi ritmi, un andamento lento e sincopato dove le pause hanno la stessa importanza delle azioni e dei movimenti; […]
Chi la definisce “una città del profondo Sud trapiantata al Nord”, in fondo, ha le sue ragioni.
Perché a Livorno la vita non è frenetica come nelle città del Nord; ha i suoi tempi e i suoi ritmi, un andamento lento e sincopato dove le pause hanno la stessa importanza delle azioni e dei movimenti; come nella musica. Per strada incontri per lo più ragazzini e persone anziane, segno evidente della mancanza di una generazione intera fatta da chi è in età da lavoro e se n’è andato, perché lavoro non ce n’è. Livorno è un’area di crisi complessa, non solo perché ha perduto quasi tutte le sue industrie e le principali attività produttive, ma anche perché rappresenta un amplificatore naturale del disagio personale, prima ancora che socio-economico.
Nata come città multietnica, oggi Livorno può essere considerata una città internazionale, popolata da decenni da persone di origine campana e siciliana, e più di recente da moltissimi stranieri, che hanno formato le loro comunità, hanno i loro quartieri, attività, negozi: peruviani, senegalesi, rumeni e bielorussi, cinesi, marocchini. In centro, soprattutto, è difficile sentire parlare italiano, e non solo quando sbarcano i crocieristi. Una convivenza non sempre facile, ma Livorno è e resta una città accogliente, anche se tutto è estremo, dal pochissimo al tantissimo, senza via di mezzo, senza un punto di equilibrio.
Una città diversa con difficoltà diverse
Accade così che accanto all’accoglienza verso chi viene da lontano e alla solidarietà quasi smisurata, come abbiamo avuto modo di vedere durante l’alluvione del 2017, coesiste un senso di rassegnazione verso chi vive il proprio disagio quotidiano, come i senza tetto che dormono sul sagrato del Duomo e i ragazzi “drop-out” che, abbandonata la scuola, passano gran parte del loro tempo gironzolando o formando capannelli sotto i loggiati, anche insieme a persone che appaiono, secondo i canoni comuni, poco raccomandabili. La crisi ha consolidato la precaria situazione esistente e ha portato nuova povertà, così tanto che i problemi sociali si sono ingigantiti, e senza l’opera e lo slancio di tanti volontari sarebbe molto più grave il rischio che rabbia e disperazione possano esplodere in fenomeni violenti. In questo periodo si assiste solo – si fa per dire – all’occupazione non violenta di edifici pubblici abbandonati da parte delle famiglie più povere e disagiate, anche in questo caso quasi sotto silenzio da parte dei cittadini e delle autorità, che non intervengono perché non sembrano avere soluzioni alternative da proporre ai problemi che questi fenomeni manifestano.
Non si può parlare di indifferenza. Sembra piuttosto che la città viva immersa in una specie di torpore, come all’interno di una bolla e sempre in attesa di qualcosa, qualcosa che ancora deve accadere. Serve una spinta, un evento, un innesco per far esplodere altruismo e generosità, sentimenti tipici del livornese “di scoglio”, e che sono le colonne portanti delle tantissime associazioni di volontariato che operano sul territorio. Associazioni che sono impegnante nell’accoglienza degli stranieri anche attraverso la mediazione linguistica e culturale, nelle attività di soccorso e protezione civile, nell’assistenza medica gratuita a favore dei bisognosi, nell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate. Realtà che, a onor del vero, in Italia si trovano un po’ dappertutto.
C’è però una realtà che ancora non è così diffusa nel nostro Paese, e che a Livorno è nata grazie alla volontà e alla tenacia di un gruppo di persone che, ispirandosi a iniziative che in altri territori hanno dimostrato di avere grande impatto sulle comunità locali, hanno fondato un’Associazione per erogare piccoli prestiti: l’Associazione Microcrediamoci.
Microcrediamoci, la versione livornese del microcredito
Il microcredito, le cui origini possono essere ricondotte alle intuizioni del Premio Nobel Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank, viene definito come “credito di piccolo ammontare, finalizzato all’avvio di un’attività imprenditoriale o per far fronte a spese di emergenza, nei confronti di soggetti vulnerabili dal punto di vista sociale ed economico, che generalmente sono esclusi dal settore finanziario formale” (Dizionario di microfinanza – le voci del microcredito, a cura di Giampietro Pizzo e Giulio Tagliavini, Roma, Carocci 2013).
Per comprendere lo spirito e le attività dell’Associazione abbiamo chiesto alla presidente di Microcrediamoci, Ida Chiarini, di raccontarci come un piccolo prestito possa fare la differenza in situazioni di difficoltà economica, dando nuova speranza ai “non bancabili” che altrimenti rischierebbero di finire in mano agli usurai.
Microcrediamoci nasce formalmente nel 2012, grazie alle volontà di una dozzina di persone impegnate nel sociale, con l’obiettivo di replicare a Livorno l’esperienza del Fondo Etico e Sociale del quartiere “Le Piagge” di Firenze. L’idea è quella di rispondere ai problemi immediati degli abitanti dei quartieri La Scopaia e La Leccia usando i prestiti come mezzo concreto per lo sviluppo del tessuto sociale, delle relazioni tra persone che condividono lo stesso territorio. I fondi per poterli erogare sono versati dagli associati, e la relazione umana va a sostituire le garanzie finanziarie e patrimoniali per chi li riceve.
L’attività si concretizza a partire dal 2014, quando il microcredito viene regolamentato per legge nel Testo Unico Bancario. Da quel momento è stato possibile iniziare a erogare i fondi raccolti, con l’intermediazione della MAG (Mutua Auto Gestione) di Firenze. Microcrediamoci comincia a lavorare sul territorio, trovando accoglienza e comprensione per il progetto nel parroco locale, e avvalendosi anche dell’esperienza della bottega del commercio equo e solidale, pur essendo pochissimi i cittadini che usufruiscono di questo spazio. Oggi questa è la sede dell’Associazione.
Gli 11 soci del 2014 sono diventati 34 a fine 2017 e sono in continua crescita: per diventare soci basta aderire al progetto, pagare 1 euro per la quota associativa e versare 25 euro che rappresentano una quota del fondo per il Microcredito. I prestiti vengono erogati a chi, pur avendo un piccolo reddito, non ha la possibilità di sostenere spese che, nella difficoltà economica, sono fuori portata nell’immediato (come ad esempio gli interventi per realizzare protesi dentarie), ma che può affrontare la restituzione del finanziamento ottenuto in tre anni. Si tratta di persone apparentemente “normali”, magari con un lavoro part-time e inserite in contesti familiari, che per vicissitudini o problemi personali si trovano loro malgrado in situazioni di disagio. Il microcredito può dar loro una possibilità concreta per ricominciare.
La ripresa di Livorno viene dal mare
La realtà sociale ed economica di Livorno è molto variegata. Ci sono quartieri dove intere vie sono abitate e vissute da persone non in grado di sostentarsi e affidate in toto ai servizi sociali; altri, come la Scopaia dove ha sede Microcrediamoci, dove la situazione è mista, e accanto a condizioni estreme ci sono comunque tante persone in grave difficoltà. Le istituzioni pubbliche possono dare un aiuto solo molto limitato, per vincoli vari: di budget, di percorsi, di burocrazia.
Microcrediamoci potrebbe erogare ulteriori prestiti e ha pensato anche di aprirsi alla città intera, ma non è facile; certo è che le situazioni di bisogno sono tante, e per intervenire è necessario conoscerle. Per questo motivo un’eventuale espansione delle attività di microcredito è legata alla costruzione di una rete di associazioni che possano coltivare le relazioni con le persone. In questo modo potrebbe essere possibile sostituire la garanzia personale con quella dell’associazione “sponsor” di chi richiede il prestito, alimentando il circuito virtuoso della mutua gestione e della solidarietà.
Associazioni e volontariato possono fare molto, ma non basta. Per risollevare la città bisognerebbe che la costruzione della nuova Darsena Europa nel porto venisse accelerata e ultimata in tempi brevi. Il progetto, di cui si parla da quasi vent’anni, prevede la realizzazione di nuove banchine e terminal, sia per il traffico container sia per quello di autotreni e semirimorchi, e accanto alle infrastrutture portuali tradizionali molti investimenti riguardano l’informatizzazione e la telematizzazione (come già avvenuto per i progetti della Port Technology Platform).
Livorno, che già possiede tante competenze in materia portuale, potrebbe avere la possibilità di un nuovo sviluppo, che porterebbe benessere a tante famiglie con la creazione di numerosi posti di lavoro. Sebbene la tecnologia e la digitalizzazione ci portino verso la portualità 4.0, molte attività in questo ambito devono essere ancora svolte dall’uomo; perché l’uomo è più flessibile e sa adattarsi, trovando soluzioni ad hoc in un mondo, quello della logistica integrata, dove sono necessarie non solo progettazione e realizzazione delle infrastrutture per il trasporto combinato – nave, gomma, rotaia – ma anche e soprattutto gestione e controllo dell’intera supply chain.
Articolo realizzato con la collaborazione di Francesco Tedeschi.
Photo credit by Stefania Basile on Instagram
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