Dal 2025 sarà obbligatorio sostenere un corso di specializzazione a numero chiuso da 60 CFU per accedere all’insegnamento sul posto comune, un processo che per certi versi somiglia a quello farraginoso del TFA sostegno. Evelina Chiocca, presidente CIIS: “Cattedre miste e formazione obbligatoria, non selezioni”
La voce di chi studia
La scorsa settimana è uscito il numero di Senza Filtro Università senza Lode, in cui abbiamo cercato di sviscerare il rapporto dell’università con il mondo del lavoro scavando tra stage e tirocini, valutando i corsi di formazione e mettendo sotto esame strumenti come i servizi alla carriera. E abbiamo scritto che se studiare non basta, è […]
La scorsa settimana è uscito il numero di Senza Filtro Università senza Lode, in cui abbiamo cercato di sviscerare il rapporto dell’università con il mondo del lavoro scavando tra stage e tirocini, valutando i corsi di formazione e mettendo sotto esame strumenti come i servizi alla carriera. E abbiamo scritto che se studiare non basta, è necessario studiare ancora di più.
Poi ci hanno scritto loro, gli studenti. Ci hanno voluto raccontare la loro esperienza, il loro percorso di studi, i loro problemi. E loro ci hanno raccontato che l’incognita più grave che vivono sulla loro pelle non è la paura di non trovare un lavoro, ma la paura di non poter fare quello che gli piace davvero. Allora li abbiamo chiamati e ci siamo fatti raccontare gli ostacoli scavalcati, gli sbarramenti subiti e le speranze per il futuro.
Ognuno di loro ha voluto specificare, prima di tutto il resto, che la famiglia non li ha influenzati in alcun modo. Nessuna pressione; anzi dalle nostre chiacchierate è emersa una generazione di genitori che sostengono i figli e non solo economicamente. Li incoraggiano, li aiutano indipendentemente, anche se la scelta fatta non è quella sperata. Le difficoltà sono “fuori”, l’ostacolo più grande è quel test di ingresso che ormai è inevitabilmente necessario in molte facoltà, ma che visto da loro è un’accetta sopra la testa. Che cosa fare allora? C’è chi “si è piegato” e ha trovato con convinzione la sua strada in un’altra facoltà e c’è chi, pur di non arrendersi, ha deciso di studiare all’estero dove il numero chiuso non è così severo o non è contemplato.
La parola agli studenti
Gregorio, romano di nascita e di cuore, frequenta il secondo anno di fisioterapia, non a Roma. Da tempo ha deciso che cosa vuole fare da grande: da quando a quindici anni si è sfilacciato i legamenti della caviglia giocando a calcio e ha potuto toccare con mano la preparazione e l’abilità del fisioterapista che lo ha rimesso in piedi.
“Dopo la maturità sapevo qual era la mia strada. Ho fatto immediatamente il test per entrare a fisioterapia e ho ottenuto un punteggio abbastanza alto, ma non è stato sufficiente, e per temporeggiare mi sono iscritto a Igiene dentale. Il mio obiettivo non era cambiato, ma Igiene dentale poteva essermi utile sia per preparare il test di fisioterapia, che volevo comunque ripetere l’anno successivo, sia per portarmi avanti con qualche esame che poteva essere convalidato. L’anno successivo infatti ho riprovato il test e ho fatto un punteggio superiore, ma non è bastato lo stesso. Quindi per non perdere ancora tempo sono partito per Tirana per frequentare l’Università Cattolica Nostro Signore del Buon Consiglio. Tutti i ragazzi con cui ho parlato il giorno del test di ingresso conoscono la scappatoia di Tirana, poi c’è chi se la sente di partire e chi non se la sente, chi è convinto e chi non vuole far spendere soldi alla famiglia. Io ero convinto e sono partito. Sono tranquillo perché la laurea rilasciata lì vale in tutta Europa, ma vorrei tornare a casa. E infatti proprio ieri ho ritentato il test a Roma”.
Francesca, nata a Città di Castello, frequenta l’ultimo anno della specialistica di biotecnologie molecolari e industriali. Ha fatto la triennale a Perugia e ora è a Bologna per gli ultimi due anni.
“Volevo fare medicina, e come tanti ho preso biotecnologie come un ripiego. Poi mi sono appassionata alla ricerca scientifica e ora credo che questo sia il mio mondo. Ho sempre amato le scienze e frequentando i laboratori ho capito che le biotecnologie potevano darmi tante opportunità. Adesso nelle biotecnologie vedo davvero il mio futuro, ma continuo a pensare che non sia giusto precludere a qualcuno la possibilità di provare. Mi rendo conto che il numero di iscritti non sarebbe forse sostenibile per l’università, ma essendo dalla parte di chi è stata esclusa da medicina riterrei più giusto dare a tutti la possibilità di provare, poi tanto sono pochissime le persone che realmente ce la fanno. Alla fine anche quando mi sono iscritta a Perugia siamo partiti in 500 e ci siamo laureati in 30”.
Valentina frequenta il secondo anno di fisica a Pisa. Non la Normale però, perché ha valutato attentamente le sue capacità prima di partire. È sodisfatta della sua scelta, per lei è stato semplice perché sapeva da sempre di voler fare fisica. La perplessità e soltanto una: “Il mio sogno è fare ricerca, vorrei fare esperienze all’estero e avere punti di vista più ampi. Solo vorrei che l’estero fosse una scelta e non una costrizione definitiva, come lo è per tanti altri ricercatori italiani”.
Lorenzo frequenta il primo anno di psicologia ad Aosta, dopo un percorso di scelta travagliato. Uscito dal liceo voleva fare medicina, ma come tanti non ha superato il test. Dopo aver provato giurisprudenza ha deciso che non era la sua strada e ha ritentato a medicina. Anche la seconda volta non è andata bene e ora si è iscritto a psicologia.
“Il numero chiuso è uno sbarramento troppo forte. Sarebbe più giusto adottare una barriera selettiva alla fine del primo anno, come fanno in Svizzera e in Francia. Bisogna dare ai ragazzi l’occasione di provare, invece cercando di entrare a Medicina mi sono preparato per un test che aveva poco a che fare con quello che realmente si studia nei primi due anni. Il test ha domande di chimica, fisica, biologia e logica che non valuta davvero la tua propensione medica. Alla fine mi sono iscritto a psicologia perché mi permette di sperare ancora di essere coinvolto nell’ambito medico”.
La laurea? Importante, fino a un certo punto
Quindi il sogno di Lorenzo è ancora lì, le dinamiche esclusive di alcune facoltà non sono riuscite del tutto a estirparlo dalla sua mente. Sa in quale ambiente vuole lavorare e sta cercando di raggiungerlo attraverso strade secondarie. Ma quello delle strade secondarie, lunghe e piene di dossi dove i traguardi non si vedono neanche all’orizzonte, è un problema non solo di chi viene escluso da facoltà scientifiche o mediche. Gli studenti che ci hanno scritto e che frequentano le facoltà umanistiche temono più di ogni altra cosa il post laurea. Vedono amici che dopo la laurea in lettere fanno i postini, amiche che dopo scienze politiche fanno le commesse. Noi di Senza Filtro non staremo qui a digli che purtroppo in periodi come questi bisogna adattarsi. Anzi, abbiamo chiamato in causa una voce forte e ottimista, quella di Roberto Martino, forte di oltre 10 anni di esperienza nell’area Risorse Umane di Johnson & Johnson Medical Spa.
Martino è il primo a dire che “il titolo di studio è importante, ma fino a un certo punto, perché l’università prima di ogni altra cosa ti deve aiutare ad acquisire una grande elasticità. A un laureato in lettere che ha voglia di mettersi in gioco, di imparare, di viaggiare, non è per esempio preclusa la qualifica di amministratore delegato di una società. Basta avere la cultura mentale del cambiamento, perché passare dalle risorse umane all’amministrazione, soprattutto in una multinazionale, oggi può essere all’ordine del giorno”.
Ovvio, non stiamo incoraggiando un laureato in lingue a fare il neurochirurgo, ma quello che emerge dalle parole di Roberto Martino è che in certi ambienti la predisposizione personale conta più di ogni altra cosa. Per questo “è importante non solo abbracciare il cambiamento, ma cercarlo”.
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