L’acciaio di Taranto, il burro della politica

Dall’attenzione dei governi di centrosinistra al cono d’ombra del governo gialloverde. Da città che è stata al centro di un corposo intervento legislativo a città che da un lato sembra diventata marginale per l’agenda dell’esecutivo, e dall’altro è fonte di seri problemi per i 5 Stelle nel rapporto con la base e con l’elettorato. Ecco […]

Dall’attenzione dei governi di centrosinistra al cono d’ombra del governo gialloverde. Da città che è stata al centro di un corposo intervento legislativo a città che da un lato sembra diventata marginale per l’agenda dell’esecutivo, e dall’altro è fonte di seri problemi per i 5 Stelle nel rapporto con la base e con l’elettorato. Ecco Taranto oggi. Certo, i decreti per tenere aperta l’Ilva hanno avuto una parte preponderante, ma non si possono dimenticare i diversi tavoli istituzionali aperti, dal porto alle bonifiche ambientali. E ancora il contratto di sviluppo – nato da una legge nel 2015 – oppure le norme che hanno consentito ai lavoratori Ilva di percepire ammortizzatori sociali (i contratti di solidarietà o la cassa integrazione) economicamente rinforzati rispetto agli altri lavoratori.

 

Taranto e l’operato del centrosinistra

Non si può negare che dai governi di centrosinistra – Letta, Renzi, Gentiloni – Taranto sia stata una realtà attenzionata. Certo, questi esecutivi si sono trovati nel pieno della bagarre Ilva. Il governo Letta, per esempio, a giugno 2013 decise di commissariare l’azienda, affidandola a Bondi e Ronchi, perché i Riva – colpiti da un sequestro della magistratura di Taranto – avevano mollato il board con dimissioni in massa.

Il governo Renzi ha dovuto affrontare più di una criticità per la vita dell’azienda, ma è stato anche quello che ha messo in pista il contratto istituzionale di sviluppo con alla base l’idea di facilitare una ripresa che facesse leva su asset diversi dall’acciaio: il museo archeologico nazionale, i beni culturali, il restauro e la valorizzazione della città vecchia di Taranto, per la quale è stato bandito un concorso internazionale di idee; e infine, le opere portuali, necessarie a rilanciare e a rendere competitiva nel Mediterraneo l’intera infrastruttura.

Infine il governo Gentiloni, che ha gestito la partita della gara per la cessione dell’Ilva conclusasi con l’aggiudicazione alla multinazionale Arcelor Mittal, la quale, rispetto al concorrente Acciaitalia (Jindal, Cassa depositi e prestiti), ha avanzato un’offerta che, sotto il profilo economico, ambientale e industriale, è stata ritenuta migliore da governo e commissari Ilva.

Certo, molte questioni discusse in questi anni non hanno trovato soluzione. Sono rimaste aperte e Taranto non è affatto uscita dal guado. Basta vedere che per la città vecchia l’input del concorso di idee non si è ancora tradotto in lavori e in cantieri – e nell’ambito di uno stanziamento complessivo per i centri storici del Sud, Taranto ha anche ottenuto 90 milioni del Cipe. Oppure per il porto: dopo l’abbandono del terminalista Evergreen tra fine 2014 e inizio 2015 non è stato facile trovare un nuovo operatore che rimettesse in moto una banchina importante come il molo polisettoriale, nel frattempo ammodernato con una serie di lavori. Si è dovuti arrivare alla fine del 2018 per riscontrare l’interesse di un nuovo operatore a insediarsi a Taranto, il gruppo turco Yilport.

Comunque tra alti e bassi, tra alcuni risultati ottenuti e una evidente stasi su tanti altri versanti, non si può negare che il lavoro messo in campo dai governi di centrosinistra una sua logica, una sua finalità, l’aveva: avviare una progressiva ripresa di Taranto. Nelle scorse settimane, per esempio, si sono avuti i dati di partecipazione delle imprese al bando della reindustrializzazione che risale appunto a quegli anni: a fronte di un contributo pubblico di 30 milioni, sono arrivate proposte che prevedono investimenti per 60 milioni per un totale di agevolazioni chieste pari a 40 milioni e nuova occupazione prevista per 257 unità. E ora, invece?

 

La gestione pentastellata del capoluogo ionico

Il governo Conte, più nell’ala pentastellata che in quella leghista, perché quest’ultima finora si è occupata di Taranto poco quanto niente, ha fatto della riconversione della città una bandiera politica, elettorale, propagandistica; ma non è che in sette mesi di governo si siano visti fatti significativi. Mettiamo da parte la questione Ilva, dove il governo ha optato per la continuità dell’acciaieria, provocando così una profonda frattura tra 5 Stelle e base locale di riferimento (frattura che si è andata via via allargando, come dimostra l’accesa contestazione fatta ai parlamentari M5S dai cassintegrati Ilva lo scorso 17 febbraio). Il punto vero è che su Taranto, una volta archiviato il dossier Ilva col passaggio del siderurgico ad Arcelor Mittal con l’accordo del 6 febbraio 2018 al Mise, è di fatto scemata l’attenzione politica del governo.

Una questione su tutte. Messo in pista il contratto di sviluppo, sia l’esecutivo Renzi che quello Gentiloni ne hanno affidato il coordinamento a Claudio De Vincenti, prima sottosegretario alla presidenza con Renzi e poi Ministro per il Mezzogiorno con Gentiloni. De Vincenti quasi ogni mese ha tenuto a Roma, a Palazzo Chigi, ma più spesso in Prefettura a Taranto, una riunione per fare il punto della situazione e cercare di mandare avanti i progetti. In gioco una dote di circa un miliardo tra fondi vecchi, recuperati e riassegnati, e fondi nuovi assegnati. È indubbio che non tutto si è sbloccato, non tutto ha camminato secondo le aspettative: i ritardi ci sono stati e ci sono, ma almeno c’era un’attenzione costante. E oggi?

Da quando si è insediato, il governo Conte non ha più fatto una riunione che sia una sul contratto di sviluppo. Si pensò, mesi addietro, che dovesse toccare al Ministro per il Sud, Barbara Lezzi, il coordinamento dell’iniziativa. E invece Lezzi disse subito che se ne sarebbe occupato il Ministro per lo Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, per avere al Mise una regia unica. Sta di fatto, però, che nulla si è mosso. Anzi, per diverso tempo si è avuta l’impressione che l’attuale Governo volesse mettere da parte il contratto di sviluppo per pensare ad un nuovo strumento.

La scelta del premier Conte di aprire e sottoscrivere contratti di sviluppo nell’area di Foggia, in Basilicata, in Molise e in Sardegna, però, fa capire che il Governo non li ritiene desueti, altrimenti non sarebbero stati proposti. E ora si parla di una possibilità di ripresa, peraltro tutta da verificare, del Contratto per Taranto. In attesa di capire che evoluzione si avrà su questo fronte, quindi, i segnali dati finora dal governo sono stati deboli. È stato previsto, nella Legge di Bilancio, un Tecnopolo a Taranto con una previsione di nove milioni in tre anni. Si tratta di un istituto che avrà il compito di fare ricerca innovativa nell’ambito dell’energia solare e dell’economia circolare.

Sempre nella Legge di Bilancio è stata prevista una commissione speciale per la riconversione economica di Taranto, con “lo scopo di assicurare un indirizzo strategico unitario per lo sviluppo delle aree ex-Ilva che ricadono sotto la gestione commissariale del gruppo Ilva, nonché la realizzazione di un piano per la riconversione produttiva del capoluogo ionico, anche in raccordo con il Tavolo istituzionale permanente per l’area di Taranto. Nel merito è autorizzata la spesa complessiva di 300.000 euro per il triennio 2019-2021. La commissione sarà presieduta dal Mise”.

 

Taranto: se il presente è incerto, il futuro lo è ancora di più

Tutto da verificare come funzionerà questa commissione e che cosa produrrà. Un punto è certo: sul piano delle politiche di sviluppo della città bisogna uscire dalla stasi, visto che ormai è quasi un anno che non si muove nulla. La Regione Puglia, con l’Assessore allo Sviluppo Cosimo Borraccino, segnala, per esempio, che del contratto di sviluppo a metà 2018 solo il 30% è stato realizzato. Ed è un dato che l’intervento per riconvertire a polo museale una parte dell’Arsenale della Marina Militare non è andato avanti.

Non vanno poi meglio le cose per la sanità. È in piedi il progetto per la costruzione di un nuovo ospedale a Taranto per migliorare la qualità dell’assistenza; si tratta di un progetto superiore a 200 milioni di euro, ma la fase dell’appalto non si è ancora vista. Considerato che per costruire il nuovo ospedale serviranno anni e che la domanda di buona ed efficiente sanità a Taranto è elevata, come dimostrano le malattie indotte dall’inquinamento, è evidente che le cose non vanno bene. Ha dichiarato sul punto il governatore pugliese Michele Emiliano: “Il governo ha avocato a sé la costruzione del nuovo ospedale a Taranto, che langue. Non voglio fare polemiche, ma questo ospedale non sta andando avanti”. E a tutto questo si aggiunge il fronte delle bonifiche ambientali dell’area esterna all’Ilva per le quali il commissario di governo, Vera Corbelli, ha sollecitato alle commissioni parlamentari anche una semplificazione delle procedure e uno snellimento degli iter decisionali, proprio perché Taranto non può attendere e perché questo è uno dei temi su cui si attendono risposte.

Il fronte è esteso: rione Tamburi, Statte, Mar Piccolo. E ora si è aggiunta la situazione delle collinette costruite negli anni Settanta a ridosso delle ultime case popolari del quartiere Tamburi, alle spalle delle quali c’è lo stabilimento siderurgico. Collinette ecologiche, le chiamarono, perché dovevano creare una barriera tra l’acciaieria e la città ed evitare che sulle case del quartiere si riversassero le polveri della fabbrica. Invece è stato scoperto che quelle collinette di ecologico non avevano e non hanno assolutamente nulla, piene come sono di rifiuti pericolosi, dalla diossina al pcb, tant’è che la procura le ha fatte sequestrare. Come si vede, molti i punti da riprendere, le questioni da riavviare. Da dove vorrà ricominciare il governo?

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