Poca informazione, tanto allarmismo, comunicazioni incoerenti. A una settimana dall’introduzione delle rigorose misure politiche e sanitarie per l’allerta coronavirus, Senza Filtro è andato dietro le quinte del lavoro italiano confermando, purtroppo, una cultura ancora fragile. Articoli di reportage La lezione di Zaia e Fontana: una politica di primedonne, manca un portavoce – di Frediano […]
L’impresa di costruire ponti
L’attività lavorativa si basa su speranza, idee, oggetti e servizi che saranno capaci di mostrare una prospettiva, di creare un valore. La speranza è strumento di superamento del conflitto (con i bisogni, con gli altri uomini, con la natura, con le economie), è corpo e significato dell’aprirsi alle cose. Per provare speranza, però, prima bisogna […]
L’attività lavorativa si basa su speranza, idee, oggetti e servizi che saranno capaci di mostrare una prospettiva, di creare un valore. La speranza è strumento di superamento del conflitto (con i bisogni, con gli altri uomini, con la natura, con le economie), è corpo e significato dell’aprirsi alle cose.
Per provare speranza, però, prima bisogna aver provato paura ed essere protagonisti anche passivi di conflitti: la speranza senza la paura, sempre risultato di uno scontro, anche interno, anche potenziale, non si manifesta. Si pensi quanto la paura della fame, del domani, la paura dell’isolamento, della perdita di ruolo, abbiano agito come motori fondanti delle imprese nel dopoguerra. Quanto il disagio dell’indeterminatezza e la speranza e la fiducia in se stessi muovano le nuove micro imprese, le startup.
Il conflitto è una dimensione dell’essere umani. Si esprime con diversi livelli di gravità e violenza che impattano nelle dinamiche dell’esistenza fisica, di quella psicologica, ma anche sul significato dell’essere sociali e quindi sulla costruzione di senso, vero prodotto del lavoro. Le guerre, le dittature, le rivoluzioni, sono esempi di esiti esplosivi e di usi strumentali del conflitto.
Le deflagrazioni su larga scala possono insegnarci qualcosa anche professionalmente. Il grande scontro è esito potenziale, ma anche simbolo di micro conflitto, perché se c’è la paura c’è anche la speranza e tutte le organizzazioni provano paura del futuro, del presente, talvolta anche del passato.
Due casi, estratti dalla storia, possono forse indicarci una via.
Il carattere non violento del conflitto: Nelson Mandela
One Nation, One Hope era il mantra, lo slogan mille volte ripetuto nei giorni luminosi della fine dell’apartheid, in Sudafrica; quelli delle elezioni, dell’Africa National Congress, di Nelson Mandela. Persone dell’etnia xhosa zulu vivevano nella Città della Buona Speranza, Cape Town, in una township chiamata Langa, una baraccopoli di un milione di abitanti.
Li ascoltavo ripetere il mantra ad ogni sorriso: una nazione una speranza.
Milioni di persone, dalle campagne e dagli altipiani, si erano spostate a piedi, per votare nella grandi città; Nelson Mandela stava vincendo; la segregazione razziale sembrava in quel momento avviarsi a diventare un reperto del passato e loro, i sudafricani oppressi, avevano scoperto l’elettricità e l’acqua corrente, la possibilità di una vita morbida.
Qualche tempo dopo, quando la speranza sembrava fatto compiuto, quando Mandela e gli xhosa presero le chiavi del potere, registrato l’approvazione del mondo, quando la parte più dura e cinica delle classi bianche – quelle che si erano arricchite con le miniere e lo sfruttamento, usando il conflitto e la repressione come arma principale – erano ripartite verso l’Europa, il Paese multicolore iniziò un profondo processo di revisione, fondato su incontri, su tavoli di confronto li chiameremmo oggi, operato dalle Waarheid-en-versoeningskommissie – Commissioni per la verità e la riconciliazione.
Lo scopo di queste commissioni era di raccogliere la testimonianza delle vittime e dei responsabili dei crimini commessi da entrambe le parti durante il regime: nelle commissioni si poteva chiedere e concedere (quando possibile, quando umano, quando il crimine era in qualche modo stato subito anche dal carnefice) il perdono per azioni svolte durante l’apartheid, per superarla per legge e per riconciliare oppressori ed oppressi.
Mandela ed i suoi scelsero di sanare le ferite del Sudafrica attraverso la costruzione di un dialogo tra vittime e carnefici, una modalità rivoluzionaria dopo la rivoluzione, tanto diversa dalla giustizia dei vincitori orientata alla sola punizione dei colpevoli. La speranza aveva prodotto un rivoltamento, aveva imposto il suo carattere non-violento. È stato questo, forse discutibile, forse incompleto, talvolta ingiusto, il tentativo storicamente più rilevante di dare un diverso significato all’orrore quando scaturito dalla pratica dell’errore.
Dal confronto aperto, su motivi ed esiti violenti della segregazione, è nato un nuovo Stato. Il processo non è ancora finito, serviranno probabilmente almeno due generazioni – siamo ancora alla prima.
Quello sudafricano è stato un tentativo basato sulla fiducia nell’umano, un modo di progettare un cammino del tutto diverso, un uscire dai modelli per costruire.
Le tensioni e le violenze sono ancora molte là. Non sappiamo se alla lunga la strategia sarà stata vincente: da Mandela abbiamo però imparato che creare un mondo migliore significa sempre far vivere la diversità attraverso il confronto, riconoscere il male fatto, accettare il fatto male.
Combattere nel nome di un nemico che non esiste: da Milosevic all’Isis
Nel mito orientale, per raggiungere l’aldilà, l’uomo attraversa un ponte sottile come un capello ed affilato come una spada. Per passarlo deve essere puro di cuore.
Il ponte di Mostar, in Bosnia Erzegovina, costruito nel 1566 dall’architetto Hayrüddin per il passaggio delle truppe ottomane verso Vienna, è stato distrutto il 9 novembre 1993 su decisione dello stesso comando che ordinava di riempire di granate gli pneumatici d’auto, per farli rotolare, in un atroce gioco del fato, dal picco del monte fin dentro i sottostanti quartieri musulmani della città. Lì è stato l’inizio dell’11 settembre. Milosevic chiamò un nemico che non c’era.
Mostar era un centro aperto alle diverse culture. Il ponte che collegava sul fiume Neretva le due parti della città era il simbolo di quella tolleranza. Lo Stari Most, il ponte vecchio, era il luogo della memoria che dava senso alla vita: è stato abbattuto per negare le possibilità di appartenenza e di coesistenza. Non c’erano state bombe islamiche a Srebrenica (8000 vittime in due giorni) e nemmeno a Mostar, perché il fondamentalismo, invocato a motivo della guerra, non esisteva. Furono quelle distruzioni a chiamare invece i mujahiddin del mondo, fornirono loro una causa per cui combattere. La strage delle torri gemelle era annunciata dalla distruzione di quel simbolo di incontro fra Oriente e Occidente.
L’Isis nasce là, in quel momento, in quella distruzione: fatalmente il 9 dell’11: lo stesso giorno della caduta del Muro di Berlino. Quattro anni prima, a New York tutto accadde, come più noto, l’11 del 9.
L’aspetto storicamente rilevante di quel ponte era nella sua architettura e nel suo uso, una scultura collettiva: un insieme di errori, corretti giorno dopo giorno, con una mescolanza di saperi artigianali e tecnologie, di mondi diversi per lingua, credo religioso, provenienze. La convivenza aveva un simbolo che parlava esso stesso di pensieri, fedi, visioni multiple. Il ponte è stato ricostruito e re-inaugurato nel 2004, la città è risorta, le anime no, l’equilibrio inter-religioso nemmeno.
Mostar ci insegna che l’aggressione alla convivenza ci avvia sempre verso una prospettiva nebbiosa, indeterminata, complicata.
La strada della Collaborazione
Collaborare, coesistere, condividere, sono verbi che oggi, nell’epoca delle reti, della on-demand economy, riconquistano prospettiva, lasciando pensare che siano atti nuovi, moderni, di futuro. Invece sono da sempre base e fondamento, ponti del vivere sociale.
Ogni ponte che sorge è un confine in meno e un incontro in più. I ponti appartengono a tutti perché costruiti nel punto in cui si incrociano le necessità e le diversità umane.
A voi gli orologi, a noi il tempo è un proverbio afgano. Ci dice che la speranza può essere un motore formidabile solo se arricchita dalla freschezza di un nuovo destino, da una visione della direzione. Per compiere imprese servono speranze conciliate con un chiaro progetto. Quanti programmi di formazione, di management, parlano della speranza che muove le cose e del tempo come potente arma da gestire.
Lavorare significa costruire ponti di senso, di relazione, di miglioramento; immaginarsi di operare nelle reti, senza un’autentica costruzione di senso, vuol dire ritrovarsi poveri di speranza e di prospettiva, quindi di futuro.
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