Nel romanzo “Manodopera” di Diamela Eltit un negozio di commercio al dettaglio diventa lo specchio della società. Ecco la sua recensione.
L’incerta umanità di chi vende esseri umani
La storia di un trafficante in una Libia in macerie, al di là dei giudizi e di un manicheismo ipocrita. Recensiamo “Io Khaled vendo uomini e sono innocente” di Francesca Mannocchi.
Ferisce come la spada e modella come uno scalpello sul marmo la penna della giornalista Francesca Mannocchi, autrice di Io Khaled vendo uomini e sono innocente, Einaudi Editore. Un libro più da scrivania che da comodino, che non indora di certo la pillola rispetto alle tematiche che affronta.
Non si tratta di una cronaca, ma di una sorta di istantanea in bianco e nero che porta il lettore nella Libia del dopo 2011, quando la rivoluzione era stata tradita e i sogni di libertà legati alla deposizione del regime andavano in frantumi insieme ai progetti di vita di milioni di giovani.
Una Libia in pezzi e i suoi trafficanti: la storia di Io Khaled vendo uomini e sono innocente
Giovani come Khaled, che voleva fare l’ingegnere e si è ritrovato in un Paese ridotto a sangue e macerie. Un contesto in cui diventava importante imparare a sopravvivere per non farsi travolgere dalla povertà e dalla fame. Khaled lo studia e capisce in che direzione muoversi.
“Non so fare molte cose, io. Conosco il sistema, mi faccio usare, lo uso. Il bilancio finora è stato positivo. Non voglio cento uomini sotto di me, mi bastano quelli che ho. Se allunghi il filo, perdi l’ago, diceva nonno. E io l’ago me lo tengo stretto: un piede nel traffico degli africani e un piede nella sicurezza di chi succhia il nostro gas.”
Servono braccia forti, giovani spavaldi, assetati di vita, che non temono di scendere a compromessi né di lasciare la propria casa, i propri affetti, il proprio Paese, pur di andarsene. Servono donne giovani, in salute, disperate al punto di lasciare le proprie case mettendosi nelle mani di sconosciuti che in cambio di soldi le portino lontano, in un altrove in cui sognano di trovare lavoro e libertà. Khaled sa come e dove trovarli.
“(…) Le persone comuni, i poveracci, cercheranno il modo di sopravvivere strisciando nelle fessure delle minacce e delle estorsioni, e quando i poveracci saranno stanchi delle minacce e delle estorsioni, busseranno alla mia porta. ‘Fammi lavorare, ho bisogno di soldi’. Oppure ‘Fammi partire, non ne posso più’”.
L’ultima, orribile mediazione: come lavora un trafficante di uomini?
Questo diventa presto il suo lavoro. Khaled capisce dai loro sguardi e dalle loro parole se fanno al caso suo e se rispondono alle richieste dei suoi committenti, e fa da mediatore. È la legge della domanda e dell’offerta a scandire le sue giornate. Qualcuno chiede manovalanza, qualcun altro si offre e lui soddisfa queste richieste. Come un’agenzia interinale, ma al posto di un ufficio con bacheche colme di annunci e pc, dietro i quali gli impiegati riempiono moduli incontrando ogni giorno decine di aspiranti lavoratori, Khaled si muove nel buio, senza lasciare traccia.
Tra le macerie di Misurata, dove dopo la caduta di Gheddafi la guerra ha diviso ulteriormente il Paese nordafricano, il giovane Khaled vende uomini. Uomini e donne. Uomini e donne e bambini. Il suo ufficio sono le rotte migratorie, sono le strade che dall’Africa subsahariana portano verso la Libia, sono le onde del Mediterraneo, da una sponda e dall’altra. C’è chi lo giudica e lo condanna, Khaled, il trafficante, ma spesso chi pubblicamente lo stigmatizza nell’ombra lo sostiene.
Quella che per un lavoratore comune è l’esperienza, quel patrimonio di insegnamenti acquisiti giorno dopo giorno, di sfide, sconfitte e successi, per Khaled è il “non sentire più nulla”. Il suo salto di carriera consiste nel non provare più emozioni di fronte alla sofferenza, alla morte e alla sparizione in mare della sua mercanzia: le vite di altri esseri umani.
Una scrittura che mostra l’umanità dei migranti e dei trafficanti
Il punto di vista del lavoratore-trafficante viene mostrato in tutta la sua complessa realtà, in un esperimento empatico davvero difficile da affrontare, che però non richiede né una condanna, né un’assoluzione. Riflettere, aprire gli occhi, farsi domande: è questo ciò che esortano a fare le parole dell’autrice, che in Libia ha documentato la guerra, i carri armati e le bombe, le contraddizioni e gli interessi della geo-politica internazionale, ma anche le piaghe, le ustioni, i segni delle frustate, il racconto degli stupri, la paura negli occhi dei civili e di un’umanità ridotta in schiavitù.
La scrittura di Francesca Mannocchi sa essere dura e gentile al tempo stesso, capace di mostrare il protagonista nella veste di carceriere e trafficante della sua merce umana, ma anche in quella di figlio, in dialogo con una madre che ama; madre che però sospetta, perché dai muri penetrano le voci e le madri sanno sempre cogliere negli sguardi dei figli il loro stato d’animo: “Le mura dicono che i tuoi soldi sono sporchi”, Khaled.
I soldi, il business, il lavoro per qualcuno, la morte per altri. L’autrice riesce magistralmente a far scendere i lettori dal piedistallo delle proprie certezze e della tentazione del giudizio, restituendo a queste figure, i migranti e i trafficanti (di cui troppo spesso sentiamo parlare come se fossero alieni, fantasmi lontani), un volto umano che li rende simili a noi, richiamando così alle responsabilità dei singoli e dei governi a nord del Mediterraneo.
Perché leggere Io Khaled vendo uomini e sono innocente
Questa è una lettura fortemente sconsigliata a chi preferisce non vedere, non andare a fondo dei problemi che affliggono umanità a noi vicine, a chi preferisce ignorare le cause e le condizioni reali della questione migratoria, continuando a cullarsi in slogan rassicuranti.
È un libro che non si consiglia a chi non vuole avventurarsi in quei non-luoghi dove la linea che divide il bene dal male si assottiglia sempre di più, e vengono meno tutte le certezze. Se, invece, si desidera comprendere i segreti del mestiere di chi, come Khaled, compra, vende, imprigiona, tortura e vede spesso annegare in mare la sua mercanzia, il suo materiale umano destinato ai Paesi più ricchi del Mediterraneo e non solo, questo libro si rivelerà tristemente illuminante.
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