Mancherà il lavoro o mancheranno i lavoratori?

Molto si dice, e molto si legge, a proposito del mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro in Italia. A sproposito, sarebbe meglio dire: le pagine dei media e i social network sono piene di discussioni, interviste, corsivi – e dei relativi commenti, in una progressione inarrestabile – che descrivono tutti l’assurdo binomio tra […]

Molto si dice, e molto si legge, a proposito del mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro in Italia. A sproposito, sarebbe meglio dire: le pagine dei media e i social network sono piene di discussioni, interviste, corsivi – e dei relativi commenti, in una progressione inarrestabile – che descrivono tutti l’assurdo binomio tra milioni di aspiranti occupati che non trovano posti di lavoro e milioni di posti di lavoro che non trovano chi voglia occuparli.

Mismatch significa “mancata corrispondenza”: sarebbe la definizione corretta del problema se le imprese cercassero saldatori, informatici, o addetti ai servizi di assistenza alla persona in mezzo a una popolazione di giardinieri, sarti e carrozzieri. Ma la realtà è un’altra: i saldatori in cerca di occupazione ci sono, ma non trovano imprese in cerca di saldatori; le imprese in cerca di carrozzieri sono molte ma non trovano carrozzieri da contattare. Sarebbe più corretto parlare di “mancato incontro”, e ancora prima (ancora peggio) di “mancata comunicazione” tra la domanda e l’offerta di lavoro.

 

Mismatch, ecco i dati del rapporto Unioncamere e ANPAL 2018

Come spesso avviene nel nostro Paese, le discussioni e le prese di posizione su questo tema prescindono dall’analisi e dalla conoscenza dei numeri, e benché giornali, TV e web siano normalmente golosi di dati e tabelle, raggiungono grande visibilità mediatica grazie alla valenza politica dell’argomento e all’allarme sociale che esso suscita. Fino a superare il confine che dovrebbe separare l’ambito della politica, dell’economia e del diritto da quello del costume e del folclore: come è avvenuto quando l’AD di Fincantieri ha annunciato la ricerca senza speranza di 6.000 tecnici senza che di questo clamoroso fabbisogno di manodopera fosse mai stata data notizia in alcuno dei canali di comunicazione della sua società; o quando il sindaco di Gabicce Mare ha messo alla gogna i giovani italiani accusandoli di preferire la disoccupazione o il reddito di cittadinanza al lavoro stagionale presso gli alberghi e i ristoranti della sua città, senza preoccuparsi di descrivere (e di conoscere, prima) le condizioni alle quali queste occupazioni vengono offerte.

Eppure i numeri ci sono, sono dettagliati, sono facilmente analizzabili in base a diversi criteri di catalogazione e di valutazione. Li hanno raccolti a beneficio di tutti – imprese e lavoratori – Unioncamere e ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) nel rapporto 2018 sui programmi occupazionali delle imprese per i prossimi cinque anni, frutto della raccolta di dati attraverso il Sistema Informativo “Excelsior”.

Grazie a una pluralità di classificazioni – per settore di attività, per livello di specializzazione, per genere e per età del lavoratore, per area geografica – il rapporto descrive in modo capillare in che modo, nei prossimi cinque anni, la domanda e l’offerta del lavoro dovrebbero esprimersi per riuscire finalmente a incontrarsi. Inoltre offre la misura della “difficoltà di reperimento” incontrata in ciascun settore di imprese e per ciascuna categoria di lavoratori. Uno strumento preziosissimo non solo per avviare una politica del lavoro finalmente fruttuosa, ma soprattutto per aiutare gli aspiranti lavoratori, e le imprese che aspirano ad assumerli, a correggere gli errori del passato e del presente.

In più, il fatto che il rapporto punti a una previsione quinquennale offre uno strumento formidabile alle famiglie che devono aiutare i propri figli nella scelta del percorso di istruzione superiore e i diplomati nella scelta del percorso universitario, perché contiene indicazioni dettagliate su quali titoli di studio corrispondono e corrisponderanno alla maggiore richiesta di nuovi occupati quando quei cicli di formazione saranno completati.

Anziché appassionarsi, con tutta l’enfasi che la superficialità dei social media richiede, alle fake news dei carpentieri mancanti nei cantieri navali e dei giovani fannulloni che condannano alberghi e ristoranti dell’Adriatico a lavorare in affanno, sarebbe meglio accorgersi dell’esistenza di questi dati, raccolti e classificati in modo attendibile, aggiornati attraverso un bollettino mensile (nazionale e suddiviso per regioni) e, quel che è più importante, comprensibili a chiunque.

E sarebbe meglio farne tesoro, superando la modestissima fatica di scaricare e leggere un rapporto che, per fortuna di noi tutti, è pubblico (e linkato qui sopra). Certo, sarebbe facile anche per chi quel rapporto lo pubblica segnalarne l’esistenza in modo massivo, non solo attraverso i media specializzati, ma all’indirizzo delle famiglie, delle scuole, delle associazioni di impresa.

Provate a leggerlo. La vostra attenzione non sarà rivolta solo ai numeri inclusi nelle tante tabelle e nei tanti grafici, tutti facilmente comprensibili grazie a commenti chiari e sintetici, ma anche (soprattutto) alle definizioni delle competenze ritenute più importanti per un aspirante lavoratore, in relazione al lavoro che potrà reperire e che potrà essergli proposto.

 

Le competenze richieste per il lavoro di domani

Chi sta pensando di trovare un elenco dei titoli di studio più o meno gettonati è fuori strada: la catalogazione si articola tra competenze tecnologiche, richieste quale che sia il percorso formativo seguito; competenze comunicative, con la scoperta che ormai costituisce un criterio di selezione non solo la conoscenza delle lingue straniere ma anche la capacità di fornire e raccogliere informazioni in modo corretto in lingua italiana (!); competenze trasversali (ma sarebbe meglio definirle “caratteriali”), quali l’attitudine al lavoro in gruppo, la flessibilità e la capacità di adattamento della persona. Da ultimo, ed è un dato molto significativo, la competenza green, intesa quale propensione della persona in cerca di occupazione al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale.

Penso – come cittadino e come genitore di figli adolescenti – all’estenuante dibattito ormai ultradecennale tra la “scuola delle conoscenze” e la “scuola delle competenze”. Mi sento preso in giro e mi arrabbio anche con me stesso per avere accettato la superficialità di una discussione che si rivela slegata dalla realtà.

Continuerei a dire: “Fuori le imprese dalla scuola!”, perché la pianificazione del numero di diplomati e laureati in ciascuna disciplina imposta dalle ragioni dell’economia nasconderebbe dietro lo schermo dell’efficienza un sistema de-umanizzato degno della Germania dell’Est prima della caduta del Muro. Ma questo non significa assolvere un sistema educativo che semplicemente ignora l’esistenza del mondo del lavoro e le sue dinamiche anche più elementari ed evidenti; né una politica del lavoro che rifiuta di mettere in contatto il mondo della scuola e quello dell’occupazione, producendo diplomati e laureati che non trovano lavoro (o che ne trovano uno insoddisfacente per sé e per chi li assume), abbandono scolastico e universitario, necessità di politiche assistenziali, esplosione dell’economia sommersa.

 

La politica nella storia del lavoro in cerca di lieto fine

A proposito delle colpe della politica. Il rapporto mette in evidenza un altro dato che deve farci riflettere. Tra i canali di selezione utilizzati dalle imprese, la conoscenza personale dei candidati, la segnalazione tramite conoscenti, amici e parenti e l’invio diretto del curriculum da parte della persona in cerca di lavoro sono infinitamente più efficaci rispetto ai centri per l’impiego, alle agenzie per il lavoro e alle società di selezione del personale. Questo dato dimostra, con risultati numerici indiscutibili, che anche la domanda e l’offerta del lavoro funzionano meglio se sono disintermediate, il che rende inutile e persino patetica la narrazione che la politica presenta della creazione di figure intermedianti come i navigator.

Se stessimo raccontando una favola a lieto fine, dal Regno dei Carpentieri seimila giovani valorosi avrebbero raggiunto con i loro arnesi il castello di Fincantieri in sella ai loro cavalli. La realtà descrive invece alcuni milioni di donne e di uomini – in prevalenza giovani e provenienti dal Sud – che partono con il solo bagaglio delle loro conoscenze e delle loro competenze con mezzi di fortuna (perché non hanno strade da percorrere, né treni su cui salire, degni di questi nomi) in cerca di lavori lontani.

Il lieto fine c’è lo stesso: perché quel bagaglio di conoscenze e di competenze, misconosciuto e svalutato a casa loro, esprime tutto il suo preziosissimo valore in altri luoghi e in altri ambiti culturali e politici. Dove la domanda e l’offerta di lavoro si incontrano eccome, dove i livelli retributivi sono semplicemente onesti e non umilianti, dove esiste, ed è percepito all’unisono dalle imprese e dai lavoratori, il collegamento tra merito, regole, conoscenze, competenze, fabbisogno occupazionale.

È a lieto fine, e per di più non è una favola. Basterebbe scriverla anche qui in Italia, nel Paese dove i navigatori una volta andavano d’accordo con gli inventori e con i santi, e non pretendevano di fare da mediatori tra loro.

Photo by Pop & Zebra on Unsplash

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