Per i veleni di Napoli l’antidoto è a Nisida

Ragazzi giovani e giovanissimi, alcuni precocemente genitori, che interpretano la violenza come mezzo di espressione, realizzazione, progressione sociale, status, spesso con una disarmante insensibilità verso le vittime. Degrado sociale e familiare, associazionismo criminale, abbandono scolastico e mancanza di sbocchi lavorativi: sono i mattoni del muro virtuale che divide l’area metropolitana di Napoli in tante tessere […]

Ragazzi giovani e giovanissimi, alcuni precocemente genitori, che interpretano la violenza come mezzo di espressione, realizzazione, progressione sociale, status, spesso con una disarmante insensibilità verso le vittime.

Degrado sociale e familiare, associazionismo criminale, abbandono scolastico e mancanza di sbocchi lavorativi: sono i mattoni del muro virtuale che divide l’area metropolitana di Napoli in tante tessere di un puzzle in cui dove nasci fa la differenza. Forcella, Secondigliano, Barra, Ponticelli, Scampia sono solo alcune delle tessere avvelenate, dove associazioni cattoliche e laiche lottano quotidianamente una guerra che non possono vincere, e Nisida accoglie i giovani già sconfitti dalla vita.

Gianluca Guida dirige Nisida da più di venti anni. Un uomo dello Stato che ha sempre privilegiato il momento della rieducazione. Un direttore che ha fatto del carcere minorile un centro sperimentale volto al recupero, alla formazione, al reinserimento dei detenuti, per aiutarli a costruire un futuro diverso.

Molteplici le attività svolte all’interno del penitenziario per consentire soprattutto di imparare un lavoro. I ragazzi partecipano a incontri con i familiari delle vittime della criminalità. Uno spazio dedicato alla genitorialità. Il 18 settembre scorso si è svolta la quinta edizione del Premio Responsabilità Sociale Amato Lamberti; dal 2002, il penitenziario è sede di un Centro Studi Permanente Europeo sulla devianza, scelto per l’esperienza in modelli sperimentali di intervento in favore dei minori a rischio di devianza o già sottoposti a regime penale. L’isola di Nisida è stata prescelta per la presenza di strutture tradizionalmente destinate ai giovani dell’area penale, e per la positiva sperimentazione di modelli di intervento nei confronti di giovani a rischio di devianza o sottoposti a provvedimenti penali dell’Autorità Giudiziaria minorile.

“Abbiamo vissuto momenti difficili e momenti entusiasmanti. Tra questi voglio ricordare ben due successive visite di verifica della stessa Commissione, che è arrivata a indicare il nostro approccio all’esecuzione penale minorile come un modello al quale guardare. Ripensando a questi anni trascorsi la prima cosa che mi viene alla mente è sicuramente lo straordinario patrimonio di umanità che mi hanno trasmesso i ragazzi che ho conosciuto, ma anche la convinzione che la camorra si può sconfiggere, e infine la grande responsabilità che abbiamo noi, uomini delle Istituzioni, nel dare risposte credibili ai bisogni di crescita dei ragazzi della nostra città.”

 

 

Lei è un direttore di carcere minorile, un educatore, un progettista di percorsi di formativi. Quanto è difficile presidiare una struttura che si occupa del recupero della devianza giovanile e della trasformazione degli uomini di domani?

Io preferirei definirmi un dirigente dello Stato, che cerca di esercitare la propria funzione in maniera coerente con l’etica professionale. Le difficoltà nel nostro agire quotidiano sono sicuramente riconducibili alla necessità di trovare sempre nuove strategie per dialogare con generazioni di ragazzi che sono in costante e veloce mutamento. Ma i problemi maggiori, sinceramente, vengono da una burocrazia amministrativa che rende tutto lento e spesso inutilmente formale.

Un minore che entra in carcere è una sconfitta della società. Un recidivo che rientra è una sconfitta per l’istituzione carceraria, intesa come centro educativo di riabilitazione e reinserimento?

La recidiva è sicuramente una sconfitta. Però quello che io ripeto a me stesso e ai miei collaboratori è che non dobbiamo farci prendere dalla sindrome del “io ti salverò a ogni costo”! Noi dobbiamo offrire opportunità rispettando i tempi con i quali i ragazzi riusciranno a coglierle, e sapendo che sul buon esito influiscono anche tanti fattori rispetto ai quali noi possiamo fare poco.

Perché accade?

Ogni ragazzo ha i suoi tempi. L’uscita dalla devianza e da una scelta di vita criminale impone un cambiamento di stile di vita e questo richiede tempo e maturità. Bisogna saper attendere, con pazienza.

Quanto influisce il degrado socioculturale di provenienza ?

Si sa che la devianza è un fenomeno multifattoriale determinato da più cause che possono co-determinarlo. Il modello familiare, gli stimoli culturali dei media televisivi, l’assenza di educazione, l’incapacità degli adulti di sapere essere presidio e riferimento, la stessa capacità di scelta dei ragazzi tra i modelli proposti sono tutti elementi che concorrono nel determinare storie di “ordinaria” devianza.

Lei siede su un punto di osservazione autorevole per esaminare le dinamiche di abbandono scolastico in diretta correlazione col fenomeno della devianza minorile. Mi racconta dal basso il contesto sociale di Napoli?

I ragazzi che arrivano da noi hanno da sempre e nella quasi totalità un bassissimo livello di istruzione. Alcuni elementi di osservazione in questi anni mi hanno portato a formarmi l’idea che già il fatto di nascere in contesti deprivati di stimoli culturali ha fatto di loro bambini che hanno avuto difficoltà già nella prima scolarizzazione; difficoltà che si sono poi amplificate e trasformate in veri e propri disturbi dell’apprendimento che hanno reso il loro curriculum lento e faticoso. Sostengo da tempo che Napoli dovrebbe cominciare a dotarsi di una rete articolata di servizi a sostegno della genitorialità, compreso un maggior numero di nido e di asili.

Il degrado sociale di certe zone come influisce sullo sviluppo educativo prima e lavorativo poi dei minori ?

Io credo che sia necessario ritornare a dare valore al bello nei quartieri del degrado! In molti si interrogano, e io mi sento tra questi, se possa essere fondato sostenere che l’esperienza di bellezza possa avere un peso nella costruzione della personalità. D’altronde la bellezza, per lungo tempo è stata ritenuta in grado di condurre verso la verità e il bene; è impossibile rinunciare alla perfezione del bello, da sempre identificato con i concetti di armonia e benessere.

Come può la bellezza coniugarsi, oggi, con il disagio? Come può coesistere con il malessere abitativo, con un vivere non correlato al bene?

Recentemente la psicologia ambientale cerca di porre in luce come non sia possibile predire il comportamento umano senza tener conto del “dove” esso si svolge. L’ambiente e l’architettura hanno influenze fondamentali nel formare la nostra identità, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Ugualmente, l’uomo è l’essere vivente che più di ogni altro può modificare l’ambiente per adattarlo ai propri scopi attraverso cambiamenti del territorio e scelte architettoniche. Occorre migliorare la fruibilità degli spazi da parte delle categorie di utenti più indifese, con un beneficio per tutti, anche per chi debole non è.

Perché in certi ambienti la scuola, le istituzioni, non riescono a strappare i giovani alla strada? Che cosa manca all’istituzione scolastica per avviare un ciclo virtuoso di legalità?

La scuola e gli insegnanti sono spesso una trincea in cui pochi sparuti soldati sono rimasti a difendere il confine, mentre troppi servizi che pure hanno una rilevante funzione sociale sono ormai abbandonati. In più agli insegnanti non è più riconosciuto un ruolo educativo e questo è un grave danno perché la sola “istruzione” – cioè il passaggio di competenze – non basta a formare le persone.

Napoli, il centro da cui provengono per lo più i “suoi” giovani. Perché la strada, la via “facile” anche se pericolosa, è quasi sempre la prima scelta per chi proviene da zone a forte degrado ambientale? Per questioni di disagio familiare, per questioni di mancanza di sbocchi lavorativi, per emulazione?

Per i giovani la strada, la piazza, il vicolo sono le componenti della loro formazione caratteriale; in questo contesto, impregnato di illegalità, i minori si modellano. In quest’ultimo secolo la città è cambiata radicalmente e lo spazio del degrado, i territori fragili, le periferie, sono la rappresentazione reale e fisica di questo passaggio obbligato e non ancora compiuto, carico di contraddizioni, di tensioni, ma anche di possibilità e di aperture. Le periferie non sono solo luoghi da curare ma più integralmente luoghi di cui prendersi cura, perché spazi che danno forma al cambiamento e alla trasformazione che qui si annuncia più forte, carica di dubbi e incertezze, di difficoltà e di distorsioni. Negli ultimi anni anche a Napoli si torna a parlare del valore urbanistico di certe periferie prendendo spunto dal dibattito circa la necessità o meno di procedere all’abbattimento delle vele di Scampia. In questi luoghi gli unici spazi di aggregazione per i ragazzi, non essendoci verde o aree attrezzate, rimangono le sale giochi e i bar, dove i boss di zona conducono i loro affari; così il minore già incomincia a prendere confidenza con l’ambiente deviante in cui è costretto a vivere. Il minore, oltre a vivere il disagio derivante dalle continue rinunce imposte dalle ristrettezze economiche, ha l’ulteriore svantaggio di abitare in un contesto ambientale esterno caratterizzato da alto indice di devianza e criminalità, nel quale i servizi essenziali invece che essere garantiti dallo Stato sono offerti dalla malavita. Questa continua esposizione potrebbe portare il giovane in crescita, mosso da spirito di emulazione o ammirazione per coetanei dalle tasche piene di soldi, a cadere nella trappola della criminalità, ritenendola unica via d’uscita da una situazione generale drammatica. Coloro che si trovano in una situazione di maggior debolezza e fragilità, che magari hanno problematiche di indigenza alle spalle o che hanno maggiori difficoltà a socializzare, possono essere spinti alla marginalità o, peggio ancora, all’accesso alla criminalità organizzata, contesti questi che si presentano fortemente attrattivi in quanto più semplici e ricchi di opportunità.

Mi racconta la cultura del lavoro, a Napoli, da “dietro le sbarre”? Voglia di riscatto o male da evitare?

Nella cultura occidentale esiste la convinzione che il lavoro costituisca una dimensione fondamentale dell’esistenza dell’uomo, ancor più se ristretto. Per di più oggi lavoro è sempre più sinonimo di produzione di ricchezze, fonte generatrice di reddito. In questo senso il lavoro rappresenta ancora una peregrina illusione per la maggior parte dei ristretti. Negli ultimi anni molti istituti di pena hanno cercato di dare risposte a questa attesa realizzando iniziative che producano lavoro. Grande estrosità e fantasia caratterizzano le strategie di marketing di questi progetti, che puntano su denominazioni di sicuro effetto come i “vini fuggiasco” e “fresco di galera”, l’ abbigliamento “codice a sbarre” o “made in carcere”, le uova “al Cappone”, il caffè “lazzarelle” o i prodotti di bigiotteria “a mani libere”. Come vedete una realtà variopinta ed eterogenea, ma sicuramente marginale e di nicchia. Neanche noi ci siamo tirati indietro rispetto alla sfida, favorendo la creazione di alcune associazioni come “I monelli tra i fornelli”, che si occupa di pasticceria e catering, il marchio ‘Nciarmato a Nisida per la realizzazione di prodotti in ceramica, oppure “fritti e panelle” per la produzione di prodotti da friggitoria. Tuttavia forse questa logica dell’assioma “lavoro = recupero del detenuto” è ormai obsoleta. Oggi molti operatori preferiscono, nell’ottica del reinserimento, operare prevalentemente sulla linea della terapia occupazionale o ergoterapia, tralasciando l’incentivazione della capacità di generare reddito. Le occupazioni, più ancora del reddito, sono fondamentali per l’identità e il senso di competenza dell’utente. Partendo dalla considerazione che i nostri ospiti tendenzialmente presentano scarsa autostima, umore labile, bassa tolleranza alla frustrazione, precoce utilizzo di alcol, fumo e sostanze psicotrope, iperattività/impulsività, ci è sembrato che fosse la linea operativa da adottare a Nisida, cercando di intervenire su quella particolare inabilità determinata dalla cultura deviante di appartenenza che li orienta a valori antitetici a quelli propri della cultura del lavoro (applicazione, costanza, impegno, capacità di lavorare per e con il gruppo). Una inabilità, come si intuisce, determinata dalle ambizioni e dallo stile di vita criminale. Prima ancora che la funzione manifesta di produrre beni, il lavoro produce anche una serie di funzioni latenti: chi lavora acquista una legittimazione sociale (è accettato dalla società in quanto, lavorando, si crea un proprio ruolo sociale); il lavoro spinge a una affermazione personale attraverso un consolidamento della personalità e stimola il soggetto alla crescita, a migliorarsi. Così si apprende che avere un lavoro non è sinonimo di “quanto mi dai” ma vuol dire, prima di ogni altra cosa, garantire una realizzazione della persona e poi anche una certa continuità nel tenore di vita, nelle relazioni affettive e, più in generale, nella vita sociale.

Contenimento, formazione e reinserimento. La ricollocazione in un contesto lavorativo può essere intesa come leva di cambiamento culturale?

Sicuramente il lavoro aiuta, anzi è indispensabile, ma sempre se prima è maturata una coscienza critica e una scelta di vita diversa.

Quanto ritiene che la mancanza di lavoro alimenti la spirale degenerativa?

Il lavoro può essere una concausa, ma sarebbe banale ritenerlo “la” causa della devianza. Avere la disponibilità di un lavoro può aiutare, ma solo se alla base si è scelto un modello di vita congruente al “benessere” che il lavoro può dare.

Voi, come istituzione, vi occupate del recupero della persona, della formazione scolastica, della formazione lavorativa e del reinserimento nella società. Perdoni la provocazione, ma se poi il giovane si reinserisce nel tessuto urbano di provenienza e si scontra con un lavoro che non c’è, le possibilità di “successo” calano drasticamente. Non crede che il mondo del lavoro in genere, e delle imprese in particolare, dovrebbe fare la sua parte venendo maggiormente incontro soprattutto ai vostri ragazzi, intesi come soggetti più deboli della catena produttiva?

Siamo tutti consapevoli che la realtà oggi del mondo del lavoro offre poco o nulla per i nostri ragazzi e che sarebbe dovere delle imprese fare di più per favorire l’inclusione lavorativa. Una delle sfide che il nuovo millennio pone ai paesi industrializzati è quella della solidarietà nei confronti delle fasce più deboli della società e dell’impegno da profondere a sostegno di tutti coloro che, a qualche titolo, sono socialmente svantaggiati. Tuttavia io sono convinto che la responsabilità sociale non può essere solo la tensione ideale di uno, di pochi, o di una categoria sociale; bensì deve essere un sistema organizzativo che nasce dalla mission collettiva e che coinvolge tutti i cittadini. La responsabilità sociale non è beneficenza o filantropia, ma è un modello di efficienza e di efficacia capace di grandi risultati, senza intaccare gli interessi dei cittadini onesti; anzi, dà un ritorno a lungo periodo superiore agli investimenti. E proprio in quest’ottica la responsabilità sociale può diventare un grande investimento: uno strumento competitivo attraverso il quale coniugare la crescita sociale con il miglioramento della qualità della vita. Tutti siamo chiamati a essere attori della solidarietà: associazioni, enti, istituzioni, cittadini e aziende. Nessuno può sentirsi escluso.

Lo chiedo a lei, che ha affiancato tanti giovani: una strategia vincente che possa far recuperare la dignità e il riscatto sociale passa attraverso il lavoro?

Vede, la nostra mission è restituire una dignità smarrita educando alla libertà. Se la libertà e un bene, un valore da difendere, dobbiamo però domandarci quale sia la libertà che libera; cioè quella che realizza il nostro essere uomini, che permette di esprimere (liberare) la nostra dimensione. Oggi sembra che essere liberi voglia dire rimuovere ogni ostacolo fisico alla “libera autodeterminazione”, primi fra tutti l’autonomia economica; ma questo è solo in parte giusto. La libertà deve trovare un senso solo nella responsabilità verso gli altri, la possibilità di apertura al bene, dovere di solidarietà e di partecipazione. Per questo la libertà crescerà nella stessa misura in cui saremo capaci di far crescere in ciascuno il senso e il valore della responsabilità sociale. Il lavoro sarà un valido aiuto.

 

Nisida e oltre: il reinserimento attraverso il lavoro

Oggi la realtà del mondo del lavoro, in Italia, offre poco o nulla, mentre sarebbe un dovere delle imprese fare di più per favorire l’inclusione lavorativa.

Il paradosso ancora vigente è che il reinserimento sconta ancora, nel mondo lavorativo, del marchioio ho sbagliato”. Servirebbe una programmazione, un tavolo tecnico di lavoro congiunto tra imprese, amministrazione, istituzione carceraria. Sarebbe un dovere per le amministrazioni cittadine e regionali curare l’effettivo inserimento dei giovani nel tessuto produttivo o imprenditoriale partenopeo. Già il solo fatto di sottrarre manodopera alla criminalità organizzata dovrebbe bastare come spunto.

La lettera scarlatta è ancora li, a segnare indelebilmente il rapporto fra datore di lavoro e dipendente.

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