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Quando la politica è un prodotto, gli elettori sono consumatori
La politica continua a utilizzare tecniche di comunicazione derivate dalla pubblicità: il risultato è la superficialità delle argomentazioni e la passività degli elettori, il cui compito si esaurisce nelle urne. Ma i dati indicano che il prodotto-politica è sempre più difficile da vendere
“Con Giorgia”, “Più Italia! Meno Europa”, “Al centro dell’Europa”, “Insieme per l’Europa che vogliamo”, “L’Italia che conta”. Ecco gli slogan dei maggiori partiti italiani nella campagna elettorale per le elezioni europee dell’8-9 giugno prossimi. Sono poche, pochissime parole, come è normale che sia, quando si tratta di slogan. Alcuni non fanno neppure lo sforzo di veicolare un messaggio politico: lo slogan del partito di governo è solo un invito a sostenere la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
La comunicazione politica prima di queste elezioni europee evita spesso la strada del messaggio preciso e razionale per fare appello alle emozioni: l’antipatia per l’Europa, la simpatia per i leader, la generica volontà di unirsi e far parte di una comunità. In altre parole, quella comunicazione richiama le tecniche e i linguaggi delle campagne pubblicitarie, che hanno come obiettivo vendere un prodotto facendo appello a un immaginario, invece di comunicare un messaggio: per vendere un’automobile tramite uno spot non si spiega nel dettaglio come funziona il motore o la qualità delle finiture, ma si trasmette l’idea della libertà facendola sfrecciare veloce per una strada di montagna.
La politica raccontata dalla pubblicità
La scelta pubblicitaria della politica italiana viene da lontano (dopotutto Silvio Berlusconi, trent’anni fa, prese alcuni quadri del suo nuovo partito dalla sua agenzia pubblicitaria Publitalia), ma precisi motivi sociali, culturali ed economici fanno in modo che sia percorsa ancora oggi.
Nella nostra società, in cui “politica” è quasi una parolaccia e l’impegno in un partito è raro fino all’inesistenza – come dimostrano, tra le altre cose, i numeri dei tesserati ai partiti – il cittadino deve essere raggiunto non più come attore protagonista del processo democratico, quanto piuttosto facendo appello alla sua altra identità che gli è assegnata nel sistema economico: quella del consumatore. Un consumatore disattento, non tanto per limiti suoi, ma perché nell’economia dell’attenzione troppe cose competono per qualche prezioso istante del suo tempo. Gli smartphone e le serie televisive, i flussi di post sui social network e le nuove uscite dei podcast; notifiche e aggiornamenti tirano in continuazione l’utente-consumatore per la giacchetta.
Anche i partiti allora si devono inserire in questo flusso, provando a strappare un momento di interesse con messaggi tanto attraenti quanto poveri di contenuti: nel Partito Democratico si è scelto lo slogan “insieme per quello che vogliamo”. Ma che cosa si intende, di preciso, per l’Europa “che vogliamo”? E insieme a chi la si vorrebbe costruire, in una società così stratificata e divisa? Il centrosinistra e il PD di Elly Schlein non sembrano in grado di trasmettere all’elettorato un messaggio chiaro e coerente.
Dall’altro lato dello spettro politico, per ottenere davvero “più Italia e meno Europa” ci sarebbe bisogno di una strategia articolata e complessa. Si vuole raggiungere questo risultato facendo alleanze con Paesi allineati sui nostri interessi (ma quali interessi, poi, di preciso?) e facendo fronte unico al momento delle decisioni importanti, oppure viceversa, mettendosi in mezzo sulle decisioni importanti e minacciando la paralisi istituzionale? Al netto del fatto che il luogo istituzionale per mettere in pratica queste strategie sarebbe, con ogni probabilità, più il Consiglio dell’Unione europea che il Parlamento di Strasburgo.
Temi superficiali per elettori passivi
La vaghezza dei contenuti dietro gli slogan si ricollega a tanti mali antichi delle competizioni europee per come sono vissute da noi. Si è parlato pochissimo, ad esempio, del merito dei problemi dell’Unione europea; anche se, a dir la verità, tale mancanza è dovuta sia alla complessità di spiegare e comprendere i meccanismi decisionali dell’UE, sia al ruolo dello stesso Parlamento europeo, che non è davvero quello di dirigere il corso futuro dell’Unione. Ma nei veri motori decisionali dell’UE, come la Francia e la Germania, l’idea di come l’Europa debba essere e di come la si voglia far diventare è ben più netta, come dimostrano i discorsi muscolari di Macron.
È ricomparsa poi l’abitudine, anomalia italiana, di candidare i leader dei partiti e addirittura del governo, anche se tutti sanno che in caso di elezione non si dimetteranno certo dalle cariche per andare a fare gli europarlamentari. Anche in questa scelta si vede il trionfo dell’apparenza sulla sostanza, l’uso della candidatura come un altro degli stratagemmi per vendere un prodotto.
Un prodotto sempre più difficile da vendere, nel caso della politica, vista la crisi dell’interesse da parte dei cittadini. Il grafico dell’affluenza mostra un calo inesorabile: l’elezione diretta del Parlamento europeo esiste dal 1979 e quell’anno andò a votare l’85% degli aventi diritto, surclassando la media dell’Unione che si fermò al 62%. Da allora però le percentuali nostrane sono andate quasi sempre in discesa, fino al 66,5% del 2009 e al 54,5% della tornata precedente, quella del 2019.
Per cercare di arrivare al cittadino, disinteressato quando non ostile al mondo della politica, la comunicazione deve inventarsi trucchi sempre nuovi. Perfino quello di mettere da parte la politica in senso stretto. Non a caso Matteo Salvini sceglie da tempo una comunicazione sui social network che commenta di frequente casi di cronaca a uso dei suoi 2,3 milioni di follower su Instagram: omicidi, incidenti stradali, casi di animali abbandonati, la reazione di un genitore a un’insufficienza scolastica della figlia. Se il prodotto principale (il sostegno a un partito e a una linea politica) vende poco o è in crisi, uno dei modi per provare a tenere alte le vendite (nella nostra analogia, i voti) è provare a proporre qualcosa di diverso (il commento ai casi di cronaca), sperando che il beneficio in termini di immagine e di ampliamento del pubblico si estenda anche al core business.
La politica odierna, non diversamente dalla pubblicità, prevede la passività implicita del cittadino-consumatore. Proprio come nell’ambito commerciale, al cittadino non si richiede di essere parte attiva del processo democratico, né che le sue attività vadano oltre il voto: un’azienda non può certo ambire a che i suoi clienti diano una mano a produrre quanto vendono. Allo stesso modo, i partiti oggi cercano dal cittadino-consumatore un comportamento che si esaurisce nell’urna: a guardare la comunicazione dei leader, le campagne di tesseramento passano in sordina, e la partecipazione alle attività di partito nei circoli – peraltro in crisi da anni anche per i partiti più strutturati – non è mai parte del messaggio.
Un prodotto sempre più difficile da vendere
Come si evolvono la società e i mezzi di comunicazione, così cambia anche la politica e il modo in cui se ne discute. Non ci sono da rimpiangere tempi d’oro inesistenti, né epoche in cui gli slogan trasmettevano concetti profondi e riflessivi. La comunicazione politica veicolata per lo più dai social network, però, non sembra fare molto per distinguersi dalle strategie di una grande azienda pubblicitaria, né nei modi, né nei linguaggi.
Intendiamoci: nelle scelte di voto rientrano molti altri elementi, e non sarebbe corretto raffigurare gli elettori come semplici soggetti passivi, sballottati di qua e di là dal marketing elettorale. Negli ultimi dieci anni circa, le urne hanno via via premiato tutte le forze che si sono presentate come nuove e, soprattutto, che non avevano esperienze pregresse di governo: dal Movimento 5 Stelle nel 2013 e 2018 a Fratelli d’Italia nel 2022. Tale fatto, unito alla partecipazione in costante calo, dovrebbe segnalare con chiarezza qual è l’opinione di una parte importante dell’elettorato sulla classe politica che a ogni tornata elettorale chiede di rappresentarlo.
Se la politica è un prodotto, chi dovrebbe comprarlo sembra gradire sempre meno.
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