La completa assenza di regole in tutto il Sud del mondo e in tutta l’area asiatica ha fatto danni enormi dal punto di vista ambientale. È così?
Nel 2011 abbiamo iniziato a fare campionamenti nei grossi distretti tessili e il problema fu subito evidente. Abbiamo fatto analisi anche in posti inaccessibili, con risultati drammatici. Così abbiamo avviato la campagna Detox, un percorso difficile perché il settore tessile è frammentatissimo, pieno di piccoli fornitori e subfornitori difficili da individuare. Scoprimmo subito che i colossi non avevano la conoscenza della loro intera filiera produttiva: Gucci, Armani, Prada, Levis, Adidas e Nike, tanto per dirne alcuni, non conoscevano i loro fornitori. Quando abbiamo cominciato a fare i test sulle acque in diversi Paesi del mondo siamo riusciti a ricostruire una filiera che a loro era quasi sconosciuta. Li cogliemmo del tutto impreparati perché non avevano nessun meccanismo di tracciabilità.
La vostra campagna Detox li ha esposti alla gogna mediatica, ma con quali risultati?
Li abbiamo messi davanti alle loro responsabilità, nei confronti delle comunità locali, che su quelle acque basavano il loro sostentamento, e nei confronti di tutto il mondo. Così li abbiamo forzati all’implementazione di un percorso di tracciabilità, una strada lunghissima che però sta dando risultati. Ma il cambiamento non è semplice, anche a causa della struttura produttiva del settore: tutte le lavorazioni a umido e le fasi di colorazione sono il regno della chimica, in mano a poche aziende multinazionali, e lì dentro, lo dico senza freni, ci sono le peggio porcherie. Ci sono sostanze estremamente cancerogene e i lavoratori ne pagano il prezzo più alto, perché non hanno sistemi di sicurezza e nessuna precauzione. Anche la lavorazione della pelle, ad esempio, è molto inquinante.
Quindi ci sono fasi della lavorazione più difficili da ripulire?
Fare una zip di un pantalone si porta dietro l’uso di metalli pesanti che sono molto problematici dal punto di vista ambientale; allo stesso modo è difficile eliminare il cromo dalla lavorazione della pelle. Dal 2011 siamo riusciti a sensibilizzare diversi marchi, e circa il 15 % della produzione globale ha aderito ai nostri standard. Oggi poi ci sono tante piccole e medie imprese che hanno messo in piedi sistemi di tracciabilità basati sulla nostra campagna, per cui anche i grandi marchi loro clienti se non hanno aderito formalmente a Detox hanno una produzione responsabile.
Leggevo dai vostri report che tante di quelle aziende sono italiane.
Vero, nelle nostre PMI c’è una grande capacità di innovazione, e quando gli imprenditori si sono resi conto che non potevano competere coi costi di manodopera dei Paesi del Sud del mondo hanno deciso di distinguersi per qualità. E oggi, per fortuna, qualità e sostenibilità vanno a braccetto. Attualmente abbiamo una bella collaborazione in atto con diverse aziende nel distretto tessile di Prato. Lì ci sono realtà che forniscono Burberry, Gucci e Prada; hanno cominciato a fare Detox e hanno sorpreso i loro grandi clienti. Immaginiamo Prada, ad esempio, poco attiva dal punto di vista della sostenibilità chimica, che si ritrova il piccolo fornitore di otto dipendenti che all’improvviso produce in maniera sostenibile.
Questo cambia tutte le regole del gioco.
Certo, perché dimostra che, se le piccole imprese possono essere sostenibili, anche le grandi non devono essere da meno: ad oggi, per esempio, alcune piccole imprese si sono attivate con un Chemical manager, una figura che in alcune grandi imprese ancora manca. Allo stato attuale, su 80 aziende virtuose, 60 sono italiane, e c’è da considerare un altro effetto: se le PMI che forniscono i grandi marchi seguono la sostenibilità, anche Gucci, Prada e Armani si ritrovano con un prodotto sostenibile. Il cambiamento è in atto e ha un effetto domino, ma le difficoltà sono ancora tante.
Se sulla chimica abbiamo fatto molti passi avanti. Dove dobbiamo ancora migliorare?
Il grosso problema è legato alla produzione mastodontica di capi di abbigliamento. Il fast fashion e l’ultra fast fashion dovrebbero essere fuori dal mercato. Dal 2000 al 2015 abbiamo raddoppiato la produzione di vestiti in tutto il mondo. Compriamo molti più abiti, ma li utilizziamo per meno tempo. Quindi da una parte servono le leggi, e le norme europee ci aiuteranno, anche perché di solito producono un effetto domino su scala globale, ma dall’altra parte bisogna sensibilizzare la popolazione e farle scoprire che cosa c’è dietro questo mondo. Dietro le etichette e i cartellini c’è una trafila che dobbiamo conoscere: se tutti sapessero che servono 2.700 litri di acqua per produrre una semplice maglietta forse ci penserebbero due volte prima di acquistarla. Il settore tessile costa tantissimo alla nostra salute e a quella del pianeta, e fa man bassa di risorse. Shein, ad esempio, produce una collezione al giorno, e questo sistema consuma con voracità materie prime non rinnovabili. Oggi gran parte del materiale che si usa nel tessile è composto di fibre sintetiche derivate dal petrolio (poliestere, acrilico), e quella è roba che non si ricicla. I numeri sono spaventosi: ribadisco che per fare una maglietta serve il quantitativo di acqua che noi beviamo in due-tre anni, e ci sono magliette che arrivano sul mercato a due euro.