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Serve cultura per mangiare al museo
Pausa pranzo al museo, all’interno di un ambiente bello per gli occhi e per l’anima in grado di trasmettere una sensazione di benessere emotivo; un ristorante di design e una tavola curata; un’offerta in linea con il luogo all’interno del quale ci troviamo. Si può? All’estero è già una cosa normale e diffusa. E in […]
Pausa pranzo al museo, all’interno di un ambiente bello per gli occhi e per l’anima in grado di trasmettere una sensazione di benessere emotivo; un ristorante di design e una tavola curata; un’offerta in linea con il luogo all’interno del quale ci troviamo. Si può? All’estero è già una cosa normale e diffusa. E in Italia?
Mangiare al museo: anche il cibo è cultura
Secondo l’ICOM (International Council of Museums) il museo è «un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquisisce, conserva, ricerca, comunica ed espone per scopi di studio, educazione e diletto, le testimonianze materiali dell’uomo e del suo contesto». I musei quindi, tra le diverse funzioni che sono chiamati ad assolvere, costituiscono il laboratorio principale per individuare e realizzare nuove soluzioni legate al tema della valorizzazione del bene culturale.
L’attività di valorizzazione consiste nel promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e nell’assicurare le migliori condizioni possibili di fruizione pubblica. Rientrano qui tutti gli aspetti che vanno dalla promozione alla didattica alla comunicazione del museo. Un esempio è quello del bookshop, ormai da tempo presente al termine di diversi percorsi espositivi: oggi è molto importante che sia curato nel design e contenga non solo libri attinenti la mostra o il museo. Nei bookshop ormai si trovano gli oggetti più disparati, al punto che hanno quasi perso la funzione originaria: ricordare attraverso un libro, o un oggetto, l’esperienza vissuta.
Me lo conferma in qualche modo anche Cesare Biasini Selvaggi, storico dell’arte, curatore e saggista, segretario generale Fondazione Selina Azzoaglio – Innovation through art: “I bookshop all’estero vengono valorizzati perché siano profittevoli; in Italia purtroppo sono spesso alienanti e non hanno un’offerta appealing. Raramente propongono un’innovazione o prodotti interessanti. Un po’ come avviene nell’ambito della ristorazione: il più delle volte all’interno dei musei troviamo bar simili a quelli presenti nelle stazioni ferroviarie, ma più cari. Non c’è legame col museo o con la mostra, non si parlano. Spesso anche gli orari di apertura e chiusura non sono allineati! Sono attività accessorie all’offerta museale che in Italia, al momento, il più delle volte non vengono utilizzate bene.”
Negli ultimi anni infatti si è diffusa anche da noi la moda di abbinare il museo all’aspetto gastronomico e culinario. Come a dire: arte e cibo sono prodotti del Made in Italy (o almeno di quello che ne resta, tra famosi marchi che hanno fatto grande la storia dell’industria italiana che sono passati a gruppi stranieri e prodotti italiani che però vengono fabbricati all’estero), espressione della nostra cultura, e possono andare a braccetto.
È un modo, questo, per parlare a pubblici diversi e cercare di attrarli all’interno del museo. E su questo i musei stanno spingendo molto. Il cibo è cultura e i programmi con protagonista la cucina ormai spopolano sulle nostre reti nazionali: se i cuochi fanno audience in tv, i ristoranti all’interno dei musei potranno pure allargare il target di riferimento e attirare un più alto numero di visitatori. L’idea è quella di aprire i musei.
Ristoranti nei musei, una grande potenzialità che rischia di attirare il pubblico sbagliato
“Ma i musei non sono mai stati chiusi!”, mi fa notare Guglielmo Gigliotti, critico d’arte, docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e redattore de Il Giornale dell’arte. “La moda della ristorazione abbinata al museo cerca di aprire il sito alla città e alla società, a un pubblico che non è aduso, attrarre persone di media cultura che solitamente, e diversamente, non frequentano molto i musei. Possiamo immaginare questo sistema come una ruota: al centro il museo, con la sua collezione di capolavori, e attorno le attività promozionali che si diffondono a raggiera, dal ristorante al dj-set. Tutta questa rete per me, antropologicamente e filosoficamente, è un errore. Soprattutto è sbagliato che un museo trovi necessario ideare e attuare una politica comunicativa persuasiva che attrae gente, sì; ma la domanda da porsi è se si tratti del pubblico giusto per il museo.”
È un po’ come quando si parla della differenza che intercorre tra viaggiatori e turisti, visto che siamo in tempo di vacanze. “Si lavora così su un turismo di massa che non va bene”, almeno se vogliamo guardare un po’ oltre l’orizzonte temporale del breve termine: il museo fa cassa nell’immediato, ma se ambisce a diffondere la cultura non è questa la strada migliore. “L’arte è una cosa difficile, va studiata, approfondita e amata. L’arte scava nella profonda essenza delle cose, scandaglia la natura misteriosa della vita. Non basta un bookshop o un ristorante per rendere più abbordabile o facile il contatto con questo edificio di bellezza e mistero. La cultura è elitaria: prima di chiedere un buon caffè in un museo bisogna aver letto da Proust ad Aristotele a Pascal, da Dostoevskij a Čechov; ascoltato Mozart, Beethoven, Wagner; studiato psicanalisi, storia del mondo e geografia. Perché l’arte è un’esperienza complessa e globale. Musei e città d’arte oggi sono pieni di gente che però non ha alcun interesse reale per quello che vede, che è soddisfatta con lo scatto di un selfie, così da poter poi dire ‘io c’ero’”. Con tanto di prova fotografica a corredo.
Mentre ascolto Gigliotti spiegarmi questo aspetto, mi si visualizza in mente una sequenza ben chiara e vedo un magnifico Jude Law, nei panni del Lenny Belardo di Paolo Sorrentino, che attraversa con passo rock il corridoio di un museo sul quale si succedono una serie di opere d’arte che sintetizzano la storia della Chiesa. Invece di guardare i capolavori che ha alle spalle, il nostro Young Pope sorride a favore di telecamera e strizza l’occhio al pubblico: io c’ero. Basta questo?
“Il museo ha deciso che deve fare entertainment, offrire divertimento per evitare che il pubblico si annoi. Ma forse se ti annoi semplicemente sei nel posto sbagliato. L’istituto museo può e deve cambiare, evolvere; è un processo storico naturale, ma richiede di essere seguito e gestito da chi conosce davvero questo mondo, con intelligenza. Non basta applicare le logiche da manager all’interno di un museo se non si conosce bene la realtà che si ha per le mani. Cambiare i musei senza conoscerli non va bene: il rischio che si corre con la ridefinizione del museo, dell’arte e della cultura, è la democrazia dell’ignoranza”, osserva Gigliotti.
“Purtroppo da noi mancano competenze di marketing. È un peccato, perché il cibo ha tutti gli elementi per integrare un’offerta culturale. Ma se non è diffuso il marketing nei musei e nella gestione museale non si può certo pretendere qualcosa di più dai ristoratori. Un’offerta integrata potrebbe aiutare. Diciamo che c’è da fare ancora un grande lavoro: va rivisto tutto il sistema di marketing, di offerta, dello svolgimento delle gare, tutto. Manca una cabina di regia unica. Le potenzialità, in termini di ritorni sia economici che occupazionali non sarebbero trascurabili”, conclude Biasini.
Foto di copertina: il Caffè Fernanda, parte del progetto di riallestimento della collezione della Pinacoteca di Brera a cura di Rgastudio.
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