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Silicon Valley, maschilista e patriarcale. Sicuri sia il modello giusto?
C’era una volta l’America e il decennio tra il 1960 ed il 1970, quello del boom economico e dello sviluppo tecnologico che mettevano in fila progresso e futuro. Nella Silicon Valley si lavorava a tamburo battente: ARPANET faceva nascere Internet collegando tra loro i primi quattro computer di un’università, e il mondo era a caccia […]
C’era una volta l’America e il decennio tra il 1960 ed il 1970, quello del boom economico e dello sviluppo tecnologico che mettevano in fila progresso e futuro. Nella Silicon Valley si lavorava a tamburo battente: ARPANET faceva nascere Internet collegando tra loro i primi quattro computer di un’università, e il mondo era a caccia di programmatori sempre più specializzati.
Per questo le aziende scelsero di profilare, attraverso la somministrazione di test attitudinali, 1200 uomini e 200 donne, al fine di costruire l’identikit del programmatore perfetto. Il lavoro fu affidato a due psicologi molto noti all’epoca, William Cannon e Dallis Perry, i quali giunsero alla conclusione che “il programmatore” per essere performante non dovesse “voler bene agli esseri umani”. Una conclusione netta.
Quindi i migliori programmatori furono considerati quelli più asociali, ovvero meno inclini a interagire col gruppo, meno empatici e con intelligenze emotive ridotte. Pertanto le donne, con naturali caratteristiche all’antitesi – il “sentire femminile” – vennero automaticamente escluse dal ruolo.
Questo criterio è stato adottato nelle selezioni di settore per diversi decenni, e infatti ancora oggi la sintomatologia del maschilismo verticale è presente nelle aziende a sud di San Francisco (e non solo), tanto da essere fenomeno di denuncia. Infatti, recentemente, la tagliente penna di Emily Chang, autrice di Brotopia: Breaking Up the Boy’s Club of Silicon Valley (Penguin Putnam Inc), ha ritratto uno spaccato deformato dal dominio maschile, non solo in fatto di ruolo aziendale, ma come approccio comportamentale maschilista e patriarcale che pone le sue basi sullo sfruttamento e le molestie a danno delle poche donne presenti nella Silicon Valley.
La Silicon Valley, crogiolo del management maschilista e patriarcale
La costruzione dello stereotipo e del pregiudizio indirizza le sorti culturali e dello sviluppo di una società. D’altra parte sappiamo bene che la mente umana lavora per categorie. Un’opinione rigidamente precostituita e generalizzata, che non valuta quindi i singoli casi, è il modus operandi della costruzione – silenziosa e strisciante – dei profili del maschile e del femminile in tutti gli ambiti della nostra vita.
Se in Silicon Valley, in cinquant’anni, si è imbastita la trama dell’equazione “maschile=successo”/“maschile=profitto” anche di fronte a evidenti segnali disforici, vuol dire che comportamenti e regole sociali acquisite (quindi date per giuste) sono riuscite a tratteggiare il posizionamento nella società degli uomini e delle donne di oggi.
La percezione di genere ha insinuato e insinua aspettative implicite sui comportamenti da tenere, innescando un autosabotaggio femminile che ancora adesso si determina con efficacia, facendo divenire l’identità una lente di ingrandimento attraverso la quale guardare se stessi e gli altri, il proprio ruolo e la divisione del lavoro. E, pertanto, l’attribuzione del potere.
La storia insegna: un’operazione di diminutio è iniziata forse con le teorie di Darwin, che rintracciavano le caratteristiche intellettive delle donne come “appartenenti a quelle delle razze inferiori o al convincimento che le regioni del cervello nelle quali si alloca l’intelletto fossero nelle donne di dimensione inferiore rispetto a quelle degli uomini”. Anche Broca affermava che “non possiamo perdere di vista che la donna sia in media meno intelligente dell’uomo”.
Per decenni psicologi, evoluzionisti e cognitivisti ci hanno raccontato tutto questo, costruendo sovrastrutture in merito alla percezione del femminile e riducendolo a ruoli di cura e affettività. La comunicazione ha fatto il resto: la narrazione della donna in veste di madre, casalinga, insegnante o oggetto del desiderio ha persuaso, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, che fosse esattamente quello l’orizzonte delle possibilità del femminile, creando un vero spartiacque tra i ruoli adatti o inadatti alle donne e indirizzandone le aspirazioni.
Gli stereotipi da combattere
I dati Istat più recenti sugli stereotipi dei ruoli di genere fotografano uno spaccato interessante indicando che quelli più comuni sono:
- “Per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro” (32,5%), “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%), “è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%). Quello meno diffuso è “spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia” (8,8%).
- ll 58,8% della popolazione (di 18-74 anni), senza particolari differenze tra uomini e donne, si ritrova in questi stereotipi, più diffusi al crescere dell’età (il 65,7% dei 60-74enni e il 45,3% dei giovani) e tra i meno istruiti.
Lo stereotipo più comune è quello inerente il successo nel lavoro; infatti il 32,5% delle persone tra i 18 e i 74 anni si dichiara molto o abbastanza d’accordo sull’affermazione che per l’uomo, più che per la donna, sia molto importante avere successo nel lavoro. L’opinione che gli uomini siano meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche è il secondo stereotipo (31,4%), seguito dalla convinzione che sia soprattutto l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia (27,9%). Meno radicata, invece, l’idea che in condizioni di scarsità di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli uomini rispetto alle donne (16,1%). Solo l’8,8% ritiene che spetti all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia.
Ma quanto ancora il femminile è vittima di questa costellazione di stereotipi? Per rispondere a questa domanda bisogna anche tenere conto della interiorizzazione del maschile patriarcale nell’organizzazione valoriale di molte donne. Non è facile essere portatrici di una visione antagonista quando tutta l’organizzazione culturale si edifica e si orienta in tal senso. In parallelo, quanto il maschile “vincente” riesce a restare protetto all’interno della scala sociale dei mercati del lavoro? Per quanto tempo ancora resteranno mute alcune inadeguatezze? Probabilmente in questo momento storico un po’ meno: così come il robot ha sostituito l’operaio stanco nelle catene di montaggio, in quanto più performante, si può accettare l’impiego delle donne là dove il requisito necessario sia quello dell’intelligenza emotiva.
Leadership femminile, non donne che imitano i leader maschi
Se è opportuna una rivoluzione interna ai sistemi aziendali, è anche vero che tutto il lavoro, in tema di intelligenza artificiale e di sviluppo, negli ultimi anni sembra capovolgere quanto fino a oggi è stato perpetuato come un mantra.
Le skills richieste sono cambiate, e anche nel marketing e nella comunicazione si opera verso un indirizzo che richiede la costruzione di relazioni di valore sempre più orientate alla ricerca delle caratteristiche di “bisogni e desideri” meno inclini alle asimmetrie di genere. Le aziende ricercano responsabili capaci di lavorare e coordinare il gruppo, “competenze gentili” che sappiano valorizzare i talenti, intelligenze smart in grado di mettere in collegamento gli aspetti di vision e mission con quelli di produttività e fatturato. Quindi nell’epoca 2.0 la cultura delle differenze non inciampa più nella dicotomia maschio-femmina, ma tende alla personificazione di certe caratteristiche in maniera soggettiva.
Tra l’altro persiste un equivoco di fondo rispetto al tema della leadership femminile autorevole: le donne pensano ancora di dover modellare la loro autorevolezza sugli standard maschili, quando il femminile autorevole, invece, deve essere pensato come una categoria in gran parte inedita e con delle carattaeristiche peculiari esclusive. Il modello della leadership femminile virilizzata è sorpassato, e non apre scenari di conquista ulteriori. Con questo non si possono escludere le differenze biologiche dei sessi, ma persino Jung aveva sostenuto che maschile e femminile sono caratteristiche presenti in entrambi i sessi.
Se nel tempo dello sviluppo dell’intelligenza articificiale, che ha come scopo quello della verosimiglianza all’intelligenza umana, i test attitudinali venissero riproposti, quasi certamente il profilo del “programmatore perfetto” corrisponderebbe a quello di un “programmatore femminile”. I modelli di business e di posizionamento della Silicon Valley necessitano quindi un aggiornamento rispetto alle dinamiche di leadership e di approccio.
Nell’era “Human”, il maschile e il femminile plurali sono diventati valori che non hanno più a che fare con il genere e che devono utilizzare come imperativo categorico la valutazione delle competenze soggettive, individuali e di merito.
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