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Ti amo, disse il noprofit alla rete
Quella fra il noprofit e la comunicazione digitale è una relazione seria, profonda, scoppiata in ritardo rispetto all’utilizzo che le aziende ne hanno esperito sin dagli albori. Sposati dopo alcuni anni di convivenza vivono un rapporto a volte burrascoso. Spesso negli anni la frase più ricorrente è stata: “Non abbiamo voce, nessuno ci conosce perché […]
Quella fra il noprofit e la comunicazione digitale è una relazione seria, profonda, scoppiata in ritardo rispetto all’utilizzo che le aziende ne hanno esperito sin dagli albori. Sposati dopo alcuni anni di convivenza vivono un rapporto a volte burrascoso. Spesso negli anni la frase più ricorrente è stata: “Non abbiamo voce, nessuno ci conosce perché nessuno ci ascolta”. Questa frase racchiude la storia di quelle organizzazioni che per troppo tempo hanno dovuto recitare la parte di Cenerentola anche a causa della scarsa disponibilità economica che potesse sostenere un piano integrato di comunicazione strategica.
Con la disintermediazione – non necessariamente considerata come fattore negativo – la comunicazione delle organizzazioni, ma in generale di tutti quelli che fanno il mestiere del comunicatore, è cambiata radicalmente. Attraverso i propri canali digitali (non più soltanto il sito statico e qualche news una volta tanto) le organizzazioni hanno potuto raccontare l’aiuto al prossimo prima con i post, con i video e le dirette poi: la storia e le storie sono diventate un diario quotidiano.
Ma a chi parliamo, come e perché.
A differenza del profit – dove le risorse umane se non motivate dalla passion why lo sono dal puro aspetto economico – per le organizzazioni di volontariato, o comunque vicine alle attività di welfare dove il volontariato è parte integrante, il fattore passionale e di relativo engagement è alto. Anzi, molto alto. Qui non si parla di un prodotto ma di azioni realizzate da persone che credono fermamente in alcuni valori. La moneta più bella con cui possono essere ripagati è la gratitudine per quanto fatto, il giusto riconoscimento e la visibilità che rende merito al loro operato.
Il primo livello di comunicazione è dedicato a loro, gli operativi che soprattutto in emergenza diventano antenne sui territori disagiati e permettono una narrazione costante della realtà. Ovviamente questo non basta e i piani di comunicazione devono necessariamente alternarsi ed intrecciarsi ponendo anche contenuti interessanti per un pubblico eterogeneo che conosce il terzo settore e che riconosce l’identità di una organizzazione attraverso le sue azioni. Contestualmente si lavora su un engagement ben più esteso verso pubblici che non ci conoscono ma che possiamo attrarre con contenuti di interesse più generale e verso stakeholder importanti come i giornalisti. La rete, in cui i social media la fanno da padrone, ascolta se stessa: è per questo che è utile capire quale possa essere il registro linguistico più adatto, cercare il tono più giusto, diversificando poi i contenuti per rafforzarne i messaggi stessi. Sarà l’analisi, alla fine del processo di comunicazione, ad aiutarci a comprendere la penetrazione del messaggio e l’efficacia ottenuta rispetto al più vasto pubblico sulla rete. Ma attenzione, non si può semplificare il messaggio per entrare nel flusso della talkative society traducibile con “società chiacchierona” (da Il Potere Socievole: Storia e critica dei social media, Fausto Colombo) per definire il flusso e un atteggiamento socievole in rete, pena la scarsa credibilità poi su temi ben più seri.
Il più bello dei mari è quello che non navigammo. Parola di Hikmet
Modificare il paradigma che porta dall’indifferenza all’ascolto, rendersi fonte per i media e motivo di interesse per i pubblici, azioni che per le noprofit valgono ancor di più per diventare attori attivi dell’agenda setting dei media. Dunque esistere sulla rete e narrare le proprie attività per rafforzare la propria identità è fondamentale, in emergenza è d’obbligo se si appartiene ad una organizzazione che opera in ambiti di soccorso. Parafrasando Hikmet, il mare più bello è quello che non navigammo. Nel caso delle noprofit – ma potremmo riportare lo stesso concetto per le profit – non basta avere una barca e stare in mezzo al mare. Occorre andare a cercare il buon vento e gli strumenti giusti per riuscire a gridare: Terra!
E dunque non basta semplicemente “aprire” qualche account e pensare di ottenere gli stessi risultati che nell’era analogica appartenevano all’adv a pagamento su giornali e tv. Occorre essere credibili, dare fiducia, creare delle opportunità di conoscenza o di approfondimento di alcuni argomenti legati al noprofit. Organizzare un piano strategico, avere degli obiettivi a medio e lungo termine, impostare un piano editoriale, ma anche questo non basta per chi si occupa della comunicazione d’emergenza. Si cercano allora protocolli condivisi che possono essere attivati sulla rete nel momento della crisi.
Raccontami una storia: la nostra
A differenza delle profit, oltre alla forza del brand, le no profit hanno a disposizione storie, quel materiale umano fatto di volontari e bisognosi, storie che spesso s’intrecciano e che creano altre storie. Il comunicato stampa, che pure trova posto sul sito, si trasforma e acquisisce un tono diverso sulla rete, prende un’altra forma pur mantenendo lo stesso concetto, che è poi spesso parte della mission. Con la disintermediazione è finito il tempo analogico dell’offline e ovviamente l’ufficio stampa ha dovuto evolversi aggiungendo il digital team, per chi se lo può permettere. Molto spesso è più una questione economica che di metodo. Quando ci si trova a dover gestire contemporaneamente le diverse azioni di comunicazione, a volte, per chi non ha un piano strategico, ancora oggi la cosa più semplice può essere la ricondivisione del comunicato pensando: “Così passa direttamente sulla timeline del giornalista “x” che ho aggiunto l’altro giorno!”.
La vita del comunicatore è cadenzata anche dall’attività di ricerca contenuti e un po’ come Diogene si procede con il lanternino per cercare di individuare la storia oltre l’attività. Quindi la relazione con i volontari è fondamentale: sono loro la preziosa miniera cui attingere. Insieme si cercano o si creano le foto e i video: sappiamo bene che nell’era del web e dei social media una buon foto e un video accattivante valgono più di 1000 parole. Infine il conversation calendar certamente aiuta molto, organizzare anche i tempi è fondamentale, sempre dopo aver analizzato il proprio pubblico. Il piano editoriale – che nel mio caso per mancanza di tempo rimane più mentale che sviluppato – è importante per tenere sempre alta l’attenzione di chi ci segue. Si impara ad “ascoltare” la rete, la prima misurazione dei risultati parte da qui.
Ho bisogno dei miei tempi e dei miei spazi
La reputazione, questa sconosciuta (o quasi), fin quando la rete non si è impadronita delle nostre vite. In realtà, la reputazione ai tempi della rete è ancor più importante per tutti: noprofit, profit, individui, istituzioni, siamo tutti sotto la lente d’ingrandimento. La sua costruzione in rete è un processo che può essere lungo e i risultati non giungere, come sogna il cliente, all’avvenuto pagamento della prima fattura o qualche settimana dopo aver iniziato il lavoro.
Occorre anzitutto fare un’analisi approfondita dello scenario e della gestione interna. Molto spesso si parte dall’ascolto di chi compone il board e dei volontari, sono loro la vera cartina tornasole della reputazione, sono loro che in taluni casi ne possono compromettere l’anima, magari senza rendersene conto fino in fondo. E sono fonte inesauribile d’informazioni. È un lavoro quotidiano, fatto con diversi strumenti di comunicazione, fra i quali certamente le relazioni con i media hanno il loro peso. Insieme però vanno utilizzate quelle leve che possono dare maggiore visibilità all’organizzazione attraverso quanto di più importante e positivo sia stato fatto negli anni.
La reputazione: come in tutte le storie d’amore ci si misura, si dialoga e si tengono sempre sotto controllo le minacce per non farle diventare punti di debolezza veri e propri.
Aiuto, siamo in crisi
E poi arriva quel momento. Capita a tutti, non vorresti mai ma in cuor tuo te l’aspetti. Invece io di crisi ed emergenze ci vivo. Occuparsi della comunicazione istituzionale e d’emergenza di un Corpo di protezione civile in Italia vuol dire affrontare molto spesso situazioni in cui la componente emergenziale è talmente elevata da costituire il nucleo centrale del contenuto.
A quel punto la relazione con i media cambia. Si rovescia completamente il paradigma e diventi fonte preziosissima non soltanto di informazioni ma anche e soprattutto delle storie da raccontare. Smetti di essere Cenerentola e diventi Lady Oscar, indomita e ricercatissima perché i media sanno che tu a quel punto costituisci il punto di contatto fra le storie e l’approfondimento senza sosta a cui ormai la rete ci costringe. Forse abbiamo fatto in modo che lo strumento ci scappasse di mano ed ora non sappiamo governare il processo se non alimentando continuamente contenuti anche dove si è consumato il dramma o dove palesemente si è già detto tutto, pena scadere nel cannibalismo mediatico.
Era l’aprile del 2015, durante il naufragio degli 800 migranti nel Mar Mediterraneo e il mio telefono ha squillato in continuazione per tre giorni, richieste continue perché gestivo informazioni e storie “inedite” – ben presto sentite ripetute decine e decine di volte – dai mezzi d’informazione italiani ed esteri. Ecco, in quel caso governare il processo è assai difficile perché sai che quello è uno dei pochi momenti in cui hai il picco massimo di visibilità, l’onda lunga dell’informazione e la possibilità di dare voce a chi lavora in silenzio nel mare ogni giorno, quando la notiziabilità è fatta soltanto da volontari e professionisti che amano il prossimo e credo fortemente in quello che fanno.
Continui e continui, senza pensare che forse sarebbe il caso di fermarsi ed organizzare meglio il lavoro, indirizzare i giornalisti verso altro, ma non c’è tempo e alla fine porti a casa visibilità, nuove relazioni ma anche il vuoto di aver utilizzato quel momento in cui forse si doveva solo restare in silenzio.
E vissero felici e contenti?
Soprattutto durante l’emergenza essenzialità e rapidità concorrono a creare il paradigma della comunicazione che impone la velocità come valore. Quanto finora detto assume, quindi, importanza soltanto a patto di ricordarsi che si sta sulla rete per comunicare – processo bidirezionale di interazione con il pubblico in cui è previsto un processo di feedback – e non soltanto per informare – comunicazione unidirezionale ente/cittadino. Pertanto, una comunicazione efficace crea interattività fra gli utenti e produce a sua volta due funzioni fondamentali: relazioni e contenuti.
Parlare da soli e pensare di essere ascoltati è il dramma e il terrore insieme dei cyber comunicatori.
Fermatevi un attimo, ascoltate quel sì e continuate il vostro matrimonio.
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