Quello delle ripetizioni è un business che insabbia ogni anno circa un miliardo di mancati contributi. Regolarizzarlo è possibile?
Tutti i professionisti dovrebbero imparare a volare
Secondo uno studio condotto nel 2003 dalla Commissione Tecnica sul Rischio Clinico (Ministero della Salute, Dipartimento della qualità, Direzione generale della programmazione sanitaria), sulla base di un’analisi retrospettiva, l’“inefficienza della comunicazione tra gli operatori è causa della maggior parte degli errori in ospedale”. Esaminando i piani di studio delle Scuole di Medicina, però, non si […]
Secondo uno studio condotto nel 2003 dalla Commissione Tecnica sul Rischio Clinico (Ministero della Salute, Dipartimento della qualità, Direzione generale della programmazione sanitaria), sulla base di un’analisi retrospettiva, l’“inefficienza della comunicazione tra gli operatori è causa della maggior parte degli errori in ospedale”. Esaminando i piani di studio delle Scuole di Medicina, però, non si trovano insegnamenti in tema di comunicazione.
Dal Rapporto statistico del settore civile della Corte di Cassazione del 2013 emerge che circa i 2/3 dei ricorsi sono rigettati (nel merito) o dichiarati inammissibili (in pratica per questioni di forma): stando alla statistica una buona parte gli avvocati amano il rischio o non sanno fare bene il loro lavoro. Nelle Scuole di Giurisprudenza si insegna il diritto, ma non la gestione dell’errore; è ancor più grave che temi simili non vengano affrontati nemmeno nei corsi di aggiornamento professionale obbligatori.
La situazione non è dissimile tra i magistrati: non si tratta di una mera ipotesi di chi scrive, ma del risultato della ricerca Extraneous factors in judicial decisions, uno studio empirico condotto dagli allievi del premio Nobel Daniel Kahneman, che nel 2011 hanno rilevato come l’esito dei provvedimenti giudiziari sia influenzato in modo preponderante dalle pause per il caffè e per il pranzo, mentre i profili tecnici, come la gravità degli indizi o i precedenti, restano sullo sfondo.
Henry Petroski, nel suo Gli errori degli ingegneri, rileva come “pur essendo estremamente istruttiva per ciò che riguarda la natura della progettazione e le tecniche di costruzione, la casistica storica è in gran parte assente dai programmi accademici per ingegneri”. Agli studenti, per esempio, non viene mostrato l’impressionante video in cui il ponte di Takoma si sgretola come un giocattolo, dopo aver subito una serie di torsioni per effetto di venti neanche troppo forti.
Non ho reperito dati organizzati sull’attività dei commercialisti, ma solo qualche informazione sporadica che mi consente di inferire che anche i professionisti di fisco e contabilità non possano dirsi immuni da errori. D’altronde sarebbe strano il contrario.
Infatti siamo tutti umani e soggetti per definizione all’errore: i professionisti non possono fare eccezione. Però, a differenza delle persone “normali” dovrebbero avere una capacità superiore alla norma di gestire i propri errori. O no? Professionista è solo colui che ha elevate conoscenze e competenze in un determinato settore? Dunque basta che il medico sappia tutto di chimica e biologia, il giurista di diritto e l’ingegnere di costruzioni?
Esiste un altro tipo di professionista, che non solo se ne intende di matematica, fisica e pilotaggio di aerei, ma si preoccupa anche del fattore umano, e dunque di errori. Anche perché proprio gli errori sono la causa dell’80% circa degli incidenti aerei. Due piloti che sanno tutto di volo ma che comunicano in maniera inefficace possono uccidere: è il caso dell’Air Florida 90. Un comandate sotto pressione che decolla senza autorizzazione può uccidere, com’è avvenuto nel disastro di Tenerife.
Lo studio del fattore umano, nell’ambito dell’aviazione, è una scienza in cui si intrecciano mirabilmente convenzioni internazionali e le esperienze di psicologi, ingegneri, analisti e detective. Il tutto con un unico obiettivo: imparare dagli errori – ed evitare che si ripetano. Ne risulta che l’aereo è di fatto il mezzo di trasporto più sicuro (0,03 morti per miliardo di chilometri, rispetto ai 3,1 dell’auto e 108,9 delle moto). Questo si spiega solo con l’immenso giro di soldi e di interessi che c’è dietro?
La risposta interessa fino a un certo punto: ogni professionista incide a modo suo sulla vita dei suoi clienti e dovrebbe fare di tutto per svolgere al meglio il proprio compito; anche colmare le lacune della propria formazione di base. O ci dovrebbero pensare i rispettivi ordini? Se il professionista si preoccupa di migliorare solo le sue competenze tecniche difficilmente potrà cambiare le sue performance, e comunque non nei casi in cui la défaillance è dovuta a mancanza di abilità trasversali.
(Photo Credits https://unsplash.com/@jonflobrant)
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