Scarica il podcast della puntata Marco Ceresa, originario di un piccolo paese vicino a Lecco, oggi vive a Bologna e lavora a Milano. Laureato in Bocconi, ha fatto carriera in Philips in Austria e Olanda prima di rientrare in Italia e approdare in Randstad Italia di cui oggi è Amministratore Delegato. Della provincia Marco […]
Un’azienda che innova davvero non si presta alle copertine di management
Uno dei grandi e onnipresenti mantra che sentiamo nei corridoi e durante le riunioni aziendali riguarda la necessità delle organizzazioni di innovare, innovare, innovare. Cambiano gli spazi di lavoro, sempre più strutturati affinché i dipendenti condividano le proprie idee tra loro e/o con l’azienda. Cambiano i ruoli, che si spostano verso nomi esotici come Enabler, […]
Uno dei grandi e onnipresenti mantra che sentiamo nei corridoi e durante le riunioni aziendali riguarda la necessità delle organizzazioni di innovare, innovare, innovare. Cambiano gli spazi di lavoro, sempre più strutturati affinché i dipendenti condividano le proprie idee tra loro e/o con l’azienda. Cambiano i ruoli, che si spostano verso nomi esotici come Enabler, Expert, Facilitator, Accelerator. Tutti appellativi che non lasciano ombra di dubbio: almeno sulla carta l’innovazione va spinta, sostenuta, facilitata.
I dubbi iniziano però a insinuarsi subito appena entrati in queste aziende. A fianco di costosi spazi di cambiamento e colleghi Enabler, Expert, Facilitator, Accelerator aleggia spesso un’aria ben poco innovativa. Anche a te è già capitato di percepire un disequilibrio tra quello che leggi sull’house organ aziendale e la tua percezione complessiva dell’organizzazione?
Se la risposta è affermativa e le domande sull’innovazione in azienda aumentano di giorno in giorno, sei nel posto giusto. Sia a livello di rubrica (dopo questo, leggi gli altri pezzi di Passaporto Digitale), che soprattutto a livello di contributo.
Oggi, infatti, ti presento Ivan Ortenzi.
In realtà, Ivan ha poco bisogno di presentazioni. Chief Evangelist del Gruppo Bip, è autore del recentissimo best seller Innovation Manager. Disegnare e Gestire l’Innovazione in Azienda per FrancoAngeli Editore. Complice un pranzo insieme, ne ho approfittato per saperne ancora di più sulla sua visione dell’innovazione nelle organizzazioni, cercando allo stesso tempo di sfatare alcuni miti da cui devi allontanarti il prima possibile.
Ma andiamo con ordine: buona lettura!
L’intervista a – o meglio, un pranzo con – Ivan Ortenzi
Ciao Ivan. Per rompere il ghiaccio parto con un tema libero: come vorresti attaccare per parlare di innovazione?
Buongiorno a te Alberto, e a tutti i lettori. Vorrei iniziare parlando di paura, una parola spesso scomoda in azienda. La provocazione del concetto di paura legata al management può in effetti sembrare forzata. Nei miei interventi cito sempre quattro leve che impediscono o limitano l’innovazione: la sicurezza, il controllo, il potere e l’assenza di rischio. Chi ha paura in azienda mette in discussione le proprie certezze e competenze perché si accorge che esiste un ambiente circostante che non lascia spazi di tranquillità. Il manager di oggi deve in qualche modo mettere paura alle persone, perché da un giorno all’altro tutto quello che c’è può finire. Al contrario, un contesto che preserva la sicurezza, il controllo, il potere e l’assenza di rischio non mette nel giusto livello di “allerta” la persona.
Prima di andare avanti, faccio un passo indietro. Aiutaci a capire qualcosa di fondamentale: che cos’è l’innovazione in azienda?
Dal mio punto di vista, è il successo raggiunto e ottenuto al di là dei processi e delle regole aziendali. Qualcosa che è arrivato al successo saltando strumenti, processi, competenze, schemi organizzativi e gerarchici. Qui sta l’ossimoro e il paradosso dell’innovazione: se tu sei in azienda – ovvero, all’interno di un contesto organizzativo dove l’innovazione “non accade” in modo autonomo, come poteva accadere per esempio nei primi circoli culturali o nella Factory di Andy Warhol – devi generare le condizioni perché ciò avvenga. Ovvero, l’innovation management e la conseguente professionalità dell’innovation manager. Ma questo va fatto con equilibrio: uno dei gravi problemi del concetto di innovazione è infatti la deriva che esso può prendere, trasformandosi nell’aperitivo degli startuppari oppure venendo costretto da policy e regolamenti corporate. Sta a ciascuno di noi trovare il giusto mix per stare “in mezzo” ai temibili poli.
A proposito dello “stare in mezzo”, recentemente hai parlato in alcuni eventi nazionali e internazionali delle tribù dell’innovazione. Come riconoscere gli innovatori, in azienda?
Gli innovatori stanno spesso nel mezzo. Questo è importante anche per capire chi reclutare. Può essere un mezzo di competenza (so qualcosa, ma anche qualcos’altro) o culturale; può essere un’intersezione. Gli innovatori sono dunque persone di intersezione, che non cercano solo ed esclusivamente successo professionale, ma piuttosto la gratificazione e la valorizzazione per le competenze che esprimono. Sono inoltre professionisti che sanno bilanciare molto bene quello che hanno in azienda e quello che hanno al di fuori di essa: occorre diffidare da coloro che, tolti dal contesto aziendale, si annullano e diventano incapaci di esprimere competenze. È importante per l’azienda che le persone, oltre al lavoro, facciano “altro”: colossi come Google ci insegnano come il lavoro sia solo una delle componenti per esprimere creatività e talento.
Oggi, a fianco della componente del “fare”, c’è anche quella del “raccontare ciò che si sta facendo”. Si parla molto di manager social (per approfondire il tema, consiglio un recente articolo di Giampaolo Colletti pubblicato su Il Sole 24 Ore), ben visibili sulle piattaforme digitali. Sempre più spesso vedo professionisti che conosco, e che non posso certo definire innovatori, che riescono però a posizionarsi come grandi attori del cambiamento della propria azienda. Sono sfortunato io oppure capita anche a te? Dove sta il confine tra forma e sostanza dell’innovazione?
C’è effettivamente un tema di forma, ovvero di comunicazione dell’innovazione. L’innovatore deve essere comunque bravo anche a comunicare all’interno e all’esterno le sue attività e i risultati ottenuti. Per capire se esiste una reale sostanza sottostante, occorre valutare due dimensioni:
- Coerenza (quanto ciò che viene detto si rispecchia nelle attività quotidiane effettivamente svolte in azienda);
- credibilità (la profondità di quanto viene detto o scritto dalla persona in questione).
La forma senza credibilità né coerenza diventa manierismo. Occorre avere la capacità di essere ben identificabili con i contenuti e studiare le specificità dei diversi mezzi di comunicazione (per intenderci, Twitter è diverso da LinkedIn), ma dall’altra parte bisogna essere coerenti e credibili. Solo così è possibile costruire una buona immagine di social leader dell’innovazione.
Passando invece all’interno delle aziende, nel tuo libro elenchi le principali frasi killer dell’innovazione. In che modo una persona che lavora in azienda, ma non nell’ufficio / funzione innovazione, riesce a riconoscere se l’organizzazione sta effettivamente intraprendendo un percorso strutturato di innovazione oppure se si tratta di semplice marketing interno?
Raccogliendo un po’ di stimoli letti nel corso degli anni, cito subito quattro segnali che fanno capire se un’azienda è a rischio di bassa innovazione:
- I dipendenti sono vestiti tutti uguali;
- i dipendenti usano tutti gli stessi acronimi;
- i dipendenti fanno tutti le stesse cose fuori dall’ufficio;
- l’azienda finisce in copertina di una o più riviste di management.
In generale, un segno indelebile che fa comprendere se l’azienda sta andando in una direzione virtuosa oppure no è certamente la comunicazione interna. Laddove una persona si rende conto che la comunicazione con i colleghi si atrofizza o segue forzatamente alcuni passi formali, deve scattare un segnale di pericolo. Questo è molto vicino al concetto di “azienda open”: per accompagnare l’open innovation (idee, ecosistemi, tribù) occorre anche progettare l’open company (comunicazione) e definire l’open culture (apertura). È sempre valida la frase che vige(va) in Pixar: “Se per parlare a un tuo collega devi chiedere il permesso almeno ad altri due, scappa”. Questa citazione rende bene il concetto dell’apertura e dell’open communication interna, a supporto di cultura e innovazione organizzativa. Cito infine la formazione: potrebbe essere interessante misurare un nuovo indicatore che calcola quanto la formazione ai dipendenti viene erogata sulle abilità “in core” o “out core” rispetto a ciò che l’azienda fa. In tal caso, mi aspetterei che aziende maggiormente impegnate in attività “out core” fossero più innovative e aperte.
Il tuo contributo all’innovation management
Ora torniamo a noi, caro lettore. Ti chiedo: che cosa significa per te e per la tua azienda “innovare”? Per stimolarti, ti lascio un video che ha ispirato Ivan in queste settimane: il TED di Jaron Lanier, How We Need to Remake the Internet.
Buona cultura digitale.
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