Un’Italia senza sapere

Il valore della conoscenza La società attuale è la società dell’informazione, caratterizzata da una nuova forma di capitalismo informazionale o immateriale (Manuel Castells, L’età dell’informazione): il cosiddetto capitalismo cognitivo (Enzo Rullani). Ciò determina un nuovo assetto del sistema economico nel quale la conoscenza diventa la principale forza produttiva e il valore di scambio delle merci, […]

Il valore della conoscenza

La società attuale è la società dell’informazione, caratterizzata da una nuova forma di capitalismo informazionale o immateriale (Manuel Castells, L’età dell’informazione): il cosiddetto capitalismo cognitivo (Enzo Rullani). Ciò determina un nuovo assetto del sistema economico nel quale la conoscenza diventa la principale forza produttiva e il valore di scambio delle merci, materiali e non, è determinato dal loro contenuto di conoscenze, di informazioni, d’intelligenza generale e non più dalla quantità di lavoro sociale generale che contengono (Andrè Gorz, L’immateriale: conoscenza, valore, capitale). La Knowledge Economy si basa sulle risorse intellettuali come il know-how e le conoscenze specialistiche e non più solo sulle risorse naturali, come l’agricoltura e le miniere.
Il sapere e l’istruzione sono capitale umano: veri e propri beni, prodotti e servizi intellettuali che possono essere esportati con alto profitto.
La conoscenza avviene attraverso l’apprendimento mentre la sua diffusione, l’informazione, avviene per riproduzione. Il costo di produzione della conoscenza è quindi molto incerto, mentre quello della riproduzione, una volta prodotta la prima unità, tende a zero. Si pongono infatti alcuni problemi legati alla proprietà intellettuale e ai diritti di controllo sull’opera e alle eventuali manipolazioni, strettamente legate alla tecnologia e ai mezzi di riproduzione.
La conoscenza si trasforma in capitale immateriale, liquido e difficilmente contenibile. Andrè Gorz sottolinea come le moderne economie siano caratterizzate da un progressivo spostamento dalla vendita di beni alla vendita dell’accesso ai servizi resi da tali beni.

Il costo dell’ignoranza

In questo contesto risulta molto preoccupante la situazione culturale italiana. Tutte le statistiche rilevano che il livello di competenze degli studenti e della popolazione adulta in Italia è basso, come basso è il numero di laureati e diplomati (che comunque non sono facilmente assorbiti dal nostro vecchio e scarno sistema produttivo) e debole è la partecipazione dei cittadini alla vita culturale. Un paese povero di risorse materiali e in ritardo come il nostro dovrebbe investire in formazione più degli altri Paesi e invece si continua a non avere una politica della conoscenza, fondamentale per la costruzione del nostro futuro. Gli investimenti in istruzione e ricerca ci costerebbero meno di quanto ci costa l’ignoranza (Giovanni Solimine, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia), invece si è investito in educazione e cultura meno della media europea, i consumi culturali degli italiani risultano del 27% più bassi che negli altri paesi e solo l’8% della popolazione partecipa ad eventi culturali (contro il 30% degli altri) con l’effetto che dal 2000 ad oggi la produttività dell’intera economia è cresciuta del 17% presso i nostri maggior partner europei, mentre da noi solo del 1%.

«Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza»
Derek Bok, rettore di Harvard

Un’Italia senza sapere

Ai tempi dell’unificazione d’Italia, Pasquale Villari denunciava che “non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti” (Villari, Di chi è la colpa? -1868). L’ignoranza era un nemico ben più forte dell’Impero austriaco e non aveva una divisa straniera, ma un volto ben noto da secoli. Oggi, a 150 anni di distanza, la situazione ancora non è rosea anche se con sfumature diverse. I dati dell’OCSE ci ricordano che il 70% della popolazione adulta del nostro Paese non possiede le competenze minime ritenute indispensabili per poter vivere da cittadini consapevoli nel XXI secolo. L’Italia è agli ultimi posti tra i paesi europei sia per quanto riguarda le competenze linguistiche che matematiche.
Il costo di questa ignoranza pesa come un macigno sulla possibilità di sviluppo del nostro Paese. I Paesi che investono di più in cultura ed istruzione sono quelli che viaggiano più veloci nella Società dell’Informazione. L’Italia invece ha la metà dei laureati e molti meno diplomati della media europea e conta uno scarsissimo numero (poco più del 3%) di persone occupate nei settori ad alto livello di innovazione. Questo è il risultato di un’Italia senza sapere, come sottolinea Solimine: i nostri governanti dovrebbero prestare più attenzione alla qualità del capitale umano.
Con la recente Legge 107/15 si è tornati ad investire nella Formazione, ma la diffusa disorganizzazione nell’attuazione pratica dei provvedimenti rischia di sabotare il processo di innovazione e di demotivare i protagonisti.

Potenziamento del percorso di formazione

L’Unione Europea vede nell’istruzione superiore un pilastro irrinunciabile per migliorare la nostra società e la nostra economia europee e la Strategia 2020 considera l’università come motore dello sviluppo economico e sociale. E’ necessario ed urgente che il sistema formativo italiano si allinei alle best-practice europee e inserisca meccanismi di valutazione come strumento centrale di governo del sistema, dalla programmazione alla ripartizione delle risorse, combinando l’esigenza della coesione e quella della sana competizione. Occorre favorire ed assicurare mobilità e diritto allo studio, sia in una comparazione con la media europea che nelle nuove dinamiche di collaborazione tra settore pubblico e settore privato. Le raccomandazioni per il potenziamento formativo sono da proporre al pubblico, al mondo accademico, ma anche e soprattutto ai decisori politici perché richiedono precise scelte strategiche sull’allocazione delle risorse pubbliche, allo scopo di rendere più equo e moderno tutto il sistema formativo italiano, per sviluppare ed accompagnare l’eccellenza alla strutturale funzione di sostegno allo sviluppo culturale e sociale (Giliberto Capano, Il costo dell’ignoranza).
Dal punto di vista metodologico è necessario integrare nel processo scolastico di insegnamento–apprendimento i tempi e le regole propri dei protocolli dell’interazione sociale e sviluppare le qualità legate alla resilienza (capacità di reagire prontamente ed efficacemente alle prove e sollecitazioni esterne) nelle persone in formazione: consapevolezza, iniziativa, indipendenza, creatività, allegria, interazione, etica (Innovative Design dei processi educativi scolastici, 2015).

Si tratta di qualità che non trovano spazio di sviluppo nella scuola trasmissiva del “programma” da svolgere. É necessario passare dalla “scuola delle conoscenze” alla “scuola delle competenze”: la moderna società liquida e tecnologica richiede lo sviluppo di capacità ed atteggiamenti che non possono essere insegnati ex cathedra (Giannoli, Andare a scuola non basta più alla formazione).
La competenza è la combinazione di diversi fattori tra i quali quelli che giocano il ruolo più importante di integrazione e di guida dell’azione, sono i processi intellettuali. La competenza non esiste in se’, ma deve sempre essere situata in rapporto ad un problema particolare e all’interno di un contesto specifico di riferimento.
Non esiste competenza che non sia competenza in atto, come sosteneva Lucio Guasti.

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