Automotive, due o tre cose da sapere per fare carriera all’estero

Sono anche loro il nostro made in Italy, i top manager di quella che l’economista austriaco naturalizzato statunitense Peter Drucker ha chiamato una volta per tutte “l’industria delle industrie”. Perché l’automobile, nonostante una deindustrializzazione avanzata, resta trainante per l’economia in molti paesi. E dall’Italia, non più centrale per la Fiat di Sergio Marchionne, continuano a […]

Sono anche loro il nostro made in Italy, i top manager di quella che l’economista austriaco naturalizzato statunitense Peter Drucker ha chiamato una volta per tutte “l’industria delle industrie”. Perché l’automobile, nonostante una deindustrializzazione avanzata, resta trainante per l’economia in molti paesi. E dall’Italia, non più centrale per la Fiat di Sergio Marchionne, continuano a partire manager che fanno fortuna all’estero. Pochi ai massimi livelli per un settore così ricco di opportunità, ma pur sempre un’altra faccia della troppo sventolata bandiera del made in Italy.

I tempi sono assai cambiati da quella metà degli anni ’80 in cui la Fiat stava per fondere le sue attività auto con Ford Europa. Allora, ci raccontarono una volta, furono in molti a Torino a mettersi a studiare l’inglese in previsione dell’ingresso dell’importante socio americano. L’accordo saltò all’ultimo momento, ma padroneggiare la lingua di Skakespeare fece bene comunque. Il cambio di marcia c’è stato con l’arrivo nel 2004 di Marchionne, cresciuto in Canada e praticamente bilingue: quando lui assume un nuovo dirigente per la sua Fiat Chrysler Automobiles, tiene il colloquio in inglese.

Incontrare questi e altri top manager nei Saloni dell’auto internazionali non è sempre come Forbes racconta con qualche ironia, ma è vero che fanno tutti parte di una vera e propria comunità. Oggi, al top della nostra legione straniera sono in due: uno è Luca de Meo, in carriera nel gruppo Volkswagen, l’altro è Daniele Schillaci appena assunto dalla Nissan (e strappato a Toyota Europe) per dirigere vendite e marketing a livello mondiale con sede di lavoro a Yokohama. Se con de Meo in Audi convive una piccola comunità italiana fatta di due designer e un manager – Alessandro Dambrosio al vertice del Konzept Design di Monaco, Simona Falcinelli a sovrintendere alla sezione “Color and Trim” di Audi e Giovanni Perosino alla pubblicità globale del marchio tedesco – in cima al design del gruppo Volkswagen c’è da anni (ma prossimo alla pensione) Walter de Silva, mentre fra Londra e Colonia Gaetano Thorel è direttore marketing di Ford Europe. Una lista che non si esaurisce qui.

“Sembra una banalità, ma ci dobbiamo adattare: la prima cosa è davvero imparare la lingua”, ci dice Luca de Meo, 48 anni, laureato alla Bocconi, trottola fra Belgio, Francia, Italia, Germania lavorando per la Renault, la Toyota, la Fiat, la Volkswagen. Ancora per qualche giorno nel board di Audi con responsabilità su vendite e marketing, dal prossimo 1 novembre de Meo sarà a capo del marchio Seat con sede di lavoro a Barcellona. Uno dei tanti effetti dello scandalo Volkswagen per la manomissione dei test sulle emissioni su alcuni motori diesel, che ha messo sottosopra i vertici del gruppo tedesco.

“La cosa più rilevante è capire in profondità il paese dove andiamo a lavorare – ci dice ancora de Meo – e per fare questo bisogna conoscere bene la lingua. È la prima regola per chi viene da paesi che non dominano la scena politica internazionale, che non hanno grandi corporation con propri modelli manageriali. Gli americani e gli inglesi ovviamente non hanno questo problema, come non ce l’hanno i tedeschi che appartengono a un sistema paese che li porta comunque a fare carriera. Infatti parlano tutti inglese, ma dopo due minuti passano alla loro lingua. E succede anche se parzialmente ai francesi, non sempre obbligati a rimettersi in gioco, mentre noi italiani dobbiamo sempre fare un salto. Ma posso dire che questa volontà di entrare nella nuova famiglia è molto apprezzata e ti rende differente”.

Gusto e creatività sono le qualità che spesso vengono attribuite dagli stranieri a imprenditori e manager italiani. Concorda? “Per dirla in latino, il nostro genius loci è trovare una soluzione semplice a problemi complessi. I tedeschi, per esempio, amano soluzioni complesse per problemi complessi”. Consigli per chi vuole andare all’estero a fare affari o a fare carriera? “Di entrare dentro il tessuto economico culturale del paese ospitante. Certo, esiste un meta sistema operativo di come si fa business nel mondo, ma non basta”.

Se de Meo promette di studiare seriamente per i prossimi sei mesi lo spagnolo, Andrea Formica, 54 anni, consulente internazionale dopo essere stato fra l’altro numero tre di Toyota Europe, direttore marketing di Ford UK, presidente di Ford Italia e amministratore delegato di Fiat, la vede diversamente. “Oggi non dovrebbe essere più così, ma ai manager italiani è stato spesso riconosciuto il talento, non l’affidabilità”. La percezione dell’italiano legato al cordone ombelicale del suo paese e della sua famiglia è venuta anche dall’”handicap di non avere aziende italiane pienamente globali nell’automobile, pagando il fatto che i gruppi dominanti sono altri”. Se i manager americani sanno essere “terribilmente razzisti” considerando solo gli inglesi come loro, i francesi tengono a governare nel mondo con propri uomini. Consigli a chi vuole fare il salto? “Di fare prima di tutto scelte personali che non siano di ostacolo alla carriera, di darsi una impostazione autenticamente internazionale. Bisogna dimostrare subito valore e qualità e vivere questa scelta come opportunità, non come sacrificio”.

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