Nord Est, più di cinquecento aziende vogliono superare la crisi con il digitale

Uno studio su cinquecento aziende del Nord Est mostra le prime reazioni dell’imprenditoria alla crisi: c’è preoccupazione ma si pensa già alla ripresa, nel segno del digitale e delle competenze trasversali dei dipendenti.

A ottobre 2020, Fondazione Nord Est e Umana hanno pubblicato un’analisi delle trasformazioni del lavoro dovute alla pandemia e non solo, emerse da una ricerca effettuata su oltre cinquecento imprese di tutti i settori e di tutte le dimensioni delle quattro regioni del Nord Est.

Da un lato c’è la forte incertezza degli imprenditori rispetto alle prospettive del lavoro. Dall’altro si contrappone la tendenza a una risposta pronta al nuovo contesto competitivo che va delineandosi, e che necessita di una revisione completa dei modelli organizzativi, delle competenze e delle strategie formative.

Con questi elementi, quale scenario prospetta lo studio rispetto al futuro del lavoro a Nord Est?

Imprenditori del Nord Est, preoccupazione con speranza di ripresa

Rispetto alla domanda di lavoro da parte delle imprese nei prossimi sei mesi quanto si considera d’accordo con le seguenti affermazioni? (val. %)

Fonte: Fondazione Nord Est – Umana (n. casi 518, sett-otto. 2020)

Gli imprenditori si dicono preoccupati per gli effetti che la pandemia sta avendo sull’economia. Tuttavia il 21,8% di loro che ritiene che ci sarà una ripresa dell’occupazione nei prossimi sei mesi. Questo soprattutto per alcuni settori, quali il farmaceutico (in crescita per 78,2 degli intervistati%), il digitale (72,5%), la sanità (72,3%), la logistica (46,3%).

Una richiesta di occupazione che però sarà strettamente legata a tre condizioni che per gli imprenditori caratterizzeranno questa nuova domanda:

  • profili professionali con competenze digitali (84,5%);
  • collaboratori in grado di lavorare in autonomia e per obiettivi (82,1%);
  • ricorso allo smart working (79,8%).

Assunzioni post COVID-19, si ricercano autonomia e nuove competenze. Quali?

Nella sua impresa nel corso dei prossimi dodici mesi le seguenti competenze/abilità saranno più, meno, ugualmente importanti rispetto a adesso?

Fonte: Fondazione Nord Est – Umana (n. casi 518, sett-otto. 2020)

Le soft skill, con la crisi sanitaria, sono al centro dell’attenzione delle imprese per dare risposta ai nuovi processi economici e di sviluppo, che si prospettano oggi come sempre meno lineari, e in cui diventa necessario gestire le incertezze e saper formulare strategie forti.

La strada per rispondere a questi cambiamenti sembra essere la possibilità di avere dei lavoratori ibridi, dotati di un mix di competenze. Fra le prime troviamo abilità trasversali, quali il saper gestire situazioni e problemi nuovi e imprevisti (43,7%), il saper essere autonomi e lavorare per obiettivi (40,9%), e il saper farsi carico di attività nuove e sfidanti (40,5%). Dei lavoratori resilienti, che non devono difettare però anche di conoscenze tecniche (23,8%) e digitali (30%).

Risposte e numeri che testimoniano con forza l’impatto dell’emergenza in atto nel modo di pensare degli imprenditori, convinti di dover modificare le modalità di lavoro, facendo leva sulla responsabilità dei singoli e sulla capacità di offrire fiducia da parte di manager e imprenditori.

La riorganizzazione delle modalità di lavoro, per gli imprenditori intervistati, richiede una formazione adeguata, che tratti non solo le modalità di lavoro da remoto, ma anche le nuove competenze per gestire i cambiamenti (73,2%), la sicurezza (70,6%) e i nuovi fattori di competitività, autonomia, imprenditorialità, e in generale le competenze trasversali (44,7%).

Nonostante la crisi e l’emergenza, la formazione è rimasta un’attività importante per le aziende del Nord Est, anche se è stato necessario ripensarla nei contenuti, nei destinatari e nelle forme (preferendo quando possibile l’e-learning). Infatti solo un quarto delle aziende ha sospeso tutte le attività di formazione.

Che cosa pensano dello smart working le aziende del Nord Est?

Leggendo lo studio salta subito all’occhio che il 42,7% delle aziende durante il lockdown ha fatto ricorso a questa modalità lavorativa. Una scelta allora imposta, che oggi lascia in eredità un’esperienza su cui, per l’80% delle aziende, si dovrà ragionare per ripensare a una nuova organizzazione del lavoro.

Questo numero riguarda però prevalentemente le prospettive di settori specifici, come quelli del terziario avanzato, della comunicazione, della finanza, dei servizi. Per il 92,9% delle imprese difficilmente lo smart working può essere attivato per il lavoro manifatturiero in fabbrica.

Perché lo smart working funzioni, le aziende sanno che prima di tutto serve un adeguamento di molti aspetti tecnologici, come la qualità della connessione, gli strumenti tecnici e il supporto per l’accesso da remoto.

In seconda battuta, come è necessario che i dipendenti abbiano buone capacità di saper lavorare in autonomia (87,1%), si percepisce anche l’importanza di una cultura manageriale che stimoli rapporti di fiducia con i propri lavoratori, in grado di definire obiettivi condivisi che garantiscano di strutturare le attività in smart working per produrre risultati e crescita delle imprese (74,2%).

Nonostante l’interesse, gli imprenditori mantengono comunque un certo livello di preoccupazione. Ad esempio, secondo il 73% degli intervistati questa modalità organizzativa porta con sé nel lungo periodo un rischio per il clima aziendale e l’ambiente di lavoro, e non genera necessariamente attrattività per le competenze pregiate (47,7%).

“Le aziende sono consapevoli di dover cambiare organizzazione. A partire dai manager”

Silvia Oliva, responsabile dello studio per Fondazione Nord Est, ci ha parlato della ricerca.

Che cosa vi ha colpito di più tra i risultati dello studio?

Non ci aspettavamo che ci fosse già una percezione così vasta, da parte delle imprese, del fatto che il lockdown avesse messo in primo piano la necessità di ripensare l’organizzazione del lavoro. Ci ha colpiti il fatto che una trasformazione che sembrava non dovesse mai accadere – quella da lavoro in presenza a lavoro da remoto, in cui i primi a dover cambiare sono i manager – sia stata sentita dagli intervistati come necessaria. È stata sicuramente una situazione imposta dalla pandemia (o così o non si lavora). Non possiamo pensare che in una situazione di normalità si possa passare allo stesso modo dal tradizionale lavoro in presenza in azienda allo smart working, che se non ben programmato è un rischio per l’azienda in termini di produttività e crescita.

Che cosa serve per questo cambiamento?

Non richiede solo aumento della cultura digitale dei dipendenti, ma anche formazione e sviluppo di una cultura manageriale in grado di ripensare al lavoro. Soprattutto a Nord Est è ancora forte l’idea dell’imprenditore padrone o del manager che deve controllare. Vanno attivati dei percorsi di organizzazione che toccano più piani della vita di un’impresa, a partire dal rapporto fra questa a il lavoratore. Serve sia una contrattazione collettiva, che coinvolga le diverse parti sociali, e che stabilisca i diritti e i doveri dei lavoratori di tutta l’azienda, sia una contrattazione individuale, per i singoli lavoratori.

Quali sono i punti prioritari da cui partire?

Oltre alla necessità basilare che la gestione aziendale sia in grado di creare obiettivi, condividerli e farli raggiungere a distanza, le aziende hanno sottolineato l’importanza di altri elementi, come l’organizzazione e la gestione dei tempi di lavoro personali e del team, la qualità della postazione lavorativa e la corretta suddivisione del tempo di vita e di lavoro. In particolare questo aspetto riguarda non solo il diritto alla disconnessione, ma anche come si debba dare la propria disponibilità a riunioni e attività di gruppo a distanza, ad esempio rispetto alla possibilità di ripensare la classica giornata lavorativa 9/18 in funzione di una gestione più flessibile per gestire i tempi della famiglia. Questo si può fare solo se si definiscono prima con chiarezza quali sono gli obiettivi (ad esempio settimanali o mensili) che si richiedono al lavoratore. E poi c’è il tema della sicurezza. In un ambiente di lavoro normale si assicura al lavoratore il rispetto di determinate normative (la sicurezza della postazione di lavoro, le pause…); ma chi si occupa di verificare che queste condizioni sussistano anche a casa? Sono tutte questioni che richiedono un percorso organizzativo e regolativo ben strutturato, che deve tener conto non solo di aspetti “fisici”, ma anche emotivi. Come quello delle relazioni tra pari o con i propri superiori, che non devono subire peggioramenti con l’introduzione dello smart working. Chi lavora da casa, infatti, può sentirsi tagliato fuori da dinamiche di realizzazione del lavoro. È utile in tal senso capire quali possono essere gli strumenti digitali migliori, che garantiscano al lavoratore di poter svolgere da casa i propri compiti in collegamento con i colleghi nel miglior modo possibile.

Imprese e organizzazione del lavoro, quindi, non saranno più com’erano prima del COVID-19. Il Nord Est sembra motivato ad abbracciare questo cambiamento, e a cogliere le opportunità che si sono create oltre le difficoltà.

Servirà un grande sforzo, ma se le aziende saranno capaci di sostenerlo, grazie ai nuovi strumenti di organizzazione del lavoro, alla formazione, alla digitalizzazione e allo sviluppo di nuove competenze, si potranno creare delle strategie vincenti in grado di far vincere alle imprese le sfide economiche del futuro. Il tutto però rigorosamente a partire dalle regole.

Photo credits: www.altoadige.it

CONDIVIDI

Leggi anche

Gli amici degli amici miei

La supercazzola che gira sui social quando i candidati livorosi devono dimostrare l’inadeguatezza dei recruiter è più o meno questa: Assunto (A): “Ho mandato 300 cv e nessuno mi ha risposto”. Inciso (B): “All’estero invece i recruiter danno sempre un feedback”. Conseguenza (C): “I recruiter non servono a nulla”. Conclusione (D): “Ho sempre trovato lavoro […]