Credere nel Volontariato

Aiutare è universalmente riconosciuto come fattore positivo: essere “volontari”, inteso come cittadini attivi che si prestano alla cura degli altri, è esser parte di un mondo che sempre di più sta ritagliandosi un ruolo importante nel panorama mondiale, e anche nazionale. Un recente censimento dell’Istat stima infatti che l’ammontare del valore economico di tutte le […]

Aiutare è universalmente riconosciuto come fattore positivo: essere “volontari”, inteso come cittadini attivi che si prestano alla cura degli altri, è esser parte di un mondo che sempre di più sta ritagliandosi un ruolo importante nel panorama mondiale, e anche nazionale.

Un recente censimento dell’Istat stima infatti che l’ammontare del valore economico di tutte le attività di volontariato sia pari a 64 milioni di euro: stima che contempla il lavoro degli oltre 6 milioni di persone che dedicano tempo e risorse a una delle oltre 300 mila associazioni di volontariato presenti nel nostro paese.

Un esercito del bene, che si può ricondurre, in qualche modo, a un discorso più generale e più alto: quello dei valori.

Per certi versi, il volontariato potrebbe essere associato a una confessione: una sorta di religione civile, che non vede nello stato il suo riferimento ma – più genericamente – l’essere umano e il mondo che si vuol migliorare, grazie alle proprie attività.

“Io credo nell’aiutare, perché credo che il mondo e le persone valgano la pena di dedicarmi”: una frase che sembra più un aforisma da fanpage di Facebook che una sintesi concreta, eppure che sa contenere la linfa vitale del volontariato.

Già. Un valore così universale che può essere condiviso da un ateo, o da un credente – di qualsiasi confessione.

Dire quanto valga il volontariato di matrice religiosa è un tema delicato, tanto che più volte ci si è concentrati sulla discussione dello stesso. E può essere un fenomeno decisivo, in tempi così bui per le chiese (tutte)?

Ripercorrendo le cronache degli anni passati, è interessante notare, ad esempio, un intervento del cardinale Robert Sarah al meeting di CL in Rimini del 2011, che parlò apertamente dei rischi dell’ “eccessiva professionalizzazione del volontariato” (tema toccato anche da Papa Ratzinger nella sua “Enciclica Deus caritas est”):

Il volontariato non sostituisce la fede ma la esige, per noi il volontariato non scaturisce semplicemente dall’impegno per un uomo nuovo e redento dall’impegno dell’uomo stesso” pubblicava La Stampa qualche anno fa.

Proviamo a dedurre: si deve fare volontariato, come forma concreta di Carità, che sta alla base del Credo, e non per un’umanizzazione troppo smaccata di un gesto che rischia forse di rendere protagonista più l’uomo che l’aspirazione a vivere concretamente la Fede.
Questo per la religione cattolica: per le altre grandi religioni monoteiste?

Racconta infatti Fabiano di Prima, ricercatore di Diritto canonico ed ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo, sulla rivista telematica Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale:

“[…] S’è,  infatti,  avuto  modo  di  ricavare  da  una  prima  e  parziale  indagine   su   alcuni   statuti   che   dette   collettività   (le   più   diverse,  prevalentemente  cattoliche;  in  minor  numero  quelle  di  altri  culti 6 o  vicine ai c.d. movimenti “del potenziale umano”) tendono a motivare il  loro  impegno  altruistico  con  esplicite  ragioni  fideistiche,  prima  che  genericamente filantropiche o in senso lato politiche: dichiarando  cioè propositi  tipici  del  volontariato  (l’aiuto  ai  più  svantaggiati,  l’affermazione d’una cittadinanza attiva e partecipativa, la creazione  di nessi  e  relazioni  tra  le  persone, la ricerca d’uno spazio alternativo allo Stato e al mercato, e d’una “socializzazione della politica” ecc.)  ma  inquadrati  alla  luce  d’una  specifica credenza religiosa,  presentata  – sovente  nel preambolo, o comunque  nella  parte iniziale dello statuto  – come causa efficiente primaria della loro azione”
(da: “Il volontariato religioso nell’ordinamento giuridico italiano l’incompiuta integrazione tra società civile e società religiosa”).

La domanda però oggi si pone: può oggi una religione, laddove diventa sempre più necessario aprirsi al mondo in senso dialogico e inclusivo, scegliere di parlare all’umanità attraverso il gesto concreto di un’azione di volontariato?
Il più delle volte già questo avviene, pensiamo alla Caritas. Ma quanto è effettivamente recepito da chi considera la religione solo una zavorra da lasciarsi alle spalle?

Uno dei grandi quesiti che oggi ci si dovrebbe porre è se islamici, ebrei, buddhisti, e anche cristiani, riescano a mostrare le corde più pure e valoriali delle proprie religioni, attraverso la concretezza delle proprie azioni. Attenzione: non mostrarsi legati a dogmi opinabili (dal portare il chador al rinunciare alla carne il venerdì), quanto a intervenire, concretamente, nel tessuto sociale, attivando meccanismi di storytelling nudi e puri, per cui quasi non si cita il proprio Credo, ma si costruisce una narrazione più “umana” e per citare Fabiano di Prima, meno fideizzata.

Se oggi una comunità musulmana di una grande città scegliesse di distribuire cibo ai poveri nella pubblica piazza, invece di aprire le moschee per dibattiti sull’evidente distanza fra Islam e Isis, quanto il messaggio arriverebbe al bersaglio? Così come chiediamoci cosa accadrebbe se un prete di periferia scegliesse – come già spesso accade, pensiamo a Don Ciotti – di guidare il proprio gruppo di animatori nella ristrutturazione materiale di un bene confiscato alla mafia e destinato ai disabili, invece di concentrarsi nelle condanne di un certo modo di vivere durante un’omelia.
La confessione non ne verrebbe inficiata: ma il canale di comunicazione all’esterno, sicuramente ne vedrebbe giovamento.

Stiamo parlando di un volontariato che dovrebbe rimarcare meno il proprio sguardo verso l’alto, in favore di un modo di porsi più terreno: ma che saprebbe comunque mantenere il proprio valore “fideistico” e – per certi versi – ispirato dal divino.

La società ha oggi bisogno più che mai di uomini e donne virtuose che sappiano guardare al domani secondo l’idea di amore per il prossimo. Chi meglio delle chiese e delle religioni potrebbe guidare un movimento che nasca da quest’idea?

In un mondo secolarizzato dove – in nome del rispetto e della pluralità – si tolgono i simboli più positivi (invece di aggiungerne) guadagnandone solo in povertà culturale, forse questo sarebbe il segnale che nell’oggi e nel domani si capisce quanto sia necessaria la religione.

Il rischio è che questo si perda, per accorgersene magari un domani, quando sarà troppo tardi.

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