Solo alcuni decenni fa – ma sono decenni che sembrano secoli – quando si parlava di ignoranza il pensiero correva istintivamente agli occhi sgranati e all’espressione preoccupata dei vecchietti ai quali il maestro Manzi insegnava a leggere e poi persino a scrivere attraverso quella “scatola magica” che per migliaia di italiani era allora la televisione. La trasmissione si […]
Great place to What?
Negli ultimi anni è notevolmente aumentata l’attenzione delle aziende a misurare la qualità dei propri ambienti di lavoro. Alcuni lo fanno attraverso indagini interne affidate a società di consulenza con l’obiettivo di migliorare il clima fra collaboratori e nella gestione di alcuni processi interni, altri si affidano a vere e proprie istituzioni come il Great […]
Negli ultimi anni è notevolmente aumentata l’attenzione delle aziende a misurare la qualità dei propri ambienti di lavoro. Alcuni lo fanno attraverso indagini interne affidate a società di consulenza con l’obiettivo di migliorare il clima fra collaboratori e nella gestione di alcuni processi interni, altri si affidano a vere e proprie istituzioni come il Great Place to Work o il Top Employer con anche lo scopo di comparire in classifiche nazionali e internazionali.
È una di quelle attività del cosiddetto employer branding che aiutano l’azienda ad avere una forte attrazione da parte dei candidati verso quel brand. La tipologia di indagine viene effettuata in due modi: o si intervistano i dipendenti (sempre in modalità “riservata”, in genere attraverso questionari cartacei od online) o si analizzano i processi di quell’azienda.
Come si entra in classifica?
Semplicissimo: basta che i dipendenti dichiarino che in azienda c’è un clima di fiducia, un buon rapporto con i capi, un ambiente di lavoro sostenibile, qualità delle relazioni fra colleghi ottimali, credibilità del proprio board, retribuzioni in linea con i carichi di lavoro o il ruolo ricoperto, meritocrazia riconosciuta, programmi di formazione adeguati, crescita delle risorse.
Capirete che non è un caso se, come riportava il Corriere della Sera di ieri, nessun grande gruppo italiano figura nella top ten di questo tipo di aziende.
In una chiacchierata di pochi minuti con Gilberto Dondè, che per tanti anni ha guidato il Great Place to Work in Italia con cui ho collaborato per qualche tempo, mi dice subito che “C’è un crinale da superare nella mente degli imprenditori italiani: la paura che si creino delle aspettative! Come dire: “se gli chiedo se sono contenti del loro stipendio o della loro formazione, stai a vedere che poi devo aumentare gli stipendi o – addirittura – fare della formazione!”
Analizzare i processi, invece, è un pò come quei questionari sulla customer satisfaction: hai dei prodotti fantastici ma se poi non te li comprano, hai messo in piedi processi che non servono.
“Una volta avevo una riunione con tutto il top Management italiano di una grande multinazionale: AD e tutti i suoi primi riporti. All’inizio ho fatto fare una presentazione a tutti. Il Direttore della qualità, dopo essersi presentato come tale, ha voluto subito rimarcare di non essere d’accordo con i risultati dell’indagine.” – mi dice Gilberto – “Noi facciamo delle cose straordinarie in questa azienda, abbiamo prodotti di altissimo livello e dei processi interni molto dettagliati”
Ma alla fine, la verità è quella che dicono i nostri collaboratori, il resto sono opinioni. Potete ideare le iniziative più belle del mondo ma se i destinatari non le vedono, e non le comprano, continueranno a non riconoscerne il valore.
La maggior parte delle assunzioni è frutto del passaparola
E questo è infatti uno dei motivi emersi per cui le aziende italiane non riescono a emergere nelle classifiche. Se è vero che ancora tanta selezione del personale si fa attraverso gli amici degli amici, nessuno racconta come sono andate a finire quelle selezioni: personale poco motivato perché “raccolto tramite segnalazione”, persone poco affezionate, in alcuni casi il tasso percentuale della permanenza in azienda è bassissimo.
Proprio ieri un imprenditore bolognese di una grande azienda automobilistica mi raccontava l’esperienza di un giovane manutentore che, nonostante l’orario flessibile, dopo un mese si sentisse “fortemente stressato” e addirittura di un manager di alto livello che si era spacciato per Bocconiano e avesse falsificato alcune competenze. È evidente che, in un processo di selezione strutturato, questi “gap” vengono affrontati con una professionalità ben diversa, interviste strutturate, controlli sulle referenze, inventari di personalità.
Sempre in tema di meritocrazia, un altro punto debole è la scelta del personale. “Le società straniere fanno selezione utilizzando società esterne come i cacciatori di teste. Molte italiane che abbiamo valutato nella nostra analisi non descrivono nemmeno il processo di selezione, che quindi non esiste: presumibilmente avviene per altri canali. Ha dichiarato Alessandro Zollo, AD del Great Place to Work.
Per non parlare della formazione
Vogliamo farci del male? La formazione è una perdita di tempo per la maggior parte degli imprenditori, a meno che non si tratti di formazione obbligatoria; quella sulla sicurezza è diventata ormai la barzelletta che i formatori si raccontano fra di loro quando sono al pub a farsi una birra. Oppure, la formazione sul CRM, sui gestionali, sul processo. Formazione che serve per usare gli strumenti, non per migliorare le performance. La formazione manageriale fatta a tutti i livelli, che si tratti di gestione dei collaboratori, di modelli di project management, di qualità della comunicazione interna (un lusso che si concedono ancora in pochi).
E’ incredibile il numero di aziende che non ricorrono ai fondi interprofessionali lasciando inutilizzati migliaia di euro già versati.
Per non parlare di quei cretini che fanno formazione solo se “certificata” o peggio ancora solo se possono esibire il leghino della super business school nella cornicetta dietro la scrivania. O quelli a cui viene offerto un percorso formativo dalla propria azienda e passano tutto il tempo a scaricare la posta o a rispondere al telefono.
Ma non scarichiamo tutta la colpa sugli imprenditori e non parliamo solo di PMI. E’ palese che la stragrande maggioranza dei Direttori del personale, per cultura acquisita nel tempo e per quel meraviglioso sport praticato all’interno dei recinti della loro Associazione di categoria, siano tutti concentrati a raccontarsi i mirabolanti successi ottenuti con il taglio del dipendente senza conseguenze sindacali, anziché appassionarsi di sviluppo delle proprie persone.
Non è un caso se le direzioni del personale perdono giorno dopo giorno l’appeal di interlocutori importanti di shareholder, opinion leader di settore e anche di fornitori che preferiscono di gran lunga interagire con chi si occupa di comunicazione per tutti i temi legati alla promozione del brand, alla gestione dei social, alla partecipazione a convegni ed incontri di presentazione della propria azienda, o direttamente con gli imprenditori. Che poi, quando un fornitore è stato “battezzato” dall’imprenditore, il direttore del personale non può che fare su e giù con la testolina come facevano quei cagnolini sui pianali delle auto negli anni 70.
I processi che aiutano la meritocrazia
“i miei dipendenti li conosco uno per uno. So cosa sanno fare, so cosa vogliono”.
Meno di un terzo delle aziende che partecipano entrano nelle classifiche del Great Place to Work, ma se ti misuri capisci anche dove migliorare. Spesso gli imprenditori tendono ad avere un controllo diretto sulle persone e non su cosa porti quelle persone a comportarsi in un determinato modo.
La Pubblica Amministrazione è l’esempio lampante del fallimento del merito in Italia. Non c’è un solo dirigente che non raggiunga gli obiettivi. Ma è anche vero che, solo nel 26% delle aziende intervistate, i dipendenti pensano che le promozioni vengano assegnate sulla base di un merito. Le aziende straniere, d’altro canto, hanno processi rigorosi e richiami costanti nel corso dell’anno per verificare il lavoro dei dipendenti che tendono anche a colmare i vuoti formativi con percorsi strutturati.
Ricordo che qualche anno fa, anche in Manpower, azienda dove militavo, ci proposero un’analisi di clima la cui riservatezza delle risposte (tutte precedute da un’altrettanto riservata individuazione del compilante: “in che Regione lavori?” “Qual è il tuo ruolo nell’Organizzazione?” Avrebbero fatto prima a chiedere Nome e Cognome e Numero di Telefono) era affidata a una “società esterna” (che però era un’azienda del Gruppo!). Siccome l’abbecedario del Direttore delle Risorse Umane dice giustamente che, dopo aver fatto un’indagine è necessario (ma direi obbligatorio) restituirne i risultati e dare una risposta ai dipendenti, venne organizzato un “feedback tour”.
Di quegli sfiziosissimi consessi ricordo un episodio:
– Direttrice del Personale: “Nella prossima slide vediamo che alla domanda numero…, molti degli intervistati dichiarano di non essere soddisfatti dell’attuale inquadramento / retribuzione rispetto all’incarico.”
Silenzio in aula.
– “Qui è evidente che non è stata capita la domanda”.
A mio parere, in molti non ascoltano le risposte.
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