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Il Jobs Act ha ucciso il mobbing?
Nel nostro Paese se ne inizia a parlare negli anni Novanta, con circa un ventennio di ritardo rispetto a Canada ed Europa. Il mobbing, termine usato nell’opinione comune per designare comportamenti discriminatori o vessatori sul luogo di lavoro, è un fenomeno molto dibattuto, soprattutto in passato, quanto scarsamente o per nulla disciplinato: in Italia non […]
Nel nostro Paese se ne inizia a parlare negli anni Novanta, con circa un ventennio di ritardo rispetto a Canada ed Europa. Il mobbing, termine usato nell’opinione comune per designare comportamenti discriminatori o vessatori sul luogo di lavoro, è un fenomeno molto dibattuto, soprattutto in passato, quanto scarsamente o per nulla disciplinato: in Italia non esiste tuttora una legge ad hoc, la prima disposizione che riconosce il mobbing come reato è una sentenza della Cassazione del 2015.
Solo nel 1996 – in Canada il dibattito inizia nel 1977 circa – in Italia nasce Prima, la prima associazione italiana contro mobbing e stress psico-sociale, grazie all’impegno di Harald Ege, psicologo e attualmente principale esperto di mobbing in Italia. «Un ritardo, quello dell’Italia, motivato perlopiù da ragioni di tipo culturale: all’estero il lavoratore è da tempo riconosciuto come un vero e proprio capitale dell’azienda, in Italia il processo di ‘umanizzazione’ del lavoratore non è mai avvenuto», spiega Ege.
Negli anni il tema, mediaticamente parlando, ha conosciuto alterne vicende: il boom dei primi anni è alimentato dalla nascita dell’associazione e dalla prima sentenza sul tema, datata 2001. Un’altra sentenza, del 2005, riconosce per la prima volta il termine straining ad indicare azioni vessatorie ma non necessariamente ripetute nel tempo, come nel caso del mobbing.
Oggi di mobbing si sente parlare sempre meno e con minor clamore rispetto a prima.
Una prima motivazione potrebbe essere il fatto che ci siano «meno denunce rispetto al passato», commenta Ege. Un dato che non va letto proprio in chiave positiva: non è detto che gli episodi di mobbing siano diminuiti, ma più probabilmente «con la crisi si ha paura di perdere il lavoro e si tende a parlar meno di questo tema», aggiunge.
Volendo scattare una recente fotografia, secondo gli ultimi dati a firma Ispesl sono circa un milione e mezzo i lavoratori italiani vittime di mobbing, su circa 22 milioni di occupati: la maggior parte di essi, il 65 per cento, risiede al nord, oltre la metà (52 per cento) è di sesso femminile e il 70 per cento lavora nella Pubblica Amministrazione. A queste evidenze statistiche Ege aggiunge che «seppure ognuno di noi può trovarsi a essere vittima di mobbing, i giovani lo sono meno rispetto ai più anziani, sia perché costano di meno e quindi l’azienda tende a mantenerli all’interno del proprio organico, sia perché non hanno ancora raggiunto l’apice della carriera e quindi probabilmente sono ritenuti meno ‘pericolosi’».
Ma, azzardiamo, la minore attenzione rispetto al mobbing non potrebbe essere in qualche modo ricollegabile al Jobs Act e alle novità introdotte? L’ipotesi potrebbe essere: alcuni strumenti in possesso delle aziende grazie alle nuove disposizioni renderebbero in qualche modo più semplice «liberarsi» del lavoratore sgradito senza ricorrere ad azioni come il mobbing.
Su tutte: novità legate al licenziamento senza giusta causa e demansionamento.
Sul primo punto, con il contratto a tutele crescenti il lavoratore assunto e licenziato ingiustamente non ha più diritto a essere reintegrato sul posto di lavoro, ma solo a percepire un risarcimento, pari a un numero di mensilità variabili a seconda del numero di dipendenti dell’azienda. Questo potrebbe voler dire che come per un’azienda è più facile assumere un lavoratore grazie agli incentivi economici, allo stesso tempo è più facile e meno vincolante «disfarsene». Il che potrebbe voler dire ancora che un datore di lavoro potrebbe fare ricorso in misura minore a comportamenti classificabili come mobbing perché può estromettere più facilmente un dipendente «sgradito».
Su questo aspetto anche Ege è d’accordo: «la possibilità di licenziamenti più ‘semplici’ potrebbe potenzialmente essere un disincentivo al mobbing».
Quanto al demansionamento, la normativa introdotta dal Governo Renzi stabilisce che «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla sua posizione, il lavoratore può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore». L’assegnazione non dovrà però modificare il «margine contributivo raggiunto». Il lavoratore può eventualmente agire per via legali chiedendo un risarcimento qualora il demansionamento sia considerato illegittimo, ossia non conforme a quanto stabilito dalla nuova disposizione.
Per ora non è possibile andare oltre le ipotesi e gli interrogativi. Le evidenze statistiche non sono così significative da poter essere un valido supporto: il Jobs Act è stato introdotto poco più di un annetto fa.
Tuttavia, sommando gli effetti della crisi, che hanno reso il lavoratore più vulnerabile e allo stesso tempo più timoroso di perdere l’occupazione, e quelli del Jobs Act, più di una domanda sul tema mobbing è lecita.
Ai dati l’arduo compito di fare luce sul tema, per fotografarne in modo ancora più nitido dimensioni e sviluppi.
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