Il primo libro non si scorda mai

Avevo quindici anni. Non era il mio primo libro, ma in qualche modo lo è diventato. Ci sono primi libri come quelli che ti legge la mamma a letto prima di dormire. Ricordo ancora Il gatto con gli stivali e Pinocchio. Ci sono primi libri che leggi da solo scoprendo un mondo di possibilità fuori […]

Avevo quindici anni. Non era il mio primo libro, ma in qualche modo lo è diventato.

Ci sono primi libri come quelli che ti legge la mamma a letto prima di dormire. Ricordo ancora Il gatto con gli stivali e Pinocchio. Ci sono primi libri che leggi da solo scoprendo un mondo di possibilità fuori dalla porta. Basta partire con Gulliver, imbarcarsi sul Nautilus o cercare la libertà sopra un albero.

Ci sono poi primi libri che ti aprono altre porte. Quelle della tua immaginazione. Quei libri che cambiano il modo in cui leggi la realtà che ti circonda, le prospettive su te stesso e sul rapporto con gli altri.

Tanti libri di questo tipo sono arrivati nelle mie mani. La montagna incantata, Opinioni di un clown e così via. Alcuni ancora oggi, perché non si finisce mai di riscoprire le stesse novità.

Ma il primo non si scorda.

Storia di un primo libro

Anche perché è arrivato mentre ero occupato in altro. Stavo crescendo, scoprivo intimidito l’esistenza delle ragazze, mi scontravo con amici su idee e questioni nuove, litigavo con i miei genitori senza capire bene perché.

Era l’ultimo giorno prima delle vacanze. La professoressa ci salutò chiedendoci di scegliere tra alcune possibili letture estive. Una lista nella quale presenziavano Il Malato Immaginario, ma mi sentivo già anche troppo ipocondriaco di mio; Don Chisciotte della Mancia, ma era la scelta più gettonata da tutti gli altri, e con quello spirito indie che già nasceva in me – ascoltavo Bleach e mancavano solo due anni a Nevermind – non me la sentivo; Romeo e Giulietta, ma era troppo presto.

Scorrendo l’elenco mi fermai su un titolo curioso. La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, di Lawrence Sterne. Vita e opinioni? Non avventure e imprese? Sentivo quelle parole risonare con le sensazioni di quei giorni. Andai a comprare un’edizione economica e cominciai a leggere il giorno stesso.

Fu un’estate incantata. Iniziò giocando ogni giorno a calcio con gli amici nel campetto vicino a casa e terminò con una prima, folgorante, esperienza sentimentale. Ma nel mezzo ci fu l’immersione nel mondo di Tristram. Un mondo fatto di fughe e digressioni continue. Di racconti divertenti e di personaggi struggenti. Alla morte dello zio Tobia, piansi. E risi tanto in altre parti.

Leggere un libro e leggere il mondo

Tristram Shandy, capitolo 40.

Tutto veniva scardinato in quel libro considerato poi da molti alla base del romanzo moderno. Una parodia e una sperimentazione continua nella forma e nella struttura. Anche le stesse soluzioni tipografiche erano innovative: una pagina bianca, una pagina interamente nera (“Alas, poor YORICK!”), un’altra marmorizzata. Capitoli di una frase, flashback, flashforward, mancanza di una vera e propria trama. E poi il narratore che dialoga continuamente con il lettore.

Non capii subito che cosa mi stava insegnando. Solo dopo qualche anno mi resi conto che era stata la prima volta in cui avevo conosciuto qualcosa di davvero importante come l’ironia. La capacità di leggere il mondo esterno in modo diverso, più leggero, e per questo più profondo. Divertito e irriverente. Grazie a quel libro avrei più tardi compreso gente come Woody Allen o Giorgio Gaber.

E grazie a quel libro avrei anche capito delle cose che sarebbero state determinanti sul lavoro. La prima mi salvò dalla “sindrome da controllo” tipica di chi studia in profondità discipline tecniche. A dire la verità ci volle anche il consiglio di un professionista importante e una situazione di grande imbarazzo che mi accompagnò per settimane.

Leggerezza e altre lezioni

Avevo ventisette anni. Ero alla mia prima riunione davvero significativa. L’avevo organizzata per tempo. Avevo preparato una presentazione, analisi ineccepibili e un perfetto ordine del giorno. Avevo invitato i fornitori, i consulenti, i miei capi. Appena tutti si erano seduti, avevo preso la parola e introdotto il tema della giornata. Avevo parlato per dieci minuti affrontando la questione da ogni possibile punto di vista. Avevo dato indicazioni, ruoli, soluzioni e task per i successivi passaggi. Ero molto soddisfatto di me.

Poi intervenne Marco chiedendo la parola, e disse: “Stefano. Posso dirti una cosa?” “Certo”. “Ecco, s ai. Tutti apprezziamo il tuo lavoro, ma devo consigliarti una cosa… respira un attimo. Liberati dalla necessità di controllare tutto. Fidati degli altri. Lasciali esporre il loro punto di vista. Scoprirai di essere circondato da gente che può darti molto più di quanto ti aspetti”. Un invito a una leggerezza e a una fiducia negli altri che mi folgorò. Rimasi ammutolito. Mi ricordai di Tristram Shandy. Capii che avevo dimenticato la lezione più importante: leggerezza e curiosità verso gli altri. Verso le loro idee e opinioni.

Poi studiai, e compresi come tante discipline manageriali avevano insegnato questa stessa lezione meglio di quanto i miei studi di ingegneria avevano fatto. L’invito alla digressione, a non seguire la linea retta, a farsi sorprendere dall’imprevisto e a guardare il mondo con una sana ironia (ma non acredine, non sarcasmo).

Il Design Thinking che tanta influenza avrebbe poi avuto sul mio modo di lavorare, mi invitava a seguire una regola d’oro. La cosiddetta Ambiguity Rule: non vi è alcuna possibilità di “scoperta casuale” se il dialogo viene chiuso ermeticamente, i vincoli enumerati eccessivamente. La minaccia del fallimento è sempre incombente. L’innovazione richiede una sperimentazione ai limiti delle nostre conoscenze, della nostra capacità di controllare gli eventi, liberi di vedere le cose in modo diverso.

Il Lean Startup parla di Unfair Advantage. È una sorta di “vantaggio scorretto” che caratterizza il tuo business model, ma non viene progettato. Te lo dice il mercato, e se non sei pronto a comprenderlo ti lasci sfuggire un’importante possibilità di fare davvero la differenza. Programmare troppo, sviluppare perfetti e compiuti business plan diventa così un vincolo mentale che non lascia spazio all’innovazione. Oceani blu e quant’altro ci raccontano i saggi della strategia aziendale sono ben lontani, se prima non si accetta questo spazio di incertezza foriero di scoperte eccezionali.

La stessa, abusata serendipity non è altro che una versione più ammiccante di uno sguardo leggero e divertito sul mondo. Far bene il proprio lavoro non basta se si vuole provare qualcosa di nuovo: serve fare le cose giuste. Doing the right things, non solo Doing the things right. Bisogna saper esplorare terreni sconosciuti e lasciarsi sorprendere da risultati non previsti.

Dopo il libro, dopo l’estate

Tristram Shandy, dettaglio del capitolo 40.

Non sapevo bene dove mi avrebbe portato quel libro, in quell’estate così importante. Sapevo di essere stato l’unico della classe ad aver letto il Tristram Shandy durante le vacanze. Non seppi nemmeno raccontare alla professoressa che cosa avevo scoperto. Non era possibile spiegare una trasformazione così profonda e interiore. Ancor meno potevo spiegarlo ai miei compagni. Sarebbero serviti un po’ di anni di esperienza, studio e impegno per comprendere che, tra tutti i modelli manageriali, gli strumenti di lavoro, le tecnologie e gli approcci all’innovazione che ho scoperto nel tempo e applicato in tante aziende, quella linea arzigogolata all’inizio del quarantesimo capitolo del sesto volume che ho letto in un caldo finale di agosto del 1989 sarebbe stata la scoperta più significativa.

 

Photo by Unsplash

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