Due luoghi che non si mescolano, due generazioni che non si capiscono: la storia di un emigrato al Nord racconta quella di molti. La recensione di “Stiamo abbastanza bene” di Francesco Spiedo.
La competenza è un ricatto e nessuno ce l’aveva detto
Dalla logica radical chic alla provocazione che le competenze finiscano per essere un ricatto.
Ad esser sincera, dopo essermi letta Radical choc, di istinto mi verrebbe da consigliare di andare subito alla fine. Non perché non valga la pena leggerlo, tutt’altro, ma perché è un libro arduo. Un libro denso che mette più volte all’angolo davanti ai colpi della conoscenza estrema dell’autore; fin troppo, per un lettore italiano medio che non sia appassionato di economia, sociologia, storia e filosofia in un colpo solo. Quasi un paradosso leggere un libro sulle competenze e trovarsi di fronte un autore che ne mostra continuamente, una pagina dietro l’altra. È solo verso la fine del libro che anche la sua scrittura trova pace, così come è solo alla fine che allentano la morsa le citazioni e i riferimenti anche di storia e politica e geografia che ricostruiscono il dibattito sul tema.
La firma è di Raffaele Alberto Ventura, autore con già alcuni libri di saggistica sul mercato e analista per il Groupe d’ètudes géopolitique che ha sede a Parigi. Che abbia spalle larghe si capisce fin dalle prime pagine. Entra nel tema in maniera puntuale, articolata, circostanziata, ma in alcuni passaggi fin troppo accademica perdendo ogni tanto il contatto col lettore che rischia di vederlo andare avanti senza di lui. I lettori non andrebbero abbandonanti mai in mezzo alle pagine.
Ma cos’è la competenza?
Alla domanda fondante cosa sia la competenza, Ventura riconduce la risposta a un unico concetto: produzione di sicurezza per la società, per il sistema. L’attualità della questione è innegabile e il libro – appena uscito per Einaudi – tocca anche una rilettura delle competenze alla luce di quanto si è parato davanti al mondo col Covid-19, con il ruolo della scienza e della politica, con la costante limitazione delle nostre libertà e di quell’idea di democrazia liberale a cui eravamo abituati. La democrazia liberale che aveva reso possibile la modernizzazione contemporanea e di cui forse la modernizzazione non ha più bisogno. Illuminante è anche il passaggio in cui Ventura sostiene che “il coronavirus non ha semplicemente fatto ammalare il sistema ma lo ha hackerato”.
L’autore sa provocare abilmente – ed è lì che appassiona, quando esce dall’ostentazione della conoscenza e libera il suo pensiero all’autore – arrivando a dire con chiarezza che un sistema basato su investimenti costanti verso competenza e tecnocrazia alla fine non rende più come all’inizio: si tratta dei cosiddetti “rendimenti decrescenti”. “Con questa crisi abbiamo assistito semplicemente all’accelerazione di un processo, già in atto da anni, di adattamento delle strutture politiche a un mondo sempre più popolato da rischi ed emergenze. E se fossimo stati democratici finché abbiamo potuto permettercelo?”.
Più il sistema cresce, più i soggetti delegati a produrre sicurezza si espandono aldilà della effettiva capacità di ottenere risultati, meno beneficio arriva anche alle periferie del sistema.
Così come Ventura affonda l’ennesimo colpo felice nello spiegare che ogni collasso della storia ha sempre avuto una sua fisiologia chiara: i collassi sono discontinui e costanti come sciami sismici e mai improvvisi e lineari. È al sistema in sé che fa comodo pensare e raccontare il contrario per apparire meno responsabile davanti alle conseguenze del collasso.
Cambiare lo sguardo e poi le parole
Sottolineo con piacere che non gli ho mai visto usare la parola fallimento per intendere che il sistema è arrivato al capolinea o, come dice lui, ha raggiunto lo stiramento massimo. Non si tratta di dare del fallito a un modello che sta rivelando la sua natura, semplicemente si tratta di osservare e riconoscere ciò che sta accadendo.
Lungo le oltre duecento pagine, Ventura ricorda in più punti che i sistemi sopravvivono finché hanno modo di scaricare le tensioni su un altro sottosistema e così via, fino al prossimo. Il guaio, adesso, è che sembra non esserci più possibilità di assorbimento. Non riusciamo più a scaricare le conseguenze su qualcun altro o qualcos’altro e dobbiamo pagarne il prezzo.
Nel libro si parla a lungo anche di lavoro, di catena del valore e di scambi ineguali. Si parla inevitabilmente di élite, di legame tra élite e società e della vera partita che i competenti si giocano quando sono chiamati a dimostrare la propria legittimità. Vedremo come va a finire.
Il sistema tecnologico produce individui dipendenti dalla tecnologia e dagli esperti e alla fine pare quasi di capire che il rischio stia persino in una sorta di ricatto dei competenti. Dalla logica elitaria radical chic alla reazione populista radical choc una cosa è certa: siamo dentro una trasformazione che ci piaceva immaginare repentina e che invece covava da tempo.
Perché leggere Radical choc
Radical choc è un libro che mi ha stimolata nelle preoccupazioni, per questo lo consiglio in un momento storico che continua a raccontarsi bugie e a pretendere rassicurazioni. In questo momento la mia copia è sulla pila dei libri che “non finiscono qui”: so che tornerò su alcune sottolineature fatte a penna e su alcuni rimandi complessi di Ventura che richiedono più passaggi per essere digeriti. È un libro che va masticato lento, per chi ha tempo di tornarci.
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