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La diversity nel lavoro è poco attenta alla performance
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Ci chiediamo se abbia senso sostenere l’esistenza di una dicotomia, fra il tradizionale contratto a tempo indeterminato e il neonato contratto a tutele crescenti e, in caso affermativo, quali siano le implicazioni alla base di questo dualismo.
Le riforme legate al mercato del lavoro fungono da spartiacque e mettono realmente in evidenza un prima e un dopo in termini contrattualistici — e di tutele — nel mondo del lavoro “stabile”. Secondo Valeria Zeppilli, avvocato, dottoranda di ricerca in Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti e redattore del quotidiano giuridico Studio Cataldi – Il diritto quotidiano è davvero possibile pensare a due diversi tipi di contratto a tempo indeterminato.
Secondo il quadro disegnato dal Jobs Act, le ipotesi legate alla tutela reintegratoria si riducono ancora rispetto a quanto già previsto dalla Riforma Fornero, e anche le tutele indennitarie si indeboliscono. Oggi, insomma, salvo poche eccezioni, il licenziamento per giustificato motivo – soggettivo o oggettivo – o per giusta causa illegittimo dà quasi sempre diritto al lavoratore a una semplice indennità, pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro o, in alcuni casi, addirittura non inferiore a due né superiore a dodici mensilità.
Due diversi contratti a tempo indeterminato
Omettere di apporre un termine al contratto di lavoro significa metterne in rilievo le caratteristiche di durata nel tempo e di stabilità; e tuttavia, prosegue Zeppilli, semplificarne le modalità di recesso in maniera così netta comporta senza dubbio cambiare il contratto a tempo indeterminato. Non è un caso l’attuale denominazione, che ne definisce l’aspetto peculiare: le tutele crescenti. Alleggerire le tutele dei lavoratori significa anche alleggerire i “vantaggi” di un contratto a tempo indeterminato e le sicurezze che esso può dare.
Più si andrà avanti negli anni e si maturerà anzianità di servizio, più il contratto si avvicinerà alla vecchia tipologia; ma per i primi anni di assunzione parlare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato diverso rispetto a quelli stipulati entro il 7 marzo 2015 è più che corretto; inoltre, anche al termine del secondo anno di assunzione le differenze fra i due contratti continueranno a essere evidenti.
Secondo Michele Tiraboschi, professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, sono tre i dualismi che il nuovo contratto a tutele crescenti rischia di creare. Pur intervenendo positivamente sull’idea che esista ancora il modello socio-economico del posto fisso, si vengono a creare due categorie di lavoratori: chi ha le tutele dell’art.18 (che resta comunque in vigore) e chi no. Questo rischia di ingessare il mercato del lavoro, considerando che in Italia sono oltre 10 milioni i lavoratori che al momento non hanno nessun vantaggio a lasciare le tutele di cui godono.
Il secondo dualismo è quello tra giovani e adulti, in cui i giovani sono la categoria svantaggiata. Infatti, se una impresa deve assumere a tempo indeterminato sceglierà con tutta probabilità o un lavoratore già assunto a termine o un lavoratore con una comprovata esperienza e quindi per forza più anziano. Il terzo dualismo è quello tra lavoro pubblico e lavoro privato che, sul tema dei licenziamenti, prevede due regimi di protezione distinti.
Il contratto a tutele crescenti, peraltro, è un chiaro disincentivo alla mobilità spontanea. Con la conseguenza che coloro i quali hanno stipulato un contratto a tempo indeterminato prima dell’attuazione del Jobs Act, dovranno riflettere molto attentamente prima di cambiare lavoro, nonostante una nuova offerta a tempo indeterminato.
Ciò nondimeno, il Jobs Act ha mutato l’orientamento della giurisprudenza in tema di demansionamento: la sentenza 24 novembre 2015, n. 23945 sul Demansionamento ai sensi dell’art. 2103 c.c., Jobs act, conservazione delle mansioni non dirigenziali e perdita del potere di firma degli atti di gestione dei rapporti giuridici sostanziali sancisce la possibilità di diminuire compiti e responsabilità — pur entro certi limiti — al fine di bilanciare il potere dell’imprenditore a perseguire il profitto attraverso un’organizzazione produttiva. Con il rischio, per il datore di lavoro, di trovarsi di fronte alla mancanza di commitment all’interno del team e a collaboratori poco motivati e, di conseguenza, poco attenti alla performance. Seguire le proprie ambizioni e le prospettive di carriera professionale o anche cambiare città per avvicinarsi alla propria famiglia, commenta Zeppilli, potrebbero essere scelte da non prendere troppo alla leggera.
Reintegrare o risarcire?
Il modello introdotto dal Jobs Act, almeno negli intenti, dovrebbe fondarsi sul principio mitteleuropeo di flex-security; e tuttavia, ci si chiede adesso in che modo l’attuale quadro legislativo sarà in grado di bilanciare la flessibilità introdotta con la sicurezza, che viene meno assieme con la possibilità di reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.
Soprattutto, in tutte quelle aree del paese dove le opportunità professionali sono esigue e incerte. E dunque, reintegrare o risarcire? Nei paesi aderenti all’UE vige un principio importante in materia di licenziamenti, commenta Zeppilli, quello di cui all’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali, che stabilisce il diritto per ciascun lavoratore alla tutela contro il licenziamento ingiustificato.
Ma le tutele rispetto ai licenziamenti illegittimi sono diverse da Stato a Stato; si passa da paesi in cui il datore di lavoro che licenzia ingiustamente un lavoratore è obbligato a reintegrarlo e a risarcirlo del danno subito, a paesi in cui la reintegra necessita del consenso del datore di lavoro, a paesi, infine, in cui la reintegra esiste solo in via eccezionale. Ogni paese UE mostra una propria specificità. E in ogni caso, conclude Zeppilli, nella maggior parte degli Stati dell’Unione la tutela reintegratoria è quella prevalente.
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