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La flat tax non farà pace con le imprese
Gli imprenditori del Nord-Est, solida base elettorale della Lega di Matteo Salvini, probabilmente resteranno delusi. Ma se ne dovranno fare una ragione, perché il ministro dell’economia Giovanni Tria lo ha detto e ripetuto in tutte le sedi, dai recenti incontri con i cinesi ai summit a Bruxelles: la riforma della flat tax, che soprattutto le […]
Gli imprenditori del Nord-Est, solida base elettorale della Lega di Matteo Salvini, probabilmente resteranno delusi. Ma se ne dovranno fare una ragione, perché il ministro dell’economia Giovanni Tria lo ha detto e ripetuto in tutte le sedi, dai recenti incontri con i cinesi ai summit a Bruxelles: la riforma della flat tax, che soprattutto le imprese del Nord aspettavano con ansia dopo le scintillanti promesse elettorali, arriverà solo in forma annacquata, in modo da non entrare in rotta di collisione con Bruxelles. Nessuna riduzione generalizzata delle tasse, nessuna richiesta di flessibilità all’Europa, nessuna riforma in deficit. Dunque, soltanto riforme dimezzate.
L’opinione sulla flat tax del tributarista Tommaso Di Tanno
Chiudendo i lavori del Forum di Cernobbio, la scorsa settimana, il ministro Tria ha spiegato agli imprenditori presenti e ai suoi colleghi di governo Salvini e di Maio perché la flat tax non è praticabile nella sua interezza: «È inutile chiedere tre miliardi di flessibilità se poi se ne perdono tre-quattro in tassi d’interesse con lo spread». Un modo spiccio per chiudere la porta alle ipotesi di sforamento o “sfioramento” del 3% evocate nelle scorse settimane dal vicepremier Luigi di Maio, dal sottosegretario di Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti e dagli economisti di riferimento della Lega.
Com’è possibile che dalle roboanti promesse di una rivoluzione fiscale si sia passati a una modesta modifica delle partite Iva? È vero, come sostengono gli economisti Marco Leonardi e Andrea Dili, che la flat tax proposta dal governo non sarà altro che l’aumento a 100.000 euro della soglia per l’accesso al regime forfettario previsto per i professionisti?
Sentiamo l’opinione di un giurista: «La flat tax al 15% proposta dalla Lega e dal programma del governo Conte? Una strada lastricata di incertezze, di sciocchezze e di illusioni. Se pensano di trovare le coperture con la cosiddetta pace fiscale si sbagliano di grosso. Le cifre messe in campo sono fuori dalla realtà. L’unico modo per finanziare quella proposta è il deficit».
Tommaso Di Tanno, tributarista, docente di un master alla Bocconi, collaboratore della Voce.info, è assai severo con la rivoluzione fiscale del governo Salvini-Di Maio. Nel tempo libero fa il maratoneta; è abituato ai percorsi lunghi e tortuosi, ma è convinto che la strada della flat tax sia davvero impraticabile. Sostiene che l’applicazione della flax tax, così come è stata proposta, creerebbe un buco di circa 45 miliardi soltanto il primo anno. Per creare le coperture a questo buco, negli anni successivi il Pil dovrebbe crescere oltre il 10%. «Un’assurdità».
Professor Di Tanno, proviamo ad addentrarci nei meandri ancora oscuri della flat tax. Che cosa non la convince?
Da settimane si parla di flat tax e si analizzano i costi e i benefici che porterebbe. L’ordine di grandezza – pur nelle sue variegate versioni – perlopiù gira intorno alla cifra di 50 miliardi di euro. Se ne ipotizza la copertura, quantomeno in sede di prima applicazione, con i proventi della cosiddetta “pace fiscale”. Ma in che cosa consiste e quale gettito è lecito attendersi da questa sanatoria? Si odono affettuose frasi di solidarietà verso coloro che non hanno pagato le imposte loro richieste (giustamente o meno), e si intrecciano al tempo stesso cifre mirabolanti circa gli effetti benefici della “pace”.
Ma le cose non stanno così, mi par di capire.
Partiamo da una premessa: la pace fiscale si applica su ciò che lo Stato vanta verso i contribuenti. E ciò nella considerazione che i crediti vantati da Equitalia-Riscossione ammontano a 1.058 miliardi (per imposte e contributi Inps), dei quali peraltro quelli considerati suscettibili di riscossione (dai proponenti) varrebbero circa 650 miliardi.
Se queste sono le cifre, direi che c’è un ampio margine per la flat tax.
Sì, certo, se questa cifra fosse attendibile. Ma la verità è che quei numeri sono fuori dalla realtà, perché non tengono conto della mancata cancellazione dei crediti e di una serie di passaggi. Una cifra più realistica l’ha fornita l’Ocse, che ha valutato il potenziale incasso dello Stato a seguito del condono in 51 miliardi. Se si tiene conto della parziale rottamazione delle cartelle che già c’è stata si arriva alla cifra di 41 miliardi. Dunque, ove pure si applicasse l’aliquota massima del 25 per cento all’intera platea di debitori e questi aderissero all’unanimità alla “pace” offerta, ipotesi statisticamente inesistente, si perverrebbe a contabilizzare un introito di 10,25 miliardi pagabile, peraltro, in due anni. Lei capisce che siamo ben lontani dal costo di 50 miliardi della flat tax.
Mi sta dicendo che soltanto nel primo anno si creerebbe un buco di circa 45 miliardi?
Stando alle cifre avanzate dall’Ocse, la mia risposta non può che essere affermativa. Tenga conto del fatto che 45 miliardi sono tre punti di Pil. Siamo fuori dalla realtà. Ecco perché considero assolutamente inattuabile la versione della flat tax proposta dalla Lega.
Gli esperti in materia fiscale della Lega e del governo Conte e lo stesso ministro Tria sostengono però che, se in Italia si applicasse la flat tax, le imprese investirebbero di più, e grazie a un moltiplicatore le coperture potrebbero venire da un incremento della crescita, e dunque del Pil.
È un’assurdità fondata sulle aspettative che non ha fondamento. Basta fare due conti. 50 miliardi sono il 20% del Pil, ovvero 250 miliardi. Per recuperare 250 miliardi il Pil italiano dovrebbe aumentare del 13%. Neanche la Cina degli anni d’oro riusciva a realizzare quegli incrementi di crescita. I sostenitori della flat tax affermano poi che le aziende con un fisco più basso non andrebbero più a produrre all’estero. Anche questa è una sciocchezza a cielo aperto: molte aziende italiane, a me viene in mente la Piaggio, non vanno all’estero soltanto per ragioni fiscali, ma anche e soprattutto per ridurre i costi del lavoro e trovare nuovi mercati. Ha ragione Carlo Cottarelli: l’unico modo per finanziare questa riforma fiscale sarebbe il deficit.
Nella foto di copertina: il giurista Tommaso Di Tanno
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