La parola al sindacato: no agli imprenditori della paura

Anni fa l’assemblea sindacale e il volantino in bacheca erano i momenti attesi per dare e ricevere informazioni. Le persone, generalmente, avevano meno mezzi culturali e maggior consapevolezza della propria condizione, e affidavano al sindacato la rappresentanza dei propri interessi assegnandogli il ruolo di guida capace di indicare la via da percorrere collettivamente.  Oggi, invece, […]

Anni fa l’assemblea sindacale e il volantino in bacheca erano i momenti attesi per dare e ricevere informazioni. Le persone, generalmente, avevano meno mezzi culturali e maggior consapevolezza della propria condizione, e affidavano al sindacato la rappresentanza dei propri interessi assegnandogli il ruolo di guida capace di indicare la via da percorrere collettivamente. 

Oggi, invece, esiste molta più frammentazione culturale. Complice la rivoluzione delle tecnologie ICT, i diversi canali comunicativi della rete hanno asciugato il confine tra verità e post-verità, imprigionando le persone dentro la propria bolla che conferma i pregiudizi e limita la capacità critica. Questa situazione, negli anni della crisi, ha rappresentato un substrato esplosivo incendiato dal populismo sindacale, che ha spalancato le porte alla demagogia politica, alla disintermediazione, all’“uno vale uno”, insegnando alle persone a ricercare un nemico e denunciare un problema piuttosto che trovare alleati e indicare soluzioni, facendo scricchiolare il messaggio sindacale di unirsi per promuovere giustizia. E, in definitiva, dando una spallata al valore della democrazia rappresentativa.

Il sindacato, in questo contesto di grandi trasformazioni demografiche, tecnologiche e ambientali, deve ripensare la propria azione di rappresentanza anche con strumenti nuovi come smart-contract, tessera digitale, app, ma soprattutto costruendo reti comunicative che veicolino messaggi positivi e reali contrastando gli imprenditori della paura e i fabbricanti di fake news. 

 

Un Paese sempre più anziano non ha solo bisogno di pensionamenti

Nel nostro Paese il numero dei sessantacinquenni supera quello dei venticinquenni ed eguaglia, sostanzialmente, quello dei trentacinquenni. A breve, i settantacinquenni supereranno i trentacinquenni: una vera e propria bomba a orologeria.

I giovani, oggi, partono da condizioni di benessere maggiori rispetto a quelle di anni fa, ma trovano meno spazi per essere soggetti attivi di nuova crescita. La rincorsa al consenso immediato soffoca la capacità progettuale, ed è quindi inevitabile che il nostro si trasformi in un Paese di anziani, dove la spesa pensionistica è quattro volte tanto quella destinata all’istruzione. Il conto sarà molto salato dal punto di vista della sostenibilità, sia dello stato sociale, mancando giovani in età da lavoro che versano contributi per pensioni, sanità e istruzione, che della democrazia: immaginiamo quali interventi potrà mettere in campo un certo tipo di politica, già col respiro corto, quando la maggioranza degli elettori sarà composta da settantenni.

Non possono essere gli anziani, infatti, a progettare il futuro che non abiteranno. Basti ricordare che la ricostruzione del Secondo Dopoguerra, che gettò le basi del boom economico, fu trainata dai trentenni che allora erano la metà della popolazione italiana. Da una ricerca su “giovani, lavoro e rappresentanza” svolta da Fim Cisl e Istituto Toniolo, con la guida scientifica del professor Alessandro Rosina, emerge chiara la voglia dei giovani di partecipare, contare e avere uno spazio di protagonismo e di rappresentanza. Bisogna risintonizzarsi sulle loro frequenze rendendoli protagonisti della costruzione del proprio futuro, facendo della creatività, in questi tempi inediti, la principale leva dell’evoluzione sociale ed economica, come insegna il professor Ugo Morelli. 

Da tempo il sindacato sta facendo i conti con il concetto di sostenibilità, nel solco dell’economia civile. Anche la promozione della legalità, in collaborazione con il mondo dell’associazionismo, assume valore economico e sociale, identificando il lavoro come argine alla criminalità e principale strumento di costruzione della propria identità. Interessante, ad esempio, l’intuizione di Next (Nuova Economia per tutti), attuata nel mondo del lavoro dalla Fim Cisl, del voto col portafoglio, ovvero la possibilità per i cittadini di premiare, attraverso i consumi, le aziende, le filiere e le imprese che rispettano, nel lavoro, la sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Un’arma nuova e potente di lotta sindacale per realizzare un modello alternativo di economia e sviluppo e la via per costruire un welfare inclusivo e generativo fondato, appunto, sul lavoro e sui legami, e non sul semplice assistenzialismo.

Il tema pensionistico è importante, ma occorre ristabilire il principio per cui non tutti i lavori possono essere trattati allo stesso modo: mansioni usuranti e gravose restringono l’aspettativa di vita, e dunque, come diceva don Lorenzo Milani, non si deve fare parti uguali tra disuguali. Il vero patto intergenerazionale non può risolversi nella misura di “quota 100”, ma deve trovare realizzazione anche nel diritto di lavorare a lungo, in modo dignitoso, per garantire il trasferimento di competenze. Per questo motivo, la formazione può essere la svolta per contribuire a invertire il trend demografico, dando protagonismo ai giovani e costruendo i presupposti per massimizzare le opportunità che l’innovazione tecnologica sta già portando. Con il Contratto dei Metalmeccanici è stato conquistato il diritto soggettivo alla formazione per tutti, una conquista che va ora completata passando alla valorizzazione del capitale umano e alla tutela dell’occupabilità delle persone. 

 

Il sindacato, i giovani e il bilancio delle competenze

Più si terranno agganciate le competenze delle persone alle traiettorie di sviluppo delle imprese, maggiore sarà la spinta verso l’alto non solo per le aziende, ma per il Paese intero, con benefici per la produttività. Per questo è urgente costruire un monitor skill, come dice Franco Amicucci di Skilla, ovvero un’anagrafe e un bilancio delle competenze funzionale a focalizzare gli interventi formativi sulle reali necessità dei territori e delle imprese, e per avere un quadro fedele delle professionalità presenti al lavoro e di quelle da riallocare, unendo la capacità di intervento per colmare eventuali gap di competenze e di incrocio tra domanda e offerta.

È quindi fondamentale avvicinare lo sbocco del percorso scolastico alle reception delle aziende, rafforzare l’alternanza scuola lavoro e costruire collaborazioni con associazioni datoriali, università e competence center. Oggi nessuno si occupa del ciclo di vita delle competenze del capitale umano, senza cui non c’è futuro per l’industria, che saranno il nuovo fattore di competitività delle imprese, unitamente alla valorizzazione dei giovani high skill, tanto dal punto di vista retributivo che di carriera, fermando la fuga all’estero verso chi quelle abilità le sa attrarre e valorizzare. 

Il sindacato dovrà quindi diventare una struttura permanente di presa in carico delle competenze delle persone, affiancando al ruolo di soggetto contrattuale quello di analista e attore politico. La tecnologia creerà opportunità per aumentare, e migliorare, il valore e la qualità del capitale umano industriale, diventando uno straordinario alleato per raccogliere e analizzare l’enorme quantità di dati disponibili, e scarsamente utilizzati, per monitorare l’allineamento delle competenze delle persone al fabbisogno aziendale. Si potranno così individuare, ad esempio, i talenti che non vengono valorizzati o chi è a rischio di obsolescenza professionale, e prevedere per tempo interventi correttivi.

Come ci insegna il professor Carlo Alberto Carnevale Maffè, infatti, le imprese che non valorizzano il proprio capitale umano finiranno per “scaricare” nella società esternalità negative, sotto forma di prepensionamenti, assistenzialismo e disoccupazione, lasciando le persone da sole con il loro fardello di competenze esauste che renderà difficile un loro reimpiego. Queste imprese devono essere tassate esattamente come le imprese che producono CO2, perché nei fatti inquinano il mercato del lavoro, impoverendolo e spingendo tutti ai margini della competitività globale.

 

Il sindacato, garante della sostenibilità economica e pietra angolare del futuro collettivo

La strada è già tracciata, e porterà le aziende a pubblicare il bilancio del capitale umano, così come si redige il bilancio del capitale finanziario: l’enorme asset che hanno le imprese, il capitale umano appunto, non è mai stato espresso in bilancio se non come costo del personale. Se le competenze invecchiano e non vengono manutenute, l’azienda rischia di non riuscire ad affrontare i cambiamenti sempre più veloci che il mercato richiede, rischiando di finire fuori strada e producendo un danno a tutti gli stakeholder, lavoratori e azionisti, tenuti all’oscuro dalla mancata certificazione e valorizzazione di questo fondamentale patrimonio. Imprese virtuose, viceversa, devono avere finanziamenti e accesso al credito agevolato.

È un tema di sostenibilità economica dell’impresa che si incrocia, fortemente, con il tema della sostenibilità ambientale, altra sfida che il sindacato ha davanti. Le tecnologie aiuteranno a tenere insieme lavoro e rispetto dell’ambiente, richiedendo capacità di gestire grandi riconversioni di produzioni. Anche su questa partita il ruolo della formazione sarà determinante per non mollare le persone in mezzo a questo mare di cambiamenti.

La consapevolezza e la convinzione che il tempo sia superiore allo spazio ci dà la forza di alzare lo sguardo per progettare un futuro collettivo, frutto delle scelte che sapremo fare già oggi. Un sindacato di questo tipo, utile ai lavoratori per crescere e alle imprese per evolvere, diventerà fattore attrattivo per gli investimenti nel Paese, liberandosi definitivamente dell’etichetta a volte meritata di zavorra del progresso, e conquistando invece la bandiera dell’innovazione dietro cui tornare a mettere insieme le persone per organizzare la speranza.

 

 

 

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