La salute prima di tutto? I costi salati del paternalismo italiano

Moltissimi cittadini, in queste settimane di emergenza, esprimono gratitudine verso lo Stato, manifestano la riscoperta di quanto sia importante fare affidamento sui servizi pubblici. Un sentimento tanto puro quanto ingenuo, considerando che in queste stesse settimane lo Stato, semplicemente, non c’è. L’amministrazione della giustizia è quasi azzerata, la riscossione dei tributi è sospesa, i servizi […]

Moltissimi cittadini, in queste settimane di emergenza, esprimono gratitudine verso lo Stato, manifestano la riscoperta di quanto sia importante fare affidamento sui servizi pubblici. Un sentimento tanto puro quanto ingenuo, considerando che in queste stesse settimane lo Stato, semplicemente, non c’è.

L’amministrazione della giustizia è quasi azzerata, la riscossione dei tributi è sospesa, i servizi delle scuole e delle università sono prestati con grande difficoltà e con enormi disomogeneità, i servizi di trasporto e postali sono erogati con fortissime limitazioni. È vietato riunirsi e occorre giustificare i propri spostamenti, quando in tempi normali occorre un valido motivo per chiedere di giustificarli. Il Parlamento è chiuso, il diritto di voto (per un referendum e per più elezioni amministrative) è congelato, ed è messo in crisi anche il criterio di distribuzione della competenza tra le regioni e lo Stato centrale (al quale spetterebbe in via esclusiva laddove siano in gioco emergenze di interesse generale nazionale).

Una sospensione della Costituzione e delle funzioni e prerogative dello Stato (tranne una) che viene giustificata affermando il principio secondo cui “la salute viene prima di tutto”. Ebbene, occorre chiedersi se sia un principio valido in assoluto e senza alcuna condizione, o se debba essere applicato e interpretato in un’ottica “di sistema” che finora è mancata.

 

Perdere la libertà per combattere il coronavirus

Ciascuno, riferendosi a un momento della sua vita di totale libertà e di piena salute, chieda a se stesso se sarebbe disposto ad accettare una perdita certa e attuale della propria libertà per prevenire il rischio eventuale e futuro di ammalarsi. Prendetevi un po’ di tempo prima di rispondere: sono convinto che i “sì” e i “no” siano entrambi molto numerosi.

Cambiamo la domanda: ciascuno chieda a se stesso se sarebbe disposto ad accettare una perdita certa e attuale della propria libertà per prevenire il rischio eventuale e futuro che gli altri si ammalino. La risposta rimane difficile, e sono convinto che rispetto al quesito precedente molti cambieranno risposta, in entrambe le direzioni.

È del tutto comprensibile che la convinzione che la salute “venga prima di tutto” vacilli, perché avremmo difficoltà tanto a goderci la nostra salute in condizione di prigionia quanto a esercitare la nostra libertà essendo ammalati. Capire di essere combattuti ci fa abbandonare rapidamente gli slogan e ci fa scoprire di essere non solo legittimati, ma chiamati, tenuti, a compiere scelte e ad assumercene la responsabilità. E a sapere che non potranno essere scelte completamente libere e arbitrarie, dal momento che i loro effetti riguarderanno esigenze e interessi confliggenti, nostri (la mia libertà vs la mia salute) e degli altri (la mia libertà vs la salute di tutti).

In un suo scritto su Ulisse, Umberto Galimberti definisce la phrònesis del Re di Itaca non nella accezione abituale dell’astuzia, ma del buon senso, della capacità di scegliere, di trovare di volta in volta il punto di equilibrio tra forze contrarie.

Tra il “faccio tutto ciò che voglio” e il “tutto è vietato” c’è un’infinità di soluzioni intermedie, alle quali dovrebbero corrispondere il “che cosa posso fare” e il “come posso farlo”. Come l’individuo per il quale esistono solo i due estremi (e che quindi rifiuta di compiere scelte e di esserne responsabile), lo Stato si attesta, per ragioni evidentissime dettate dall’emergenza, sul secondo estremo e chiede a tutti noi di fare altrettanto. E perché la richiesta abbia successo – non facendo pieno affidamento sulla propria autorevolezza né sul nostro senso di appartenenza – si avvale di un’arma sottile: il paternalismo.

 

Il poliziotto buono e il poliziotto cattivo dello Stato paternalista

Le restrizioni delle libertà sono dapprima oggetto di raccomandazioni accompagnate da messaggi incoraggianti (“non cediamo alla paura”, “andrà tutto bene”, “Milano non si ferma”) e dall’incentivo a “socializzare a distanza”, a essere “distanti ma uniti” attraverso i flash mob dai balconi. Poi, siccome l’emergenza è reale e serissima, si fa capire che non si tratta di raccomandazioni bensì di vere regole, ma si lascia che siano contraddittorie, interpretabili in più modi, affidate all’autodisciplina dei destinatari.

Lo Stato vorrebbe imporre regole giocando la parte del poliziotto buono e affidando quella del poliziotto cattivo agli scienziati, che infatti sono protagonisti di una escalation di prese di posizione via via più preoccupanti: siamo passati da “è sufficiente starnutire nel gomito, non darsi le mani e lavarsele spesso” a “il virus resiste sugli oggetti e ogni cosa dovrebbe essere disinfettata”, per poi giungere al vago, e quindi allarmante “in Lombardia avviene qualcosa di inspiegabile”.

Solo alla fine, se ancora non basta, tocca ai Presidenti delle Regioni maggiormente colpite – quale che sia la loro appartenenza partitica – adottare toni decisamente minacciosi, annunciando ai cittadini che se non capiranno con le buone passeranno alle cattive, che speriamo continuino a non essere consentite nel nostro ordinamento democratico.

La “via paternalistica alla gestione dell’emergenza” è facilitata da più fattori:

  • l’indole di molti cittadini italiani, contenti di essere blanditi da uno Stato che mostra i muscoli (ma che percepiscono come debole), sentendosi autorizzati a gonfiare anche i propri con la delazione nei confronti di altri cittadini che non rispetterebbero le regole e con l’invocazione dell’esercito nelle strade; e molto meno disposti a interpretare con serietà e prudenza le regole dettate da uno Stato che, se fosse realmente forte, non avrebbe bisogno di alzare i toni;
  • la moltiplicazione dei livelli decisionali, che determina un’incoerenza tra le regole e i loro documenti interpretativi e applicativi tale da non renderne nessuna davvero vigente “in generale e in astratto” (come dovrebbe essere perché una norma giuridica sia tale);
  • l’emotività comprensibilmente suscitata dal coinvolgimento di un bene primario come la salute, che, unita alla paura, rende tollerabile, anzi quasi desiderabile, l’estremizzazione del paternalismo di Stato, che si esercita infatti attraverso atti, linguaggi e simboli che toccano le corde delle emozioni.

Così, ai bambini e ai ragazzi costretti a lasciare la scuola, gli amici, le attività sportive e ricreative, viene ripetuto ossessivamente (anche nella comunicazione istituzionale) che devono fare questo sacrificioper i loro nonni”. Ora, non solo è evidente che nessun nonno al mondo chiederebbe al proprio nipote di rinunciare con certezza e da subito (e non si sa per quanto) a tutto ciò che compone la sua vita di bambino e di adolescente per prevenire un pericolo eventuale per la propria salute; ma il messaggio ha conseguenze (e premesse logiche, purtroppo) ben peggiori, perché lo Stato finisce in questo modo per mettere in conflitto tra loro le due generazioni che normalmente non lo sono, facendo perdere quella a cui dovrebbe dedicare la maggiore attenzione – senza temere, nel dire questo, di apparire cinico. Con la conseguenza, per di più, di creare nuova solitudine tra gli anziani e ingiustificati sensi di colpa tra i giovani, bombardati dal messaggio “se continui a vivere normalmente puoi uccidere i tuoi nonni”.

 

Personale sanitario: dalle aggressioni alla retorica dell’eroismo

Allo stesso modo, lo Stato asseconda la richiesta rivolta dai cittadini ai medici e agli infermieri: non di essere bravi nel loro lavoro, ma di essere eroi”. Il personale sanitario dovrebbe essere il primo destinatario dei presidi anti-contagio, anzi gli si dovrebbe imporre di non intervenire in loro assenza: e invece i dati ci dicono (senza che questo susciti alcuna indignazione nel pubblico) che dieci malati su cento sono operatori sanitari.

I cittadini che per anni si sono fatti accompagnare in ospedale dall’avvocato per chiedere a quei medici e infermieri il risarcimento di qualsiasi danno anche inventato, che li hanno insultati e aggrediti fisicamente per non essere riusciti a compiere un miracolo impossibile o anche solo per un tempo di attesa troppo lungo, sono gli stessi che oggi pretendono il loro eroismo. Con la complicità dello Stato, che manda allo sbaraglio medici e infermieri neolaureati (anzi, fatti appositamente laureare in anticipo) senza alcun tirocinio e senza abilitazione professionale, in una rievocazione fuori contesto dei “ragazzi del ‘99” della Grande Guerra. I cittadini guardano, tifano, ma state pur certi che hanno il numero dell’avvocato già pronto da chiamare.

La grande fascinazione del carico retorico che accompagna il suo paternalismo fa perdere di vista allo Stato i necessari limiti strutturali del sistema sanitario pubblico, la cui funzione è quella di assicurare l’accesso alle migliori cure possibili al maggior numero possibile di cittadini indipendentemente dalla loro condizione sociale e di reddito; non è, non è mai stata, né potrebbe mai essere, quella di impedire che chiunque si ammali o muoia.

E gli ha fatto completamente dimenticare – e disapplicare – un principio cardine della tutela della salute, esplicitato nell’ultimo periodo dell’articolo 32 della Costituzione: il rispetto della persona umana, messo fortemente in discussione nel momento in cui ai ricoverati è negato ogni contatto anche telefonico con i propri familiari, e totalmente violato nel momento in cui lo Stato si impadronisce del dolore che accompagna gli ultimi istanti di vita e la morte, costringendo il paziente e i suoi cari a scambiarsi le ultime frasi solo tramite medici e infermieri.

Tornando alla necessità di posizionarsi tra gli estremi del “lasciare fare tutto” e del “vietare tutto”, mi permetto una precisazione che nasce, purtroppo, da esperienze personali: chi entra in un reparto di terapia intensiva in assenza di una emergenza come quella in atto non fa affatto “quello che gli pare”. Al contrario, osserva un codice che disciplina il “cosa poter fare” e il “come farlo” in modo molto rigido. La scelta di fare visita al paziente non è esclusa, ma la soglia della responsabilità nel compierla è posizionata molto in alto: limiti molto stringenti, per il rispetto della salute di quel paziente e di tutti gli altri all’interno dello stesso reparto. Quelle visite non confortano (il conforto, credetemi, è tutt’altra cosa), ma consentono una testimonianza dell’esserci che vale più del conforto: nei casi in cui i pazienti non ce la fanno, quella testimonianza si rivolge a chi muore in un “non eri solo quando te ne sei andato”, e a chi resta in un “non ero solo quando se n’è andato”. Una testimonianza che dovrebbe essere lasciata solo a chi è coinvolto direttamente, che nessun medico o infermiere può esprimere e che non è giusto chiedergli di esprimere.

Ma lo Stato paternalista, oltre a non avere l’autorità di un padre, non ne ha nemmeno il sentimento, e allora trasforma la sofferenza in ulteriore simbolo mediatico: le salme che si sono dovute trasferire da Bergamo per consentirne la cremazione in tempi ragionevoli avrebbero potuto essere trasportate all’interno di carri funebri in momenti diversi, senza alcuna necessità di disporli in un unico corteo. Con l’utilizzo di una colonna di mezzi dell’esercito (l’immagine che finora ha forse suscitato la maggiore emozione nei cittadini) lo Stato, che già se ne era impadronito, militarizza il dolore. Come se fossimo in guerra, ma non lo siamo.

 

È possibile una gestione dell’emergenza al di là del paternalismo di Stato? Sì, a tre condizioni

L’approccio paternalistico è destinato a fallire, perché pretende di ottenere obbedienza senza avere il coraggio di fissare vere regole. E perché l’obbedienza, anche laddove trovasse fondamento in un ampio riconoscimento dell’autorevolezza dello Stato (il che non ha mai corrisposto al sentire della maggioranza degli italiani), avrebbe comunque i giorni contati: nella fase iniziale dell’emergenza i cittadini si comporterebbero come fanno i bambini, che finiscono – fatto salvo qualche comportamento capriccioso – per applicare le decisioni prese dagli adulti. Col passare delle settimane, attraverserebbero un’adolescenza caratterizzata da ribellione e disconoscimento dell’autorità per poi giungere a una maturità che porta e richiede autonomia di giudizio, assunzione di responsabilità e scelta: anche la scelta di non applicare regole il cui rispetto non può essere controllato realmente e che, quindi, non sono davvero cogenti.

Per superare questo approccio è importante che lo Stato agisca su tre fronti.

Per prima cosa deve affrontare l’emergenza come tale, emanando e facendo applicare vere e proprie norme giuridiche che comprendano precetti chiari e univoci e sanzioni proporzionate e realistiche. Per riuscirci, deve ridurre i livelli decisionali per eliminare i conflitti di attribuzione e di interpretazione, tenendo per sé la produzione di norme primarie esaustive e puntuali e lasciando alle regioni e ai comuni la competenza solo per una normazione secondaria di dettaglio; e basare l’emanazione delle regole per fronteggiare l’emergenza su numeri veri, comunicati alla popolazione in modo univoco.

Lo Stato si preoccupi dei costi sociali dell’epidemia consistenti nella perdita di posti di lavoro, nella crisi delle imprese e delle attività professionali, ricordando che per molti la sospensione temporanea dell’attività equivale alla sua chiusura. Se sarà necessario per frenare il contagio, decida il blocco delle attività, ma a condizione che chi vedrà cessare le entrate possa sospendere le uscite: perché la sopravvivenza di imprese e studi non interessa solo i loro titolari, ma l’intero sistema, non fosse altro per il gettito fiscale senza il quale sarà impossibile finanziare adeguatamente il sistema sanitario già a partire dal prossimo anno.

Lo Stato assuma pienamente le sue responsabilità, senza affidare agli scienziati il ruolo che è delle istituzioni e della politica: in altre parole, ai cittadini sia trasmessa l’idea che lo Stato possa trovarsi sì di fronte a un’emergenza, possa sì sbagliare, ma abbia il controllo dei propri processi decisionali e dei ruoli istituzionali.

 

Obbedire, sì; ma in vista di cosa?

In secondo luogo, lo Stato deve giustificare la richiesta di obbedienza che rivolge ai cittadini con la dimostrazione di una prospettiva futura per un dopo-emergenza che deve avere da subito una data di inizio. Una prospettiva che sia tracciata già oggi, in base a una visione di sistema che abbandoni definitivamente gli estremi del “fate come volete” e del “è tutto vietato” e che si concentri sul “che cosa potete fare” e sul “come potete farlo”.

L’elemento centrale di questa prospettiva futura deve essere una chiara e irrevocabile decisione di tornare al più presto al pieno esercizio dei diritti, al pieno rispetto dei principi costituzionali e al pieno esercizio da parte dello Stato di tutte le sue prerogative e le sue funzioni, e non più di una sola. Lo Stato non dimentichi che un’emergenza, proprio perché tale, non può e non deve trasformarsi nella nuova normalità.

All’indomani del terremoto in Irpinia del 1980, in un momento – come quello che viviamo – di enorme coinvolgimento emotivo e smarrimento del popolo italiano, Sandro Pertini disse che “il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”. Oggi il modo migliore per onorare la sofferenza dei malati e dei morti è pensare alla protezione dei sani.

Anziché destinare tutte le risorse alla costruzione di strutture costosissime e destinate ad essere smantellate, si investano anche (soprattutto?) nello screening della popolazione tutta, al fine di individuare finalmente il “denominatore mancante” senza il quale nessun ragionamento sulla incisività e sulla letalità del virus può avere un senso. L’altro fine è quello di organizzare – al posto dell’isolamento cautelativo di tutti – la separazione dei malati (da curare senza che contagino altri) dai sani (da restituire alle loro attività di studio e di lavoro, stabilendo il “come” di questo loro ritorno all’esercizio dei diritti e al rispetto dei doveri).

Le risorse disponibili, incluse quelle provenienti dalle donazioni, siano destinate sia all’emergenza in corso, sia alla realizzazione di interventi e misure strutturali che consentano di evitare la prossima: significa destinarle alla creazione di nuovi centri di ricerca e di nuovi laboratori di analisi; alla celebrazione dei processi in videoconferenza; alla creazione di infrastrutture e strumenti per la didattica a distanza tali da assicurare davvero l’esercizio del diritto allo studio.

Se lo Stato sarà capace da subito di elaborare (e di illustrare con chiarezza) una visione strategica per il dopo-emergenza, otterrà dai cittadini, in luogo dell’obbedienza, una condivisione di lunga durata.

 

Dare forma al futuro per toccarlo con mano: come si sconfigge il coronavirus

Lo Stato infine – ecco il terzo impegno – ha il dovere politico e culturale di abbandonare il paternalismo e di indurre tutti a condividere questo stesso scopo.

Sono moltissimi gli italiani rassegnati all’idea che “niente sarà più come prima”; ancora di più quelli che manifestano il ritrovato apprezzamento per le piccole cose, quelle che si possono fare e avere quando si resta isolati. Ecco, la sfida più importante che dobbiamo lanciare a noi stessi è impedire che questo modo di pensare diventi normale: l’attaccamento alle piccole cose che abbiamo nella nostra sfera domestica e familiare è l’atteggiamento più individualista che si possa immaginare, lo stesso che è alla base della disattenzione (che spesso diventa autentico, ostentato, disprezzo) verso tutto ciò che è pubblico, e che oggi ci fa piacere dire di apprezzare.

Chi vuole lo coltivi nella propria sfera, ma non ci dimentichiamo che abbiamo riscoperto questo attaccamento solo come strumento per resistere all’isolamento e alla paura. Fuori dalle nostre case diamoci obiettivi di respiro ampio, perché per essere liberi e sani non basta tornare a non avere paura.

I nostri ragazzi devono ambire alle grandi cose, ai grandi ideali, ai grandi amori, ai grandi viaggi, ai grandi raduni, ai grandi progetti. E se, come temo, questa sospensione innaturale della loro gioventù avrà tolto loro la fiducia nella possibilità di pensare in grande, sarà importante che si rivolgano ai loro nonni: hanno impiegato l’intera vita per far sì che i nipoti possano coprire distanze e raggiungere traguardi più grandi dei loro, e nessuno potrà quindi incoraggiarli meglio, con buona pace del conflitto generazionale imperdonabilmente causato dallo Stato paternalista.

Abbiamo bisogno di un patto sociale universale. Dobbiamo assumere reciprocamente l’impegno a uscire al più presto dalle nostre case e a trovare allora – quando godremo nuovamente di tutti i nostri diritti e rispetteremo nuovamente tutti i nostri doveri – il senso dello Stato e dell’appartenenza; e a fare sì che, sul piano della qualità dell’esercizio della libertà e della democrazia, tutto torni come prima; anzi sia meglio di prima. Solo così potremo dire di avere sconfitto il virus.

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