La Social [In]Ability dei giornali italiani

A distanza di otto anni dall’avvento di Facebook e Twitter l’informazione online del nostro Paese non ha ancora capito come e perché utilizzare i social media. L’avvento dell’informazione digitale ha reso la notizia un bene che può essere facilmente digitalizzato e riprodotto, consumato in gruppo, spesso gratuitamente, svincolandolo dal supporto fisico e rendendolo, con ciò, […]

A distanza di otto anni dall’avvento di Facebook e Twitter l’informazione online del nostro Paese non ha ancora capito come e perché utilizzare i social media.

L’avvento dell’informazione digitale ha reso la notizia un bene che può essere facilmente digitalizzato e riprodotto, consumato in gruppo, spesso gratuitamente, svincolandolo dal supporto fisico e rendendolo, con ciò, sempre più vicino ad un “bene pubblico”, essendo sempre più difficile escludere i consumatori dal consumo gratuito dello stesso, o ad un shared good, ossia un bene che viene condiviso tra più consumatori.

L’uso dei social media come mezzo di informazione assume rilevanza almeno per due motivi; in primo luogo, per la loro forte penetrazione nella vita quotidiana, in secondo luogo per la possibilità di condividere e discutere in tempo reale dei contenuti. È importante sottolineare che la fruizione di informazione tramite social può essere anche il frutto di un’esperienza occasionale, nel senso che in considerazione della loro caratteristica di contenitori, è molto probabile che si viene raggiunti da una notizia mentre si è sul social network per fare altro. In questo senso, il consumatore può perdere l’idea di chi è il vero fornitore dell’informazione, associando l’intera esperienza di navigazione al social network stesso.

Analizzando le principali testate online del nostro Paese, sia legacy media che pure players, si evidenzia come non vi sia alcuna correlazione tra la numerica, tra il numero di fan e follower di una determinata testata ed il traffico, in termini di utenti unici nel giorno medio, dei diversi giornali analizzati.

I dati rela­tivi alla total digi­tal audience dei siti d’informazione per il mese di giu­gno 2015 [ultimo dato disponibile], rela­tivo agli utenti unici gior­na­lieri “disag­gre­gati” dalle TAL, ossia dagli accor­pa­menti tra siti diversi sotto lo stesso brand, infatti [di]mostrano come, ad esempio, La Stampa, pur avendo una fan base, un numero di fan su Facebook inferiore a tutte le altre testate d’informazione prese in considerazione, abbia volumi di traffico complessivi maggiori di testate, quali Il Fatto Quotidiano o Fanpage, che hanno una base sui social anche di dieci volte maggiore.

Aspetto che emerge ancor più chiaramente, se necessario, esaminando i dati di Similarweb sulle fonti di traffico alle diverse fonti informative come mostra il grafico sottostante.

Di social [in]ability, si parla da tanto tempo, decisamente troppo tempo se si considera l’attuale, sconfortante, panorama ed i pochi, o nulli, cambiamenti, miglioramenti, avvenuti.

La stragrande maggioranza delle testate continua tutt’oggi a considerare i social una discarica di link. Non esiste una social media policy e neppure una netiquette condivisa con il pubblico di riferimento, non esiste moderazione e gestione dei commenti, non esiste conversazione, dialogo con le persone. A 15 anni dalla pubblicazione del Cluetrain Manifesto, la principale e più nota delle tesi: i mercati sono conversazioni resta sconosciuta di fatto, in termini di applicazione, da quasi tutte le principali testate italiane senza che siano complessivamente applicati i più elementari criteri di community management.

Vi sono elementi di resistenza culturale, come dimostrano i risultati del recente “The Social Jour­na­lism Study”, rap­porto giunto alla quarta edi­zione su uso e con­sumo dei social da parte dei giornalisti, che evidenziano come per circa la metà dei rispondenti vi sia scetticismo sull’uso dei social media ancora nel 2015.

I social hanno nume­rosi campi di appli­ca­zione, dalle ricer­che di mer­cato in tempo reale allo sviluppo di prodotti/servizi, passando per custo­mer care, social selling e molto altro ancora. Ad oggi nessuno di questi viene sfruttato, nel senso migliore del termine, dai giornali online del nostro Paese.

Un capi­tale sociale, ed eco­no­mico, che viene dila­pi­dato pre­su­mendo che i social siano solo fun­zio­nali ad atti­rare traf­fico ai siti web delle testate. Come spiega a chiare let­tere Sarah Mar­shall, social media edi­tor del Wall Street Jour­nal, valu­tare i social (ed il lavoro di chi li col­tiva, li ali­menta) sola­mente in base al traf­fico gene­rato è un errore capi­tale. Non a caso al social media edi­tor di Press Asso­cia­tion è stato affi­dato il com­pito di “met­tere i social media al cen­tro della redazione”. Figure e ruoli professionali sempre più specialistiche che restano quasi sconosciute in Italia.

Le communities sono sempre più importanti dei media sia per tempo speso che per influenza generata. L’insostenibile social media [in]ability dei media ha sem­pre meno un senso com­piuto, comun­que la si guardi.

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