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Long COVID, se tra i sintomi c’è la perdita del lavoro
Discriminate per aver contratto il COVID-19 e i suoi esiti a lungo termine: sono le storie di tre donne che, mentre lottano per stare meglio, devono dire addio al lavoro. Forse per sempre.
Di COVID-19 si può guarire, di Long COVID forse no. O meglio, può succedere che le conseguenze del virus siano così pesanti da minare non solo la salute, ma anche il lavoro. Il che può tradursi in mancato rinnovo del contratto, situazioni in cui si viene costretti a licenziarsi, ma anche perdita di un impiego in nero senza alcun diritto all’indennità di disoccupazione.
SenzaFiltro ha raccolto le storie di tre donne che a causa del Long COVID non lavorano più, innanzitutto perché non sono nelle condizioni per farlo, ma anche perché non hanno trovato supporto né nei datori di lavoro né in cure per stare meglio.
Che cos’è il Long COVID e quali sono i suoi sintomi
Ma facciamo un passo indietro. Che cosa vuol dire Long COVID? Secondo l’OMS si ha questa condizione se una persona con un’infezione, probabile o confermata, sviluppa sintomi entro tre mesi, se questi continuano per almeno due mesi e non si riesce a spiegarne la causa con una diagnosi alternativa.
Si stima che, nei 53 Paesi della regione europea dell’OMS, a essere affette dal Long COVID siano state almeno 17 milioni di persone per almeno tre mesi nel 2020 e 2021. I sintomi possono colpire quasi tutti gli organi con effetti che includono disturbi del sistema respiratorio e nervoso. Ma ci possono essere anche disturbi neurocognitivi – tra cui la brain fog, “nebbia mentale” con perdita di concentrazione e memoria – metabolici, cardiovascolari, gastrointestinali, oltre a malessere, affaticamento, dolori muscoloscheletrici.
I lavoratori affetti da Long COVID, secondo lo studio Impatto del Long COVID sui lavoratori e sui luoghi di lavoro e ruolo della SSL dell’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, possono anche avere affanno, palpitazioni, difficoltà nel dormire, il che inficia la cosiddetta produttività. Per il 33% di chi aveva già patologie, il Long COVID può influire in modo negativo.
Ma spesso colpisce anche chi è in ottima salute, come le tre donne che abbiamo intervistato.
Ericka: “Ho contratto il COVID-19 al lavoro, ma a causa del Long COVID non mi è stato rinnovato il contratto”
Ericka Olaya Andrade, 46 anni, è una donna piena di vita, ma da quando ha preso il COVID-19 nel marzo 2020 ogni cosa le costa una fatica enorme.
Quando ci sentiamo è uno di quei giorni in cui ha un po’ di autonomia, “ma in genere ho trenta minuti al massimo, mi sforzo anche per fare la doccia. Ho problemi alla mani che mi impediscono persino di aprire una scatoletta, ho stanchezza cronica, insonnia, alopecia e, a causa del COVID-19, si è riattivato il Citomegalovirus. Per non parlare delle discromie cutanee, dei problemi con gusto e olfatto, della perdita di memoria e concentrazione. Non sai quante pentole ho buttato perché metto l’acqua sul fuoco e me ne dimentico! Mi sanguinano le gengive e di recente mi sono rotti i denti. Ma devo sostenere tutte le spese da sola. Nonostante mi abbiano diagnosticato il PTSD (disturbo post traumatico da stress, N.d.R.) e altri problemi cognitivi, in una città come Milano, dove vivo da 25 anni, non è possibile essere presi in cura per una riabilitazione convenzionata”.
Eppure Ericka ha contratto il COVID-19 al lavoro: “Nel gennaio 2020 sono stata assunta con un contratto temporaneo in una multinazionale tedesca per la quale mi occupavo di promuovere le aziende europee in Asia. Fin dai primi giorni in cui ho fatto la formazione, mi sono resa conto di essere in un ambiente malsano. C’erano persone che, con la febbre, venivano lo stesso in ufficio. Inoltre, non veniva applicata nessuna norma relativa all’igiene e alla sicurezza: non avevamo una postazione fissa, lavoravamo in quindici in una sala, le cuffie che ci davano non erano nuove. Dovevo persino portarmi il sapone da casa! E quando dalla sezione finanza sono stata spostata alla sezione moda, la situazione è peggiorata”.
Ericka ha cominciato a stare male intorno al 15 marzo, aveva la tosse, ma non pensava fosse COVID-19, tant’è che ha lavorato a casa per tre settimane. Dopo la prima, ha contattato il medico di base perché “avevo così tanta stanchezza che, anche se vivo in 40 metri quadri, arrivare in bagno era una fatica. E poi mal di testa folli, non volevo mangiare perché masticare era doloroso”.
Il medico, però, non le è stato di grande aiuto, non le ha fatto fare un tampone e non si è preso carico della situazione, il che poi si è rivelato controproducente. Finché un giorno Ericka ha chiamato il Pronto Soccorso dicendo di avere la febbre – “come mi avevano suggerito di fare per essere presa in cura” – ed è stata ricoverata in ospedale.
“Avevo una polmonite interstiziale non diagnosticata. Non ho potuto camminare per venti giorni. Sono uscita che ero positiva e sono stata trasferita al COVID Hotel Michelangelo, di fronte alla stazione, dove sono rimasta due mesi e mezzo”.
I mesi di assenza si ripercuotono sul lavoro. Inizialmente, il contratto di somministrazione le viene rinnovato fino al 30 giugno. “Il mio datore di lavoro non ha mai denunciato la mia situazione come infortunio di lavoro e io, che sono di origine colombiana, confesso che non conoscevo tutta la normativa italiana, non sapevo come muovermi né tantomeno potevo farlo per andare dal sindacato. Il 25 giugno, una volta accertata la guarigione, ho scritto all’HR dell’azienda e all’agenzia di somministrazione, anche perché altri colleghi avevano già avuto la proroga. Mi si dice che dovrò fare una visita medica aziendale e mi rendo disponibile. Peccato che non mi fanno più sapere nulla e di fatto si conclude il rapporto di lavoro”.
A oggi, nonostante faccia numerosi corsi di formazione, per Ericka trovare un impiego è impossibile. “Se non riesco a essere autonoma a casa, come faccio? Ecco perché, con il CAF, sto chiedendo la pensione di inabilità che viene data a chi non può più lavorare. Vivo da sola e spendo tanto per le cure, come posso fare altrimenti?”.
Per chi si trova in una situazione simile, l’INCA CGIL invita a denunciare il contagio e ricorda che c’è tempo tre anni per ottenere un risarcimento per il danno subito e i suoi postumi.
Cinzia: “Discriminata perché ritenuta contagiosa e lo smart working è stata una concessione”
Nella storia di Cinzia (nome di fantasia), 45 anni e residente a Parma, il Long COVID si mescola a mobbing, discriminazioni e a uno smart working che sembra una “concessione”.
Anche per lei il calvario è iniziato nel marzo 2020, quando era stata assunta da pochi giorni come impiegata nell’ufficio acquisti di una piccola azienda. Cinzia ha contratto il COVID-19 in ospedale, dove il padre era ricoverato per una malattia neurodegenerativa. Anche la madre è stata male a causa del virus, finché “in quindici giorni ho perso entrambi”, dice con la voce rotta da una tristezza che è ancora molto presente. E che si aggiunge a quello che ha dovuto e deve sopportare.
Inizialmente il COVID-19 dura sei settimane: “Sono stata curata a casa perché ho lasciato il posto in ospedale a mia madre. Una volta negativa, sono rientrata al lavoro. Avevo già speso una fortuna tra tampone, visita dallo pneumologo ed esami del sangue. A fine maggio sto di nuovo male. Ho febbricola, emicranie fortissime, tachicardia, stanchezza cronica, inoltre svenimenti di tipo ischemico-epilettico”.
Ed è in quel momento che inizia la battaglia con l’azienda: “Facevo parecchie assenze e a un certo punto si diffuse il panico che fossi ancora contagiosa, quindi nessuno voleva starmi vicino. Mi mandano dal medico aziendale che non mi visita, legge tutti gli esami che avevo fatto e mi chiede perché non avessi fatti altri”.
Risultato: per l’azienda Cinzia non è idonea a lavorare in sede e le viene concesso lo smart working. “Sono l’unica cui viene dato e, pur di non farmi entrare, un collega mi porta la borsa fuori dall’azienda. Per me è un duro colpo: andare al lavoro voleva dire svagarsi, un modo per elaborare il lutto”.
Conclusa questa fase, Cinzia viene riammessa in azienda e fino alla fine di settembre 2020 va tutto bene: “I disturbi vanno e vengono ma niente di così eclatante, nel frattempo porto avanti le mie indagini per capire cosa ho. Finché non ho un crollo: non sto più in piedi, la testa è come una lavatrice, svengo all’improvviso perdendo conoscenza dopo pochi secondi. Una volta mentre guidavo ho visto la curva dritta. Ho chiamato l’azienda, sono andata nuovamente in malattia (solo dopo riconosciuta dall’INPS come legata al COVID-19). Dei medici mi dicono che sono depressa e mi prescrivono degli antidepressivi, ma io sapevo che non era così”.
Cinzia trova sostegno all’Ospedale Mondino di Pavia, dove è stato aperto un ambulatorio NeuroCOVID, e in seguito a Modena, che è “l’unico che posso permettermi con il servizio sanitario. Per il resto devo pagare tutto”.
La situazione degenera nei primi mesi del 2021: “Quando c’è stato un caso di COVID-19 al lavoro ho preteso che mi dessero lo smart working. Avevo paura. L’ho ottenuto ma mi chiamavano quando non ero connessa, mi controllavano e mi facevano lavorare di più, finché ho capito che così non potevo andare avanti. In accordo con i sindacati, sono stata licenziata per giustificato motivo soggettivo: niente indennità, scarsa buonuscita, ma almeno ho ottenuto la disoccupazione”. Che sta per finire: “Se non fosse per il mio compagno, non saprei come vivere. Ho fatto dei colloqui, ma ogni volta che dico quanto è successo, non mi prendono. Alla mia figura si richiede di essere attiva, ma io passo più giorni a letto che in piedi e finora nessuno mi ha proposto lo smart working. Prima del COVID-19 ero una macchina da guerra. Giocavo a tennis, andavo in montagna. Ora non sono più nulla”.
Anna: “Il Long COVID mi ha tolto anche il lavoro in nero”
Anna (nome di fantasia), 39 anni, ha la voce affannata, fatica a parlare, ma nonostante questo non vuole smettere di farlo, tanta è la voglia di raccontare cosa le è successo.
Residente a Napoli, ha contratto il COVID-19 nel 2021, ma i suoi tamponi sono sempre stati negativi. Se ne accorge perché la figlia maggiore di 14 anni è contagiata, e ovviamente le presta le cure.
“Ero asintomatica, ma dopo tre giorni mi sono svegliata con dolori muscolari e un affanno che aumentava sempre di più. Da persona che è sempre stata forte fisicamente, mi sono spaventata e sono stata portata in ospedale. I tamponi che mi hanno fatto erano sempre negativi, nonostante avessi una saturazione molto bassa, fino a 85. Mi dimettono e mi dicono che sono ansiosa, depressa, quando io stavo bene psicologicamente”.
Da lì inizia il suo calvario: il fatto che non sia mai risultata positiva non la aiuta, ma le analisi che porta avanti (quasi tutte a sue spese), una volta escluse altre patologie, cominciano a far ipotizzare che abbia avuto il COVID-19, che peraltro torna a farle visita nell’aprile scorso.
La storia di Anna si differenzia dalle altre perché mentre lotta per la salute non ha diritto a nessuna indennità di malattia, né a ferie e permessi perché lavorava in nero in un bar. Dal momento in cui è stata male ha dovuto dire addio allo stipendio, “nonostante i miei titolari mi hanno sempre aspettata”.
Non cerca altro perché “al momento sono impresentabile, non mi posso affaticare, quando lo faccio ho dolori al petto. Non posso stare neanche vicina a fonti di calore, quando succede mi collassano tutti i muscoli, compresi quelli della respirazione. Ci penso spesso: se avessi avuto un lavoro in regola, avrei avuto maggiore aiuto, ma è la realtà di questa città dove per fortuna ho tanti amici che mi sostengono, anche economicamente. Qualcuno mi dice: ‘Prova a farti fare un’esenzione’. Già; ma per quale patologia, se questa non è riconosciuta?”.
Ericka, Cinzia e Anna fanno parte del gruppo “Noi che il COVID lo abbiamo sconfitto. Sindrome Post COVID #LongCovid”, creato da Morena Colombi nel maggio 2020. Oggi conta 39.000 persone che ogni giorno si confrontano su sintomi e conseguenze di un virus che, al di là dei numeri dei contagi, continua a fare vittime, anche quando sembra passato.
Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.
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