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Il Long COVID che lo Stato non vede: “Guarire è un lavoro a tempo pieno”
A distanza di un anno abbiamo risentito Ericka Olaya Andrade, che si sta sottoponendo a una cura sperimentale sul Long COVID e ha lanciato una raccolta fondi per portarla avanti: non può lavorare, le sue condizioni di salute peggiorano e da luglio non riceve più il Reddito di Cittadinanza
Da giornalista lo ammetto: ci sono storie di cui non vorresti parlare più e non perché non ti interessano, ma perché speri che a distanza di un anno le cose si siano risolte, o quantomeno abbiano imboccato la strada giusta.
E invece quello di Ericka Olaya Andrade, 47 anni, è un altro caso di cui vogliamo e dobbiamo tornare a parlare. Non solo per dirvi come (non) è andata a finire, ma per dare voce a chi, come lei, combatte ancora contro il Long COVID – di cui non si è mai detto abbastanza – e allo stesso tempo contro una condizione di precarietà che la contrassegna da più di tre anni e mezzo, da quando cioè si è negativizzata dopo quattro mesi di COVID-19.
A causa di quella che non è una malattia, ma una vera e propria sindrome, Ericka non può più lavorare, né tantomeno riesce a curarsi come vorrebbe. Dal luglio scorso, inoltre, ha dovuto dire addio a quel Reddito di Cittadinanza che “mi dava la serenità di comprare le cose di ogni giorno”.
Da Milano a Roma per sottoporsi a una cura sperimentale contro il Long COVID
Quando la incontro siamo in un bar di Milano in zona Gioia, a pochi passi da dove vive. Abbiamo scelto un giorno “buono”, in cui la stanchezza non l’ha ancora sopraffatta del tutto, ma deve comunque centellinare le forze: l’indomani dovrà partire per Roma e deve ancora preparare le valigie. La sua, però, non è una vacanza di piacere. Nella Capitale coltiva la speranza di stare meglio, e per la prima volta viene presa in carico per quello che sta vivendo da più di tre anni a questa parte.
Dopo vari tentativi andati a vuoto in Lombardia – tra cui quello di trovare una struttura che potesse aiutarla per il training neurocognitivo che le hanno consigliato – nel settembre scorso, grazie all’Associazione Italiana Long COVID, si è candidata per partecipare a un percorso sperimentale del Policlinico Gemelli che sta testando l’efficacia di un nuovo farmaco per il Long COVID, riscontrando anche dei buoni risultati.
“Ho fatto un test per sapere se la proteina HERV-W Env fosse all’interno del mio corpo. La presenza o meno mi avrebbe permesso di sperimentare un farmaco clonale che funziona già per la sclerosi multipla”, mi spiega questa donna che nel suo perfetto italiano non nasconde l’origine colombiana.
“Sono risultata positiva e così ho iniziato il percorso, che è fatto di infusioni con il principio attivo di anticorpi monoclonali sintetici: una al mese per sei mesi della durata di due ore e mezzo. Si tratta di una cura molto pesante: subito dopo mi sembra di avere un frullatore nel retro della testa, ho nausea, capogiri, problemi di stabilità, mi dà fastidio la luce, sento molto caldo e fatico a leggere, parlare o scrivere. Inoltre ho reazioni cutanee non indifferenti. E vorrei anche riposarmi, ma devo pensare al prossimo trattamento e a sopravvivere”.
Tuttavia, a distanza di settimane (quando l’ho risentita per sapere come fosse andato il primo trattamento, il prossimo sarà il 21 novembre), mi ha rivelato di essere stata e stare ancora male.
“C’è chi non mi crede perché non ho un aspetto trasandato”
A ogni modo, per Ericka fare su e giù per Roma non è affatto facile: deve fare i conti con il suo stato di salute, ma anche con la difficile situazione economica in cui versa. Tutto quello che ci aveva raccontato un anno fa sussiste ancora, anzi spesso vive una doppia invisibilità: quella di un Long COVID che non viene affatto considerato e quella di chi, guardandola, pensa che lei non sia affatto malata.
“Non ho l’aspetto di una persona che soffre (anche se quando ci incontriamo percepisco un’enorme stanchezza in ogni tratto del viso e del corpo, insieme a una grande forza di volontà, N.d.R.), non mi presento sporca o trasandata, ma so io cosa c’è dietro tutto questo. Spesso la gente mi dice ‘ma io ti vedo bene’ e questo perché magari vede una story su Instagram. Ma ognuno di noi sui social media si mostra sempre al meglio.”
“Non essere credute non è affatto bello, ma io combatto con la fatica cronica, con il dolore costante alle articolazioni, ai muscoli, ho tanti problemi gastrici che prima non avevo. Ho inoltre a che fare con la brain fog (nebbia cognitiva che comporta difficoltà di concentrazione, confusione mentale e deficit di attenzione, N.d.R.), ho disturbi dell’ansia, problemi di motricità. Per me è difficile anche firmare un documento, riempire un modulo, a volte persino mangiare senza sporcarmi. Per non parlare del sonno: se dormo cinque ore di fila è già una fortuna. Non posso lavorare, ho l’esenzione per questo, e non posso farlo neanche da casa. Qualcuno mi dice ‘non puoi fare smart working?’. Ci ho provato due volte, ma scrivere un’e-mail o fare una traduzione è una gran fatica.”
“Tra COVID-19 e Long COVID non sto bene da più di tre anni e mezzo”
In un anno la situazione di Ericka, che lavorava in una multinazionale tedesca, non è affatto cambiata.
Nonostante l’azienda per cui lavorava tramite un’agenzia interinale abbia riconosciuto il fatto che Ericka si sia contagiata sul luogo di lavoro nel marzo 2020, la denuncia è stata fatta solo dopo nove mesi e a seguito del primo ricorso amministrativo all’INAIL, che di fatto non era stato accolto. La donna, per far valere i suoi diritti e accedere alle cure di cui ha bisogno, si è rivolta ai sindacati, ma senza esito, finché non ha trovato un avvocato pronto ad aiutarla. Ma “ho un buco di tre settimane in cui non ho avuto nessun’assistenza, mi manca quindi qualsiasi certificato che possa testimoniare il mio stato di salute di quel periodo. Il legale me l’ha detto senza mezzi termini: se non ho quei documenti non se la sente di presentarsi davanti a una commissione, e l’azienda per procedere ha bisogno di una valutazione medico-legale”.
Ericka, come avevamo raccontato nel precedente articolo, ha avuto il COVID-19 per quattro mesi. Non ha ricevuto cure né nell’immediato né per diverse settimane da quando è risultata positiva, finché non è stata ricoverata prima all’Istituto Clinico Città Studi e poi all’hotel Michelangelo (allora COVID hotel, che oggi non esiste più). Assunta a tempo determinato, a causa delle sue assenze non si è vista rinnovare il contratto.
“Il Reddito di Cittadinanza mi aiutava a vivere, ancora oggi non so perché me l’hanno tolto”
È quindi diventata, dal 2020, percettrice del Reddito di Cittadinanza, fino a che nel luglio scorso “me l’hanno tolto senza alcun preavviso. Nel marzo 2022 sono arrivata a percepire 780 euro (di cui 280 erano per l’affitto), mentre prima ne percepivo 340”.
Anche in questo caso, ha dovuto lottare per capire cosa fosse successo: “Quando mi sono rivolta ai servizi sociali del Comune di Milano, che mi hanno in carico dal novembre 2022, mi è stato detto che il mio nome non risultava all’interno della piattaforma (la piattaforma per la gestione dei patti per l’inclusione sociale), N.d.R.), quindi è stato aperto un ticket, ma l’INPS ancora non ha ancora risposto e i servizi sociali non sanno come fare”.
Questo per Ericka è un dettaglio non da poco: se per una situazione di mancanza da parte del proprietario di casa per ora non sta pagando l’affitto, restano tutte le spese per vivere, ma soprattutto per curarsi in un’altra città. Oltre che per cercare di mangiare sano, visto che ha “uno stato di infiammazione costante”, e prendere tutti gli integratori, “che costano non poco”.
Una cura sperimentale costosa senza lavoro né sussidi
C’è poi da considerare che ogni mese da Milano deve andare a Roma e questo vuol dire, ogni volta, cercare di capire come mettere insieme i soldi del viaggio e dell’alloggio che deve essere vicino al Gemelli visti tutti gli effetti collaterali della cura cui si sta sottoponendo.
Ericka ha bussato a varie porte; finora ad aiutarla è stata l’ONLUS ASCS, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, che si occupa di aiutare i migranti, e che nel suo caso provvede al biglietto del treno.
Per le notti a Roma presso le suore ha ricevuto aiuto da un Centro d’ascolto della Caritas mentre il consolato colombiano le ha messo a disposizione una persona che la accompagna al Gemelli e l’aiuta a spostarsi.
Ma il problema economico continua a esserci e, come dice più volte nel corso dell’intervista, “il peggior sintomo del Long COVID è stato perdere il lavoro”. Mancanza di lavoro che le impedisce di scommettere e “finanziare” la sua salute: dopo la cura di sei mesi, infatti, dovrà trovare altri fondi per passare una settimana nella clinica di cellule staminali a Medellin (Colombia) che le costerà oltre 20.000 dollari. Se Ericka è intanto riuscita a trovare un sostenitore per il biglietto aereo, sono questi sei mesi di cura – e di vita – che la preoccupano, così come trovare i soldi per andare nella clinica specialistica.
Lo Stato tace: costretta a chiedere aiuto in rete
Ecco perché ha lanciato una raccolta fondi in rete: l’obiettivo è non solo ricevere sostegno economico, ma accendere i riflettori sulla situazione sua e di tutti coloro che vivono gli effetti a lungo termine del COVID-19.
“Non sono stata tutelata come lavoratrice, e oggi come cittadina soffro tutti i limiti di una burocrazia complessa che uccide più del COVID-19. Per questo ho deciso di accogliere il suggerimento di un’amica e di chiedere aiuto online. Durante questo percorso condividerò la mia esperienza in tre lingue per aiutare chi soffre come me, con video e attività varie sui social media. Per me guarire è diventato un lavoro a tempo pieno”.
Chi volesse aiutarla può donare su PayPal. Nel frattempo speriamo che anche le Istituzioni possano dare il sostegno che le serve – e che uno Stato con una sanità pubblica dovrebbe garantire a chiunque.
Photo credits: fondazioneveronesi.it
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