Ragazzi che imparano un mestiere per sognare

Questa breve storia vuole esplorare l’esperienza di un’azienda che, perseguendo sia l’obiettivo di una sostenibilità economica, sia uno scopo di utilità sociale, si è trovata a gestire un gruppo davvero singolare. A Bologna la Cooperativa Sociale Iusta Res porta avanti dal 2007 un progetto concreto rivolto a ragazzi che partono da “piattaforme diverse”: italiani e […]

Questa breve storia vuole esplorare l’esperienza di un’azienda che, perseguendo sia l’obiettivo di una sostenibilità economica, sia uno scopo di utilità sociale, si è trovata a gestire un gruppo davvero singolare.

A Bologna la Cooperativa Sociale Iusta Res porta avanti dal 2007 un progetto concreto rivolto a ragazzi che partono da “piattaforme diverse”: italiani e stranieri, di età compresa tra i 16 ed i 20 anni, in condizioni di precarietà familiare, fuori famiglia, minori messi alla prova, minori stranieri non accompagnati.
A questi ragazzi viene offerto un percorso professionalizzante nell’ambito della ristorazione, in un ambiente protetto dove crescere in competenza e consapevolezza, fino ad agevolare un solido inserimento lavorativo.

Vengono inseriti nell’organico di un locale, il Cafè de la Paix, che serve colazioni, pranzi, aperitivi ed offre servizi di catering. In questi anni hanno partecipato al percorso più di 350 ragazzi; 6 di loro sono diventati dipendenti della stessa Cooperativa.

Il Cafè de la Paix è tante cose, non è solo un bar, la particolarità di questo luogo si manifesta, soprattutto, nel rapporto tra i ragazzi che ci lavorano ed i clienti: spesso si crea, spontaneamente, una sorta di alleanza, di immediata complicità; non solo perché è comprensibile che si tratta di apprendisti, il senso del progetto è anche comunicato all’interno del locale. Succede che non si riesce ad essere indifferenti alle storie che questi ragazzi raccontano, anche solo con la loro espressione, a volte spavalda, a volte timorosa: dei meravigliosi absolute beginners.

Francesco Bonfiglioli è il presidente della cooperativa ed il tutor di ognuno di questi ragazzi e ci siamo rivolti a lui per approfondire le caratteristiche del progetto.

Qual è stata la spinta iniziale per far partire questo progetto?

Quando abbiamo avviato il Cafè de la Paix c’erano diverse difficoltà, ma il primo punto dello statuto della Cooperativa era molto chiaro: io sono diventato il timoniere di una rotta ben definita, o se vuoi uno strumento, di conseguenza tutto è poi andato in quella direzione: un taglio ovviamente legato al sociale, considerare la diversità come un valore aggiunto; rotta condivisa con tutti coloro che scelgono di lavorare qui

Cosa sognano, cosa si aspettano di ottenere questi ragazzi?

La grossa difficoltà di questi ragazzi è proprio quella di “avere dei sogni”; rispetto ad una persona con un percorso di vita “nella norma” hanno una concezione diversa del sogno; il loro sogno è nell’immediato, ha un orizzonte spazio-temporale più corto, molto meno poetico, molto più pragmatico.

Si aspettano di imparare un mestiere; hanno più obiettivi che sogni, nessuno di loro sogna di essere il miglior barista della terra, ma forse quello più pagato; è una scala di valori diversa; detto questo, dopo un po’ di tempo, quando capiscono che il lavoro diventa il “loro” valore, qualcosa di acquisito, che ne fa una persona con qualcosa in più rispetto a quando arrivano qui, ecco lì cominciano a sognare, si aprono all’ambizione, alla voglia di strutturarsi, prendono consapevolezza delle loro possibilità e ampliano la loro visione

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato?

In questi nove anni ci sono stati diversi casi di situazione di contrasto, di incomprensione, spesso si risolvono, con risultati anche migliori rispetto alle aspettative; quelli in cui ti trovi davvero disarmato è quando questi ragazzi vengono circondati da fattori esterni devianti; ad esempio quando la scuola, invece che educare la persona, ti continua a mandare avanti, purché tu finisca in fretta e liberi lo spazio; quando il lavoro dei Servizi Sociali è un continuo accontentare le richieste, con scambi del tipo “ti faccio fare il percorso lavorativo se fai anche il percorso di teatro”, la famiglia che dice che “non c’è nessun problema”, a quel punto è evidente che in un ragazzo con delle difficoltà, non c’è più il senso del dovere o di responsabilità, ma una visione distorta della realtà.

In certe situazioni ci siamo sentiti oggettivamente soli perché, di tutte le agenzie educative che ci gravitano intorno, il nostro è il solo approccio “non assistenzialista”; questo il nodo: per noi il lavoro elimina le diversità, sul lavoro siamo tutti uguali e tutti dobbiamo essere in grado di tenere il ritmo e il rispetto dei doveri; se uno è scollato da questa realtà è come una trave in un ingranaggio, o si ferma l’ingranaggio o si rompe la trave; esistono situazioni più protette, più assistenziali, forse più accoglienti della nostra; noi chiediamo a questi ragazzi di fare un percorso di miglioramento, non li teniamo parcheggiati.

Quale tipo di formazione date a questi ragazzi?

Mi piace pensare ad una frase mutuata dal mondo dello sport: chi ascolta acquisisce informazioni, chi fa le cose si forma; comunque forniamo una parte di formazione teorica ben regolata dal tirocinio formativo, con unità di competenza specifiche, oltre a tutta la parte legata alla sicurezza, all’igiene, etc.

Però la parte di formazione sul campo è fondamentale, soprattutto nella parte di rapporto col pubblico.

Qual è il riscontro che avete invece dai clienti?

Abbiamo una buona parte della clientela che ci sceglie, conoscendo il progetto; comunque quando si trovano davanti dei ragazzi con il cartellino “sto imparando”, a volte diventa anche un gioco di complicità con la clientela, magari non con tutti, non sempre c’è il tempo di spiegare il percorso dei ragazzi, ma in genere il riscontro è positivo.

Il gruppo è composto da ragazzi che provengono da percorsi differenti, con una ulteriore diversità all’interno, come la gestisci?

Intanto c’è da considerare che queste generazioni hanno poco chiaro il concetto di lavoro di gruppo, fanno molte cose individualmente; prima difficoltà è farli apprendere il concetto di “noi”, invece che “io”; la provenienza da vissuti diversi si nota; la nostra capacità deve essere quella di sfruttarli come valore aggiunto, tirare fuori da tutti i pezzi migliori della loro esperienza, chi ha percorsi di giustizia minorile può far capire che ci sono cose che non si fanno, chi ha vissuti di abbandono è giusto che ne possa parlare, poi ci sono quelli che hanno elementi di disabilità: visto che è un gruppo, il più capace deve sempre aiutare chi è più indietro, altrimenti il gruppo non va avanti.

Qual è la qualità che devi più spesso mettere in campo?

È quasi scontato dire la pazienza; ogni mattina occorre saper gestire la versione zen di noi stessi; ma forse la più grande difficoltà è quella di abbattere veramente ogni pregiudizio, ad esempio certi stereotipi su determinate etnie, preconcetti e resistenze personali che possono essere sempre in agguato; pensare che coloro che hai davanti sono tutti uguali; tenendo presente sempre che non stai facendo beneficenza, ma insegnando un lavoro.

A differenza di percorsi che accettano certi limiti di questi ragazzi, io non do mai per scontato che uno non capisca, a costo di dormire con lui, sono quasi obbligato a pensare che capisca, non posso mai buttare la spugna. Questo è sicuramente lo sforzo più grande

 

 

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