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Nel lavoro vince chi sfugge

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<p>Un reportage per parlare di tutte le crisi d&#8217;impresa che l&#8217;informazione non racconta: disastri in attesa di esplodere o problemi in via di risoluzione. Apriamo il primo Osservatorio nazionale sulle crisi aziendali.</p>


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Andrea Ballone

Lavora come giornalista da più di vent&#8217;anni. Collabora con Oggi, La Stampa e La Provincia Pavese. In passato ha scritto articoli per l&#8217;Espresso, il Sole 24 Ore e il Mondo. Si occupa di lavoro, scuola, pubblica amministrazione, volontariato, ambiente e criminalità organizzata. Su questo tema ha scritto anche il libro &#8220;Pizza, sangue e videopoker&#8221;, in collaborazione con l&#8217;associazione antimafia Libera, nel quale si ricostruisce l&#8217;ascesa di alcuni clan criminali nel Nord Italia.

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Gianni di Bari

Ho speso 34 dei miei quasi 58 anni ad occuparmi di comunicazione. Ho iniziato come giornalista, pubblicista dal ‘92 e professionista dal ’97, per testate locali, regionali e nazionali. Sono passato alla comunicazione per le aziende e per le istituzioni, che pratico tutt’oggi. L&#8217;interesse professionale si è focalizzato sulla promozione delle produzioni agroalimentari italiane, anche facendo leva sulle connessioni tra cibo e cultura, e su azioni di marketing territoriale orientate all&#8217;incremento dei flussi turistici, anche attraverso la valorizzazione delle forme d&#8217;arte tradizionali. Nel mentre ho fatto parte del gruppo di progettazione e organizzazione del Gargano Film Festival, prima rassegna cinematografica estiva realizzata nel territorio garganico, e del concorso Sud in Corto, realizzato in collaborazione con la Warner Bros. Ho presieduto il Circolo Arci Bellamì, luogo di promozione della cultura teatrale e musicale di base, e gestito la vineria Anime Brille, nel centro storico di Foggia, dove organizzo rassegne teatrali, musicali e librarie. Il tempo del mio volontariato lo dedico all&#8217;organizzazione e alla comunicazione di eventi culturali e comunitari per l’associazione Casa Di Vittorio. MOTTO Sono senza filtro perché condividere un’opinione diversa fa bene a chi legge &#8212; MAIL DI REDAZIONE: gianni.db@fiordirisorse.eu Città di origine: Foggia Città di adozione: Quella dove trascorrerò la vecchiaia in riva al mare Titolo di studio: Diploma di maturità scientifica Il mio lavoro: È prevalente l’attività di comunicazione istituzionale e assistenza legislativa. Poi organizzo eventi ed elaboro progetti di marketing territoriale mentre collaboro a Senza Filtro Per SenzaFiltro scrivo di: Attualità e politica Film preferito: C’era una volta in America (Sergio Leone), però ho pianto al termine di The rise of Skywalker (ultimo capitolo della saga di Star Wars 40 anni dopo il primo visto al cinema) Disco preferito: “Harvest”, Neil Young (solo perché è stata la mia porta d’accesso al rock ‘n ‘roll) Libro preferito: Tutto ciò che hanno scritto Borges e Calvino

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Lara Mariani

Giornalista per indole, fotografa per passione, ama vedere la realtà da alternativi punti di vista e non crede nei confini netti, né geografici né sociali. Dopo la laurea in Scienze Politiche e un master in comunicazione ha lavorato 10 anni per una casa editrice bolognese. Oggi, oltre a essere responsabile di redazione di SenzaFiltro collabora con l’ufficio comunicazione del Cefa, una ong che aiuta le comunità più povere del mondo a raggiungere l’autosufficienza alimentare. Inoltre, collabora con TerzoTropico e Tempo e Diaframma, associazioni culturali che realizzano reportage, mostre e volumi fotografici. È autrice del volume “I portici di Bologna, patrimonio di cultura e identità”, Minerva edizioni. &#8212; MAIL DI REDAZIONE: lara.m@fiordirisorse.eu

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Norman Di Lieto

Ha due passioni: la Moda e il Giornalismo che sono diventati anche la sua attività professionale. Ha lavorato per Fratelli Rossetti, Loro Piana, Trussardi e Gucci. Si è laureato – lavorando a tempo pieno – alla Facoltà di Comunicazione in Relazioni Pubbliche e Pubblicità all’Università Iulm di Milano con una Tesi sulle Relazioni con i media nelle aziende della moda. Si è specializzato in Comunicazione per gli addetti stampa alla Scuola di Comunicazione Iulm di Milano. È stato cultore della materia in Comunicazione d’impresa all’Università di Modena e Reggio Emilia e all’Università E-campus di Novedrate e capo-redattore di Flipmagazine, giornale on line internazionale. Contributor in manuali di comunicazione d’impresa editi da Laterza e dal Sole 24Ore. Ha conseguito un Master in marketing dei beni di lusso alla Business School del Sole 24Ore. Ha seguito a Parigi dal 2012 al 2017 le Relazioni sociali del Gruppo Kering, player mondiale del Lusso. Nel 2017 è stato Addetto stampa per Open Corporation &#8211; progetto sulla trasparenza delle Aziende Multinazionali ideato da Filcams Cgil e cofinanziato dalla Commissione europea. Nel 2018 ha seguito come Consulente un nuovo Brand del Lusso viaggiando tra Milano e Pechino. Nello stesso anno ha ideato, insieme al suo Team, una Start-Up &#8211; selezionata tra le finaliste da Speed Mi Up &#8211; incubatore di Start-Up fondato da Università Bocconi e Camera di Commercio di Milano con il supporto del Comune di Milano. Dal 2019 si occupa di Ufficio stampa come freelance ed è moderatore di dibattiti pubblici. Tra il 2020 e il 2022 ha coordinato per SenzaFiltro, prima la rubrica Zona Franca per poi occuparsi dei mensili del giornale, fino alla fine del 2022. Ha collaborato con Massimo Fini. E&#8217; giornalista pubblicista e ha scritto un Romanzo: &#8220;Di Tanto Amore&#8221;.

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Stefania Zolotti

Direttrice responsabile di SenzaFiltro e giornalista con il debole per le relazioni e le persone. Studiosa e appassionata di geografie umane e di paesi. Con la laurea in giurisprudenza non ha mai intrapreso le classiche strade: l&#8217;unico ufficio legale in cui ha lavorato è stato quello di Altroconsumo a Milano dal 2001 al 2003, con una parentesi nella sede di Bolzano grazie al patentino di bilinguismo tedesco. Dal 2002 Collabora come freelance con la rivista Business People e dal 2023 con Artribune dove racconta storie italiane di teatri di periferia. &#8220;Sentimenti precisi&#8221; è il nome del progetto con cui dal 2021 gira l&#8217;Italia tenendo laboratori contro i blocchi della scrittura: lo fa per aziende, associazioni, scuole, singole persone e gruppi. Dal 2008 al 2017 Responsabile Comunicazione e Segretaria di direzione per una grande azienda pubblica del settore ambiente dove ha sviluppato progetti di green marketing e di educazione sostenibile. Dal 2012 contribuisce a creare e coordinare progetti per la business community FiordiRisorse, che è anche l&#8217;Associazione editrice di SenzaFiltro. Autrice del libro &#8220;Ti fai male&#8221; (2020), romanzo generazionale scritto inizialmente come ghostwriter. Ha lavorato per 20 anni come giornalista nel campo del vino e del cibo collaborando con le principali testate nazionali e pubblicando due libri: &#8220;Vino a doppio senso. Guida ironica per uomini e donne&#8221; (Gabrio Marinelli Editore, 2006) e &#8220;Il Bicchiere mezzo pieno. Liberarsi dagli esperti è il primo passo per bere bene&#8221; (Le Lettere, 2020). L&#8217;ultimo libro, di cui è curatrice, è &#8220;Coaching, maneggiare con cura&#8221; di Carlo Bisi (Edizioni FiordiRisorse, 2023). &#8212; MAIL DI REDAZIONE: stefania.z@fiordirisorse.eu

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Un reportage per parlare di tutte le crisi d&#8217;impresa che l&#8217;informazione non racconta: disastri in attesa di esplodere o problemi in via di risoluzione. Apriamo il primo Osservatorio nazionale sulle crisi aziendali.

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Un reportage per parlare di tutte le crisi d'impresa che l'informazione non racconta: disastri in attesa di esplodere o problemi in via di risoluzione. Apriamo il primo Osservatorio nazionale sulle crisi aziendali.


<p>La situazione è seria, ma non drammatica: per intenderci, <strong>l’Italia non rischia di esaurire le scorte di grano</strong>; pasta e pane non mancheranno dagli scaffali dei nostri negozi, almeno per i prossimi mesi. A preoccupare gli operatori del settore, più che altro, è <strong>l’imponderabilità di quanto accadrà nel medio-lungo termine</strong> e, di conseguenza, l’impossibilità di mettere in atto azioni e strategie efficaci per tutelare la filiera cerealicola. Perché i problemi, inutile negarlo, esistono e sono sia a monte, cioè in fase di produzione per il rincaro dei costi energetici e dei concimi, che a valle, ossia per i consumatori, che negli ultimi mesi hanno visto crescere il costo di pane e pasta, base della dieta mediterranea.</p>



<p><strong>L’Italia</strong>, è bene dirlo subito, <strong>non è autosufficiente</strong> per quel che riguarda la <strong>produzione di grano</strong>, tanto da essere costretta a <strong>importarne il 50%</strong>, soprattutto da Canada e Paesi del centro Europa, in particolare dall’Ungheria. A pesare sulla nostra filiera non sono quindi la guerra in Ucraina, Paese dal quale acquistiamo solo il 7% del grano che consumiamo, o le conseguenti difficoltà della Russia, che non figura tra i fornitori dell’Italia. Piuttosto, sono il <strong>rincaro dell’energia</strong> e le <strong>dimensioni di un mercato</strong>, il nostro, che conta poco meno dell’1% della produzione mondiale, e che quindi, quando si tratta di far pesare i propri interessi a livello globale, fa la parte del vaso di coccio tra quelli di ferro.</p>



<p>Ma qual è la situazione a questo punto dell’estate, a campagna di trebbiatura ormai terminata?</p>



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<h2 id="h-l-italia-del-grano-nel-2022-ce-n-e-di-meno-ma-di-migliore-qualita">L’Italia del grano: nel 2022 ce n’è di meno, ma di migliore qualità</h2>



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<p>“Registriamo un <strong>calo medio della resa del 15%</strong>, con punte del <strong>30%</strong> in alcune zone”, spiega <strong>Valerio Filetti</strong>, presidente della Borsa Merci di Bologna, una delle maggiori piazze di contrattazione del nostro Paese. Un disastro per i produttori, si potrebbe pensare. Invece, fortunatamente, non è così. Sia perché la percentuale proteica del grano è molto più alta del normale (e, poiché indice proteico e qualità del frumento sono direttamente proporzionali, questo è un fattore di fondamentale importanza per la nostra filiera), sia perché <strong>le quotazioni stanno crescendo</strong> in modo esponenziale, permettendo ai produttori di compensare i rincari di energia e materie prime e garantendo quindi un buon guadagno.</p>



<p>“In termini di tonnellate trebbiate per ettaro, quest’anno c’è una resa più bassa rispetto all’anno scorso, un calo dovuto in parte alla <strong>siccità</strong>”, continua Filetti. “Bisogna dire che 2021 e 2020 sono stati anni particolarmente positivi da questo punto di vista, e che quindi la contrazione di quest’anno, che potrebbe essere di 15-20% rispetto all’ultima trebbiatura, riportata alla media di annate normali si aggira intorno al 10%. Abbiamo però una <strong>percentuale di proteine più alta</strong> dello standard, ed è una cosa positiva, perché le proteine sono quelle che danno, sul grano duro, il glutine per la tenuta in cottura della pasta, e sul tenero la forza per la panificazione e la pasticceria”.</p>



<p>Una fotografia confermata anche dai <strong>produttori</strong>. “Noi – dice <strong>Alessandro Zucchi</strong>, agronomo dei Molini Pivetti, un’azienda del ferrarese che produce e lavora grani pregiati – coltiviamo e trasformiamo grano tenero e registriamo un calo produttivo che va dal 15 al 40% a seconda delle zone. In termini di tonnellate, se normalmente ne realizziamo 7 per ettaro, quest’anno andiamo dalle 5,5 alle 6,2, una contrazione dovuta prevalentemente alle alte temperature. Tuttavia <strong>qualitativamente</strong> <strong>il grano non è male</strong>, sebbene le aziende agricole siano in difficoltà per <strong>l’aumento dei costi del gasolio</strong>, che è più che raddoppiato, e di quello dell’<strong>energia</strong> e dei concimi (gli antiparassitari sono cresciuti circa del 15%)”.</p>



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<h2 id="h-perche-non-rischiamo-una-carenza-di-cereali">Perché non rischiamo una carenza di cereali</h2>



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<p>Le difficoltà interessano tutti i comparti della filiera.</p>



<p>“Per quel che riguarda la <strong>commercializzazione</strong> – dice <strong>Massimo Masetti</strong>, direttore del Consorzio agrario di Ravenna, che segue ritiro, stoccaggio e appunto commercializzazione dei prodotti agricoli – le <strong>incertezze</strong> del momento sono tantissime e la situazione molto complessa. Le scarse produzioni mantengono i prezzi elevati rispetto allo storico, senza segnali di allentamento, e dovremo vedere se le altre raccolte europee creeranno una disponibilità che oggi sembra ancora complicata. Speriamo che le quotazioni restino abbastanza sostenute da reggere sull’intera filiera, perché le difficoltà non sono solo nella parte agricola, ma anche a valle, nel settore della trasformazione e anche per il consumatore, sul prodotto finito”.</p>



<p>Anche in <strong>Emilia-Romagna</strong>, che l’anno scorso è stata medaglia d’oro nazionale per resa, con un incremento medio del 20% e punte di 90 quintali per ettaro nel bolognese, l’annata segue questo andamento.</p>



<p>“Le cose stanno andando discretamente – dice <strong>Marco Caliceti</strong>, vicepresidente Confagricoltura Bologna e titolare dell&#8217;omonima azienda cerealicola-bieticola nel capoluogo emiliano. “<strong>Nel complesso i cereali vanno peggio rispetto allo scorso anno</strong>, con un calo del 20% per il grano duro e del 25% per quello tenero, mentre l’orzo tiene meglio, con una contrazione del 10%. La qualità è buona, con pesi specifici leggermente inferiori al passato ma con <strong>proteine presenti in buona quantità</strong>”.</p>



<p><strong>Non esiste</strong>, comunque, <strong>il rischio di trovarsi in carenza di cereali</strong>, perché ne consumiamo volumi minimi rispetto al resto del mondo: 6 milioni di tonnellate di grano tenero contro gli 800 milioni a livello globale.</p>



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<h2 id="h-il-prezzo-del-grano-in-rialzo-aiuta-le-aziende-alle-prese-col-rincaro-di-energia-e-gasolio">Il prezzo del grano in rialzo aiuta le aziende, alle prese col rincaro di energia e gasolio</h2>



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<p>Sul versante dei <strong>prezzi</strong> è difficile fare previsioni, perché la produzione è legata anche alla <strong>guerra</strong> e alla sua evoluzione; non tanto per le importazioni dall’Ucraina, che non ci coinvolgono, quanto perché, se si interrompono i flussi di grano dalle regioni in conflitto, i Paesi che comprano da loro ne risentono, creando un <strong>effetto domino</strong>.</p>



<p>“Siamo comunque in un mercato globale, ed è chiaro che la situazione di tensione esistente fa sì che i prezzi non scendano. Rispetto all’inizio della campagna dell’anno scorso siamo a un <strong>aumento dei prezzi del grano del 40-50%</strong>”, dice Filetti. “La cosa positiva per chi produce cereali in questo momento è una remunerazione abbastanza alta, che riesce a compensare l’aumento dei costi. Il prezzo del grano duro, a causa del calo produttivo del Canada, è arrivato a 540 euro a tonnellata, rispetto ai 300 dell’anno scorso, mentre il tenero è quasi raddoppiato fino a 380 euro a tonnellata”.</p>



<p>Insomma, i problemi dei produttori cerealicoli risiedono principalmente nel fattore finanziario, perché quello che serviva alle aziende l’anno scorso per comperare o commercializzare una certa quantità di prodotto è quasi raddoppiato. “Il grande problema quest’anno è il <strong>costo dell’energia</strong> – dice Filetti – <strong>che sta spostando l’equilibrio di tutto</strong>. Ci sono molini che sono passati da bollette di 100.000 euro al mese a bollette di 400.000 euro, e queste sono cifre che su un anno diventano insostenibili. E poi ci sono i <strong>trasporti</strong>, che in Italia viaggiano quasi solo su gomma: con il rincaro del gasolio, i camion hanno aumentato del 30% i costi su ogni tratta”.</p>



<p>Da considerare è anche il <strong>comportamento dei mercati internazionali</strong>. Bisogna tenere d’occhio ciò che fanno i Paesi che spostano i flussi di cibo a livello mondiale. “L’Italia è una realtà piccola”, spiega il presidente della Borsa Merci di Bologna. “La globalizzazione è un’idea bellissima, ma quando hai dei problemi la subisci. La <strong>Cina</strong> fino all’anno scorso aveva circa il 25% delle scorte mondiali di grano. All’inizio di quest’anno è arrivata ad averne il 60%, quindi in questi mesi ha comperato a man bassa e ora sposta la bilancia del mercato mondiale”.</p>



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<h2 id="h-aumenti-minimi-di-pane-e-pasta-ma-l-annata-2022-puo-ancora-peggiorare">Aumenti minimi di pane e pasta, ma l’annata 2022 può ancora peggiorare</h2>



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<p>Tutti problemi di difficile soluzione, almeno nell’immediato e attraverso politiche ordinarie. </p>



<p>C&#8217;è chi pensa che sia necessario puntare su sviluppo e ricerca, come <strong>Paolo Parisini</strong>, titolare dell&#8217;azienda agricola Antigola, nel bolognese: “Dobbiamo pensare a come ottenere <strong>piante più resistenti alla salinità</strong> e che abbiano caratteristiche sempre più richieste dal consumatore”, dice. “Penso per esempio ai celiaci, che necessitano di cereali a basso contenuto di glutine. Però è necessario che gli agricoltori siano disponibili a indirizzare la ricerca in questo campo, anche se è difficile e spesso ci si sente accusati di voler introdurre gli OGM, che sono tutta un&#8217;altra cosa”. E c’è chi invece guarda a un’<strong>estensione delle superfici coltivate</strong>, ma le caratteristiche geografiche dell’Italia non aiutano.</p>



<p>“<strong>L’autosufficienza produttiva è impossibile</strong>. Coldiretti parla di un milione di ettari disponibili, ma bisogna vedere dove si trovano, perché se sono in collina non offrono una resa vantaggiosa”, spiega Filetti. “Purtroppo non è possibile pianificare strategie d’intervento. Possiamo solo sperare che il clima aiuti i produttori”. Certo, le previsioni climatiche sono drammatiche e il rischio desertificazione, per il nostro Paese, è una realtà. Affidarsi solo al clima è un terno al lotto.</p>



<p>E i <strong>rincari di pane e pasta</strong>? In Emilia-Romagna il prezzo del pane al chilogrammo è mediamente di 5,5 euro, con punte di 9.80 euro a Ferrara. Dice Caliceti: “Io, in quanto produttore e trasformatore di grano, posso dire che i miei costi di produzione sono raddoppiati, mentre pasta e pane, pur costando di più, <strong>non hanno avuto un incremento analogo</strong>. Finora i produttori non hanno scaricato a valle l’aumento”.</p>



<p>“È vero che i prezzi sono cresciuti – spiega Filetti – ma è anche vero che i prodotti che noi consumiamo hanno un costo molto basso in termini assoluti. <strong>La pasta</strong>, per esempio, <strong>è aumentata circa del 35%</strong>. Considerando che in Italia abbiamo un consumo pro capite medio di 23 chili di pasta all’anno, se un chilo di prodotto di media qualità è passato da 1,5 a 2 euro, parliamo di <strong>11,5 euro in più all’anno</strong>. In realtà si tratta di un aumento minimo”.</p>



<p>Insomma, quella del 2022 è un’annata sicuramente difficile. <strong>Siccità</strong>, <strong>guerra</strong>, <strong>oscillazione delle valute</strong> (perché quasi tutto ciò che deriva dai cereali si paga in dollari), <strong>rincaro dell’energia e del petrolio</strong>, sono situazioni che abbiamo già visto in passato, ma mai <strong>tutte insieme</strong>. È questa concomitanza a creare problemi. E il timore è che i mesi più brutti debbano ancora arrivare: “Fino a ora – conclude Filetti – abbiamo vissuto di rendita e di aiuti dello Stato. Adesso tutto questo sta finendo, e resta sempre l’incognita COVID-19”.</p>



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<p><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/grano/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Grano</a></strong>.</em></p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 116, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-116/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Cavalli di battaglia</strong></a>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Sua Sanità PNRR</strong></a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>Photo credits: confagricolturavicenza.it</em></p>


Che ne sai tu del prezzo del grano


<p>Per chi ha battuto i marciapiedi della cronaca finanziaria, il <strong>cinismo dei mercati</strong> non è cosa nuova. Quando anni fa me ne occupavo ogni giorno, e tutte le mattine cercavo di carpire i segreti della finanza nel palazzo Mezzanotte dove risiede la Borsa di Milano, mi colpiva ad esempio con quale cinismo il listino azionario festeggiava l’annuncio della FIAT di mettere in cassa integrazione o di licenziare migliaia di lavoratori, o l’esplosione di una guerra in Medio Oriente a cui seguiva puntuale una speculazione pesantissima sui derivati del petrolio, tra cui la benzina. La <strong>speculazione</strong>, come è noto, non guarda in faccia nessuno, poveri o sfruttati che siano; gioca sugli squilibri, e la guerra è il più tragico degli squilibri, come dimostra il ritorno al conflitto in Europa per mano di Vladimir Putin e della Russia imperiale.</p>



<p>Lo stesso destino speculativo tocca al <strong>grano</strong> e ai suoi <strong>aumenti</strong>? La risposta purtroppo non può che essere positiva. Una cifra per tutte: per i cereali c’è stata, dopo l’esplosione iniziale, una prima frenata dei prezzi, ma il grano tenero secondo i dati di Agrisole costa il 66% in più del 2021. Alcuni studiosi del fenomeno sostengono che il prezzo del grano rispetto al 2021 è cresciuto dell’85%.</p>



<p>Che cosa spinge verso l’alto il prezzo di questo prodotto vitale per l&#8217;alimentazione mondiale? Sul banco degli imputati c’è soltanto la guerra? No. C’è una <strong>mano invisibile</strong> che sta mettendo in ginocchio il Nord Africa e devastando l’intero pianeta: la <strong>finanza speculativa</strong>, entrata in campo dopo il blocco del grano nel mare di Odessa con potenti fondi d’investimento, un’impressionante liquidità e sofisticati strumenti finanziari come i <strong>derivati</strong> (per i non addetti ai lavori i derivati sono contratti finanziari tipo i future, il cui valore deriva da un bene).</p>



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<h2 id="h-la-mano-invisibile-della-finanza-all-origine-della-speculazione-sul-grano-l-agribusiness-vale-cinque-trilioni-di-dollari">La mano invisibile della finanza all’origine della speculazione sul grano: l’agribusiness vale cinque trilioni di dollari</h2>



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<p>Non si tratta della mano invisibile di Adam Smith, il padre del liberismo che teorizzava l’esistenza di una forza naturale non visibile in grado di equilibrare la domanda e l’offerta dei mercati. Si tratta di speculazione pura, che ha poco a che fare con i movimenti e i prezzi del grano determinati dai reali squilibri di domanda e offerta, ma che ricadrà ugualmente sui Paesi poveri del mondo come una mannaia, senza trascurare l’Occidente, tanto da trascinarlo, come sostiene ad esempio Carlo De Benedetti, verso lo <strong>spettro di una nuova carestia</strong>. Si tenga conto che di carestia in Europa non se ne parla dal 1313-1317, quando ci furono scarsi raccolti e iniziavano i grandi esodi dalle campagne verso i centri urbani.</p>



<p>Ora quella terribile malattia sociale potrebbe bussare di nuovo alle porte del Vecchio Continente oltre che dell’Africa, dove era presente ancor prima della guerra in Ucraina. Tanto per capirci, secondo il <em>Global Report on Food Crises </em>stilato nel 2022, gli effetti prima della pandemia e ora della guerra in Ucraina provocheranno un <strong>aumento di 47 milioni di persone aggredite dalla fame</strong>. La notissima società di consulenza aziendale McKinsey lo chiama <strong>agribusiness</strong> e ci spiega perché per gli investitori e gli speculatori finanziari è così importante: “L’agribusiness avrà un impatto notevolissimo a livello sociale, economico e sull’ambiente. Si tratta di un’industria che arriva a <strong>cinque trilioni di dollari</strong> e costituisce oggi il 10% delle spese sostenute dai consumatori a livello globale. In termini sociali stiamo parlando di un settore che impiega il 40% della forza lavoro globale e che è responsabile direttamente e indirettamente del 30% delle emissioni di gas”.</p>



<p><strong>Alessandro Volpi</strong>, studioso del fenomeno per <em>Altraeconomia </em>e docente di Storia contemporanea al dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, ci spiega come la finanza riesca ad alterare i prezzi del grano: “La guerra in Ucraina e la speculazione finanziaria stanno devastando rapidamente il Pianeta”. All’Italia quale destino spetta, visto che importa il 65% di grano tenero e il 35% di grano duro? “L&#8217;Italia non dipende in alcun modo da Russia e Ucraina, pagherà molto di più i <strong>generi alimentari legati ai cereali </strong>per la speculazione mondiale, gestita da grandi fondi hedge e dai colossi del grano a stelle e strisce, e per l’attuale debolezza dell&#8217;euro. In realtà, <strong>una vasta parte del mondo rischia seriamente di restare senza grano</strong>. Il blocco dei porti dell’Ucraina e l’improvvisa decisione dell’India di bloccare le esportazioni di grano sono notizie devastanti per tutti i Paesi importatori, dal Nord Africa all’Italia”.</p>



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<h2 id="h-la-speculazione-finanziaria-non-ha-controllori-e-apre-la-strada-al-grano-ogm">La speculazione finanziaria non ha controllori. E apre la strada al grano OGM</h2>



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<p>Ecco il segreto oscuro della speculazione finanziaria, quella che con una brutta parola viene chiamata <strong>finanziarizzazione dell’economia</strong>. Per intenderci l’aumento del prezzo del grano, che a tonnellata oscilla oltre la soglia dei 400 dollari, non ha nulla a che fare con la reale domanda e offerta. Banche di investimento e fondi ragionano sulle aspettative: se si prevede che il prezzo del grano salirà per eventi bellici si compra oggi un derivato del grano a una determinata cifra e si rivende domani a una cifra maggiore. <strong>È una scommessa, è il casinò della povertà</strong>. È lo stesso micidiale meccanismo che ha portato nel 2008 alla più grave crisi finanziaria del secondo dopoguerra. Allora si scommetteva sulla capacità o meno degli americani di pagare i mutui; oggi si scommette sugli effetti “benefici” della guerra rispetto al prezzo del grano.</p>



<p>La tragedia sta nel fatto che <strong>non esiste nessun ente regolatore</strong> in grado di controllare le speculazioni finanziarie. Si dirà che quelli, gli speculatori, fanno il loro mestiere. È vero, ma i danni del loro operato non restano nel mondo aureo della finanza, ma <strong>pesano come un macigno sull’economia reale</strong>, e dunque sulla vita delle persone. Dopo la crisi del 2008 si sono spesi milioni di parole con promesse di regolamentazione dei mercati finanziari per evitare che la finanza alterasse in modo così palese l’economia reale, già in subbuglio per conto suo, ma alla fine ha prevalso ancora una volta l’anima speculativa, e nessuno riuscirà a fermarla se non ci sarà una fine del conflitto che sta producendo tanti danni planetari.</p>



<p>C&#8217;è un’ultima interessante considerazione che vale la pena riportare: “Il brusco rialzo del prezzo dei cereali – osserva il professor Volpi – sta riportando in vita la discussione, in realtà mai sopita, circa la <strong>possibilità per i Paesi europei di importare grano OGM</strong>, che attualmente è vietato dalle normative dell&#8217;Unione, e che è ‘prodotto’ da soli quattro gruppi monopolisti, tra cui spiccano la tedesca Bayer, che ha acquisito Monsanto, ChemChina e l’americana Corteva. La ‘penuria’ generata dalla guerra e gli alti prezzi dettati dalla speculazione potrebbero aprire una strada finora chiusa, peraltro obbligando alla revisione del Green New Deal europeo”.</p>



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<p><em>Photo credits: cucchiaio.it</em></p>


Speculazione sul grano, la finanza gioca al casinò della povertà

Osservatorio crisi aziendali: vi teniamo d&#8217;occhio

SenzaFiltro monitora lo stato delle vertenze da Nord a Sud: Speedline, incertezza tra cessione, riconversione o chiusura. E la Flex di Trieste prova a superare la dipendenza da ENEL, ma la guerra e il lockdown di Shanghai acuiscono la carenza di materiali.

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<p>Nonostante il mare continui a inquinarsi, mentre noi facciamo finta di niente, le regole di sopravvivenza restano le stesse: <strong>il pesce grande divora il pesce piccolo</strong>, ed è un atto naturale che accettiamo con indifferenza per il mondo animale ma che ci turba quando lo riferiamo a noi umani. Ad ogni modo, almeno l&#8217;80% dell&#8217;inquinamento marino arriva dalla terra, è da lì che viene prodotto: porta il nome di concimi, pesticidi e centinaia di sostanze chimiche; per non parlare delle sostanze usate in agricoltura, sui campi, che coi deflussi arrivano diretti dai fiumi al mare. La plastica, poi, resta la regina.</p>



<p><strong>Pochi giorni fa <em>L’Espresso </em>ha visto andarsene il suo direttore, Marco Damilano</strong>, davanti all’ormai dato per certo ennesimo passaggio di proprietà in mano BFC: io devo ringraziare la televisione, <em>Propaganda live</em> nello specifico, perché a forza di sentirlo leggere i suoi &#8220;spiegoni&#8221; mi sono innamorata anche del suo modo di dire come stanno le cose e la politica italiana, perché fino a quel momento di Damilano mi estasiava la scrittura &#8211; leggera, concreta, chiara, analitica, informata da dentro, tesa verso quella forma di dubbio che salva sempre il giornalismo &#8211; ma meno il sentirlo parlare. La sua lettera di addio all’<em>Espresso</em> firmata due giorni fa è il gesto di chi lascia la casa, chiude la porta, spegne la luce e toglie la chiave dalla toppa sapendo che non ci tornerà mai più, tra quelle mura, perché quelle mura non lo fanno sentire più al sicuro. E la casa è un po&#8217; come il mare.</p>



<p>A guardarla da fuori, la <strong>fisionomia di BFC Media</strong> si traccia facilmente per capire chi c’è dietro, cosa ha in mano adesso, cosa vuole aggiungere: società quotata in Borsa all’AIM Italia nel 1995, è stata fondata da <strong>Denis Masetti</strong>, che la presiede ancora; di fatto un gruppo editoriale specializzato in periodici dedicati a finanza e personal business. Si potrebbe citare <em>Forbes </em>su tutti gli altri nomi delle riviste comprese sotto l’ombrello BFC per far venire la pelle d’oca all’idea che un settimanale come <em>L’Espresso</em> &#8211; pietra angolare del giornalismo di indagine e di inchiesta italiano &#8211; possa sedere alla stessa tavola editoriale, allo stesso banchetto di strategie editoriali, mangiare la stessa torta di indipendenza.</p>



<p><strong>Gedi</strong> (proprietaria, tra le altre cose, dell’<em>Espresso</em>) sta svendendo a BFC il suo primo figlio, quello in difficoltà ormai da anni: editori grandi che cedono a editori più piccoli i propri problemi, le crisi che non sanno gestire, insomma editori grandi che, pur di non guardare in faccia la difficoltà dei figli, li danno via con tutta la matassa dei loro drammi interiori sperando che imparino a crescere da soli.</p>



<p>E ancora: dietro BFC c’è anche <strong>Daniele Iervolino</strong>, fondatore dell’Università Pegaso da poco ceduta a un fondo per oltre un miliardo di euro, ma soprattutto presidente della Salernitana. Calcio, industria del pallone, borsa, finanza: eccolo il giornalismo italiano che continua a confermare chi è realmente interessato a lui.</p>



<p>Ma qui nessuno rimarca mai che in mezzo a questi pesci grandi e piccoli che si stanno divorando lungo la catena ci sono anche i lettori. Mentre contro le false notizie si scatenano e si sollevano le ire generali, nessuno si ferma mai a denunciare i <strong>falsi lettori</strong>. Che sono milioni, che generano miliardi. Chiamiamoli una volta per tutte anche col loro nome, i lettori dell’informazione: non saranno tutti così ma sono una grande quota e gli editori lo sanno bene e lo hanno capito. Lettori che non hanno più interesse a farsi un’idea, lettori che confondono un post sui social con un articolo letto da cima a fondo, lettori che fino a una ventina di anni fa compravano un giornale di carta almeno per appartenenza politica per quanto iniziassero già a capire che aria tirasse (ma comunque si prendevano il tempo di farsi domande e di credere ancora a un’adesione), lettori che vanno di corsa perché informarsi non è più una priorità dato che si accontentano del preriscaldato, lettori che spammano link dentro le chat per dirti come la pensano &#8211; l’altro ieri il terrorismo, ieri i vaccini, oggi l’Ucraina &#8211; senza nemmeno sforzarsi di aggiungere un commento proprio con parole proprie, lettori che non sanno più spiegare che idea hanno in testa perché non si danno più il tempo di leggere e tanto meno di capire, lettori che una volta inseguivano i giornali mentre oggi sono i giornali che vanno a cercare i lettori dappertutto, sguinzagliando disperatamente gli algoritmi più guardoni. Anche Damilano, nella sua lettera d’addio, parla dei lettori come gli unici a cui rendere conto e spesso ripeto quanto anche l’espressione tipica di <strong>Carlo De Benedetti</strong> &#8211; suo ex editore all’<em>Espresso</em> e a <em>Repubblica </em>&#8211; che indica i lettori come gli unici padroni a cui rendere conto mi faccia venire i brividi. Capisco la metafora dei lettori-padroni per intendere che non bisogna rendere conto a nessun potere ma la trovo pericolosa lo stesso perché anche i falsi lettori sono diventati un potere, quello dell&#8217;ignoranza: il giornalismo indipendente è finito, e si andrà a logorare sempre più se crediamo che debba rispondere solo ai lettori.</p>



<p><strong>Il problema dell’informazione indipendente è che sono le persone a non volerla più</strong>: poi alle spalle tramano indubbiamente gli interessi politici, industriali, finanziari, personali, con tutti quei pesci grandi che mangiano i pesci piccoli. Ma se i lettori iniziassero a mangiare meno concimi, meno chimica artefatta e meno inquinamento, magari potremmo sperare in una iniziale controtendenza. E in acque più pulite. Le società rinascono solo se vogliono davvero essere libere, ma non mi pare siano questi i tempi.</p>



<p>Uno dei più noti disegni di <strong>Pieter Bruegel&nbsp;il Vecchio</strong> si chiama&nbsp;<em>I pesci grandi mangiano i pesci piccoli </em>e oggi fa parte della Raccolta di Grafica dell’Albertina&nbsp;a&nbsp;Vienna. L’artista iniziò da lì a rappresentare alcuni antichi proverbi latini: ne seguiranno altri cento di disegni. C&#8217;è un enorme pesce, disteso e abbandonato sulla riva. Dalla bocca e dallo stomaco esce un gran numero di&nbsp;pesci piccoli e c&#8217;è un uomo che lo sta aprendo con&nbsp;l’aiuto di&nbsp;un coltello quasi fuori misura.&nbsp; La stessa&nbsp;scena&nbsp;si ripropone, in versione ridotta, in primo piano: su una barca un&nbsp;uomo&nbsp;estrae da un pesce appena pescato un altro pesce più piccolo, e lo fa sotto lo sguardo attento di un padre e di un figlio. E ci sono pesci intorno a loro, pesci dappertutto: pesci alati, appesi ai fili, persino pesci con le gambe. C&#8217;è da capire se oggi i falsi lettori sarebbero o meno quell&#8217;uomo col coltello.</p>



<p>Era la metà del Cinquecento: almeno a quei tempi le acque erano cristalline per davvero.</p>



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<p><em>Foto di copertina: biografieonline.it</em></p>


Damilano, L&#8217;Espresso, i pesci grandi e piccoli, i falsi lettori


<p>“Essere qui significa difendere un patrimonio industriale, ma anche difendere una prospettiva di futuro che è assolutamente essenziale per avere lavoro di qualità, e per mantenere in Italia produzioni essenziali”.</p>



<p>Le parole erano di <strong>Andrea Orlando</strong>, ministro del Lavoro in visita alla <strong>Fimer di Terranuova Bracciolini</strong>. Il periodo era lo scorso febbraio. Siamo nel Valdarno, la provincia è quella di Arezzo. La Fimer del 2022 vuol dire una matrioska di proprietà e di nomi che si sono succeduti da sempre negli ultimi decenni: qui nel Valdarno basta nominare una delle tante sigle per farsi raccontare, da chi ha cinquant’anni in su, quanto fosse solida la fiducia delle famiglie che direttamente o di sponda avevano qualcuno in casa che ci lavorasse, e se non era un parente era un amico.</p>



<p>Il settore è quello delle <strong>energie rinnovabili</strong>, produzione di <strong>inverter</strong> per l’esattezza, e l’inizio della storia parte con la allora <strong>Power One</strong>, in assoluto il marchio di riferimento a livello mondiale nei primi anni Duemila.</p>



<p>Durante il suo passaggio allo stabilimento toscano, Orlando aveva annunciato l’imminente <strong>tavolo al Mise</strong>, il ministero dello Sviluppo economico, che in effetti poi c’è stato; un tavolo interlocutorio come tutti i primi incontri politici in cui ci si annusa, si spiega, si ascolta, si spera. In vista di quell’appuntamento del 10 febbraio al Mise, i sindacati FIOM, FIM e UILM avevano fatto sospendere il presidio al casello autostradale del Valdarno programmato in segno di protesta il giorno 11.</p>



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<h2 id="h-il-caso-fimer-orgoglio-del-fotovoltaico-abbandonato-dal-governo-della-transizione-ecologica">Il caso Fimer, orgoglio del fotovoltaico abbandonato dal governo della transizione ecologica</h2>



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<p>La prima domanda seria che c’è da porsi – mentre la politica e le conferenze stampa del Governo Draghi ricorrono costantemente a espressioni come “<strong>transizione ecologica</strong>” alternata a quella digitale, come se solo a pronunciarle di continuo si convincessero i cittadini che si sta davvero andando nella giusta direzione – è come sia possibile che un’impresa modello in campo ecologico come <strong>la Fimer sia finita in un tritacarne di scala internazionale</strong>, senza che i massimi vertici delle istituzioni nazionali si accorgessero della malaparata più volte segnalata da lavoratori, RSU e sindacato.</p>



<p>Solo nel <strong>2019</strong> lo stabilimento Fimer di Terranuova era considerato quello centrale nella strategia del gruppo brianzolo della famiglia Carzaniga che avrebbe voluto posizionarlo come quarto produttore al mondo di inverter fotovoltaici; Fimer era già anche il marchio internazionale di riferimento nella realizzazione di sistemi per la mobilità elettrica. Era stato lo stesso presidente <strong>Filippo Carzaniga</strong>, nel 2019, a ufficializzare la scelta di localizzare proprio nella fabbrica ex Power One valdarnese il nuovo Centro di Ricerca &amp; Sviluppo per il segmento Utility in Italia (lo stabilimento produttivo di Terranuova è la seconda sede italiana della Fimer, oltre a quella di Vimercate in provincia di Monza Brianza che lavora al momento senza scossoni).</p>



<p>Il piano di crescita della Fimer sembrava lineare anche in Toscana, ma purtroppo tocca invece oggi una <strong>vertenza</strong>, nel Valdarno, per circa <strong>800 persone</strong>: 450 solo i dipendenti dentro lo stabilimento, a cui vanno aggiunte altre 350 persone circa tra la provincia aretina e altre aree della Toscana. I numeri salgono ancora di più se si considerano tutti i fornitori di materia prima e semilavorati dislocati sull’intero territorio nazionale.</p>



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<h2 id="h-alessandro-tracchi-fiom-cgil-la-fimer-condannata-dagli-errori-delle-multinazionali-proprietarie">Alessandro Tracchi, FIOM CGIL: “La Fimer condannata dagli errori delle multinazionali proprietarie”</h2>



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<p>Riepilogando i tanti passaggi di mano, <strong>a marzo 2020 la Fimer aveva acquistato la divisione degli inverter solari di ABB</strong> senza che venissero mai sollevati dubbi o riserve sulle capienze di cassa del gruppo. Purtroppo.</p>



<p>Mi racconta la storia per filo e per segno <strong>Alessandro Tracchi</strong>, da poche settimane segretario provinciale per Arezzo della confederazione CGIL, ma da oltre vent’anni in quell’azienda dai tanti nomi e dalle tante facce dove lui ha tenuto traccia di ogni passaggio: lo ha fatto da lavoratore e da delegato sindacale. La premessa che mi chiede di fare rende bene l’idea dello stato d’animo con cui ha accettato di collaborare con <em>SenzaFiltro</em> per spiegare esattamente come sono andate le cose.</p>



<p>Me lo dice mentre si sposta da una sede a un’altra, e sale in macchina agganciando il bluetooth. Sono le 21.30 del 2 marzo: più volte, durante la giornata, tramite messaggi mi aveva garantito piena disponibilità ma chiesto di slittare l’orario, e di essere puntualissima perché ci saremmo sentiti tra una sua assemblea sindacale e un’altra.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-04_132521.png"><img width="1000" height="563" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-04_132521.png" alt="" class="wp-image-49274" /></a><figcaption>Alessandro Tracchi, segretario provinciale per Arezzo della CGIL e dipendente Fimer.</figcaption></figure></div>



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<p>“Mi serve spiegarti però tutto dall’inizio, senza tralasciare i dettagli che magari sono noti agli addetti ai lavori e alla cronaca locale ma che non si riesce mai a far arrivare alla ribalta nazionale. Sono invece proprio queste ricostruzioni indietro nel tempo che si rivelano utili per capire la gravità di certe crisi e individuare le responsabilità”.</p>



<p>Parte quindi dalle basi, vale a dire <strong>l’acquisizione della Power One</strong>, la vecchia multinazionale americana che a sua volta aveva rilevato nel 2007 un’altra multinazionale, americana anch’essa (era la Magnetek), e che fino a quel momento aveva avuto in proprietà lo stabilimento di Terranuova. Insomma <strong>l’azienda era pioneristica e in piena salute</strong>, avendo iniziato già nei primi anni Duemila a ideare prodotti per le energie rinnovabili, gli inverter appunto: lì si concentravano tutti i tasselli essenziali a livello industriale, dall’R&amp;D al commerciale, dalla produzione al marketing, compresi il reparto campionature prototipi e l’assistenza clienti.</p>



<p>Le prime commercializzazioni della Power One sono datate <strong>2008/2009</strong>: era a quel tempo la seconda potenza mondiale con <strong>un bilancio di 1 miliardo di dollari</strong>. È lì che va ricercata la genesi della crisi, perché è lì che scatta l’interesse di un’altra multinazionale, la <strong>ABB</strong>, nome di riferimento dell’elettronica che, passata già per altre acquisizioni, tentò direttamente il colpaccio con Power One: ABB nel 2013 mostrava un fatturato in leggera discesa ma sempre solido, intorno ai 750 milioni di dollari.</p>



<p>“ABB riscontra subito qualche problema qualitativo negli inverter Power One per errori progettuali, ma non è questo il punto iniziale della crisi. Il punto è che ABB, da multinazionale con la tipica logica di chi non capisce il valore delle peculiarità aziendali nei diversi territori e nelle diverse geografie produttive, inizia a <strong>rimodellare tutta sé stessa a sua immagine e somiglianza</strong>: lo fa nello stabilimento di Terranuova così come in quello americano, in quello in Cina, in quello in India, uniformando tutto sotto una stessa logica e togliendo strategie sia nella gestione dei clienti che nelle politiche di aggressione al mercato. Ma il grande errore è soprattutto quello di <strong>introdurre un elemento </strong>che in ABB era strategico, ma in questo settore meno, vale a dire stare in un contesto internazionale usando <strong>solo i propri canali di vendita</strong>. Un criterio fallimentare per un prodotto come gli inverter, che avevano ancora bisogno di un diverso margine operativo continuando su un rapporto diretto coi clienti.”</p>



<p>“Nel giro di due anni si arrivò subito a una <strong>forte riduzione di fatturato</strong>, al punto che già nel 2015, abbandonando completamente il mercato americano, da dove veniva la metà di quei 750 milioni di dollari grazie a tre o quattro grossi clienti, arrivarono le prime riduzioni di personale. In quel momento l’azienda occupava ben 1.000 persone, più i circa 200 dipendenti che arrivavano dal consorzio esterno che si era costituto.”</p>



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<h2 id="h-abb-lascia-indietro-gli-inverter-l-inizio-della-fine">ABB lascia indietro gli inverter: l’inizio della fine</h2>



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<p>Tracchi<strong> </strong>prosegue nel racconto che fila liscio nei tre anni successivi al 2015, quando ABB in effetti risana alcune difficoltà di prodotto, mette in campo una ristrutturazione della gamma, fa ripartire con buoni risultati la parte solar della vecchia Power One. “Fino a quando però ABB, ricreato il gioiellino, non ritenendo più interessante per sé stessa la produzione di inverter, <strong>nel 2019 decide in modo scellerato di dividere lo stabilimento</strong>: da una parte gli inverter (che mette in vendita), e dall’altra il segmento che aveva fatto partire, relativo alla produzione di caricabatterie per la mobilità elettrica”.</p>



<p>Lo fermo a questo punto del racconto perché, come nei romanzi gialli, c’è un prima e un dopo a cui non si fa caso mentre lo si vive nel presente, ma l’intaglio di certi indizi la dice lunga sull’evoluzione delle cose.</p>



<p>E chiedo: quando ABB decide di mettere in vendita la linea solar, vengono investiti il territorio e la politica locale della decisione o non trapela niente della scelta imprenditoriale? Risposta: “<strong>ABB si muove da sola</strong>, noi avevamo sentito dei rumor che venivano però continuamente smentiti. A giugno 2019, dopo che la notizia circola già sui siti istituzionali di ABB dalla mattina alle 6, ci convocano per comunicare che <strong>la divisione degli inverter sarebbe stata messa in vendita</strong>. Parte lì il lungo <strong>contenzioso sindacale</strong> perché per prima rivendicavamo, e lo facciamo tuttora, la forza e il valore del nostro stabilimento che aveva sempre attraversato a testa alta anche tutti quei passaggi non facili: indipendentemente dalla proprietà, avevamo sempre dimostrato il nostro altissimo livello professionale e produttivo”.</p>



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<h2 id="h-il-mise-non-ci-ha-mai-convocato-la-nostra-situazione-non-li-preoccupava">“Il Mise non ci ha mai convocato: la nostra situazione non li preoccupava”</h2>



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<p><strong>Orgoglio dei lavoratori</strong>, quindi, in cima alla lista delle rivendicazioni sindacali: e rimarco questa sottolineatura di Tracchi, ascoltando la storia, perché ci si dimentica quasi sempre del dolore dei lavoratori, che non è solo mancati stipendi, ma per prima cosa mancati riconoscimenti, mancati rispetti, negato buon senso tra esseri umani.</p>



<p>“La seconda nostra grande obiezione è stata fin da subito sul <strong>piano finanziario</strong>: i bilanci degli anni 2017-19 di ABB, pur essendoci stata di nuovo una buona crescita, si aggiravano intorno ai <strong>45 milioni di fatturato annuo</strong>. Ci chiedevamo quindi come potesse Fimer esser messa improvvisamente nelle condizioni di reggere l’impatto di un sistema industriale così complesso. In quell’anno e mezzo di continue e concitate richieste di intervento da parte nostra, <strong>il Mise non ci convocò mai</strong> perché dicevano che la nostra situazione non lasciava presagire scenari preoccupanti; a tutti gli incontri in cui erano presenti sia ABB che Fimer, e durante i quali esponevamo le nostre perplessità, ci veniva sempre risposto che l’operazione avrebbe certamente portato a valorizzare le due divisioni monoprodotto, insomma una grande opportunità per entrambe.”</p>



<p>Chiedo se, anche solo in modo retroattivo, Tracchi e i suoi colleghi si siano mai dati una risposta su quella decisione subita da dentro il cuore dello stabilimento. “Mai. Di voci ne abbiamo sentite di ogni genere, dal gossip al complottismo, ma <strong>un perché che fosse realmente fondato non lo abbiamo mai né intuito né avuto</strong>”.</p>



<p>La <strong>spaccatura ufficiale</strong> dello stabilimento tra Fimer e ABB porta la data di <strong>marzo 2020</strong>, la pandemia bussava già alla porta e da lì a oggi sarebbe arrivata anche la carenza di materie prime. Appena entrata nella sua proprietà, nel giro di dieci giorni Fimer inizia a sostituire interamente il management e <strong>nomina un amministratore delegato</strong>: erano in piena pandemia quando ad aprile arriva appunto <strong>Alessio Facondo</strong>, ex dirigente di Finmeccanica, che presenta il piano industriale anche in Regione Toscana. Monta il disappunto soprattutto da parte della FIOM, di cui Tracchi a quel tempo era segretario generale (oltre che lavoratore distaccato in virtù della Legge 300/1970), perché era chiaro che la disponibilità di cassa non fosse all’altezza. Il Mise continua a snobbare le richieste dei lavoratori, ma per fortuna la <strong>Regione</strong> e il sindaco di Terranuova, <strong>Sergio Chienni</strong>, hanno sempre continuato ad attenzionare la situazione.</p>



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<h2 id="h-fimer-il-ministero-se-ne-accorge-solo-adesso-e-cerca-un-compratore">Fimer, il ministero se ne accorge solo adesso. E cerca un compratore</h2>



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<p>A che punto siamo oggi?</p>



<p>“<strong>Arrivare al Mise lo scorso dicembre è stato il grande passo</strong>, e lì abbiamo voluto spiegare la nostra amarezza per questo <strong>paradosso tutto italiano della transizione ecologica e del PNRR</strong>: un nome di riferimento mondiale come la Fimer, che dovrebbe garantire occupazione e crescita in un momento storico che trova così tanta attenzione intorno all’ecologia dentro un mercato dal trend costante di un +10/12% annuo, rischia di temere persino un fallimento o comunque un forte ridimensionamento. Ora siamo in concordato, oltre che in stallo, e supportati dagli ammortizzatori sociali. Speriamo che la proprietà ceda la governance e faccia entrare investitori. L’ultimo CdA si è dimesso il 15 dicembre scorso ed è arrivato un amministratore unico, <strong>Claudio Calabi</strong>, dopo tre cambi di amministratori delegati. Il 30 dicembre è stato presentato il concordato: da lì in avanti <strong>dipendiamo dai commissari giudiziali</strong> nominati dal giudice del Tribunale di Arezzo”.</p>



<p>Ieri, 3 marzo, in azienda c’è stato un <strong>incontro interno</strong> in vista dell’appuntamento di venerdì 11 in Regione Toscana. Ne è emerso l&#8217;avanzamento di diverse offerte di acquisto, tra le quali l&#8217;azienda ha individuato un non meglio precisato &#8220;soggetto industriale&#8221; preferibile rispetto agli altri. A seguito della notizia, la FIOM CGIL ha indetto un&#8217;assemblea in presenza per l&#8217;11 marzo, subito dopo l&#8217;incontro in Regione.</p>



<p>Per metà marzo è fissato il secondo appuntamento al Mise dove <em>si dovrebbe capire</em> <strong>la concretezza dell’interesse del soggetto industriale o del fondo di investimento</strong> e, semmai, con quali somme e con quale piano industriale. Tracchi usa il condizionale e mi spiega tutta la portata simbolica di quel condizionale da cui dipendono vite, famiglie, storie personali e collettive, sussistenze, rivincite. Chissà se cambierebbe qualcosa tra l’ingresso di un privato o di un fondo magari straniero.</p>



<p>“<strong>Il privato è sempre preferibile</strong>, per quanto ormai, nel mondo dell’economia, ci sono fondi vocati quasi esclusivamente a misure di sostegno o finanziamento. Non saprei dire, ormai le incognite sono ovunque nel mondo del lavoro: magari arriva il privato che sembra solido e ben intenzionato, ma poi rivela altre mire geografiche e dopo pochi anni delocalizza. Per noi la prospettiva adesso è vedere un piano industriale che riporti fiducia nello stabilimento del Valdarno.”</p>



<p>Dal Valdarno è tutto, per ora. In attesa del Mise, in attesa che torni il sole sugli inverter.</p>



<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



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Fimer, inverter solari: il governo parla di transizione ecologica ma non dirada la nebbia sugli 800 lavoratori

<p>Marzo 2022: <em>SenzaFiltro </em>lancia il primo <strong>Osservatorio nazionale sulle crisi aziendali </strong>e ogni mese pubblicheremo un aggiornamento da Nord a Sud Italia. Abbiamo fatto una accurata istruttoria prima di partire con questo reportage, abbiamo intercettato i contatti dei sindaci, dei presidenti di Regione, degli assessori, delle sigle sindacali interessate dalle vertenze, degli RSU, delle associazioni di categoria su quei territori. Chiameremo ognuno di loro, ogni volta, per sapere come stanno le cose, cosa si sblocca, cosa no.</p>
<p>Sul <strong>tavolo del ministero dello Sviluppo economico</strong> al momento ce ne sono <strong>70</strong>, <strong>di vertenze</strong>: storie di crisi che da anni stringono la morsa sulla vita dei lavoratori. Spesso i segnali deboli che lasciavano capire lo sviluppo della crisi non sono stati colti, né ascoltati, tanto meno capiti. Ora per molte di loro forse è tardi, i licenziamenti sono vicini, le delocalizzazioni intonano già il canto delle sirene per molti di quegli imprenditori in crisi; qualcuna per fortuna ha ancora speranza. Venite in viaggio con noi, ascoltate e leggete le storie di queste migliaia di lavoratori e di famiglie, proviamo almeno ad accendere il faro su di loro per non lasciarli soli.</p>
<p>Siamo partiti da Trieste, passando per Massa Carrara e per l&#8217;appennino bolognese; poi il Valdarno toscano fino a Bari. Ma è solo l&#8217;inizio, il viaggio sarà lungo.</p>
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<p><em>Foto di Lara Mariani</em></p>
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nikond610

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Reportage 109. Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi

Il reportage 109 di SenzaFiltro, &#8220;Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi&#8221;, che apre il primo Osservatorio nazionale sulle crisi aziendali.

Reportage 109. Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi - Informazione senza filtro

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<p>Marzo 2022: <em>SenzaFiltro </em>lancia il primo <strong>Osservatorio nazionale sulle crisi aziendali </strong>e ogni mese pubblicheremo un aggiornamento da Nord a Sud Italia. Abbiamo fatto una accurata istruttoria prima di partire con questo reportage, abbiamo intercettato i contatti dei sindaci, dei presidenti di Regione, degli assessori, delle sigle sindacali interessate dalle vertenze, degli RSU, delle associazioni di categoria su quei territori. Chiameremo ognuno di loro, ogni volta, per sapere come stanno le cose, cosa si sblocca, cosa no.</p>



<p>Sul <strong>tavolo del ministero dello Sviluppo economico</strong> al momento ce ne sono <strong>70</strong>, <strong>di vertenze</strong>: storie di crisi che da anni stringono la morsa sulla vita dei lavoratori. Spesso i segnali deboli che lasciavano capire lo sviluppo della crisi non sono stati colti, né ascoltati, tanto meno capiti. Ora per molte di loro forse è tardi, i licenziamenti sono vicini, le delocalizzazioni intonano già il canto delle sirene per molti di quegli imprenditori in crisi; qualcuna per fortuna ha ancora speranza. Venite in viaggio con noi, ascoltate e leggete le storie di queste migliaia di lavoratori e di famiglie, proviamo almeno ad accendere il faro su di loro per non lasciarli soli.</p>



<p>Siamo partiti da Trieste, passando per Massa Carrara e per l&#8217;appennino bolognese; poi il Valdarno toscano fino a Bari. Ma è solo l&#8217;inizio, il viaggio sarà lungo.</p>



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<p><em>Foto di Lara Mariani</em></p>



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<p><strong>Acciaierie d’Italia</strong>, composta da Invitalia e da AmInvest Co., società partecipata da ArcelorMittal e dal gruppo Marcegaglia, è una delle dieci aziende che si sono presentate al bando per l&#8217;acquisizione di <strong>SANAC</strong>, la ditta che si occupa di produrre refrattari e che si trova in amministrazione straordinaria e in cassa integrazione.</p>



<p>Se Acciaierie d’Italia, che dal 2023 diventerà per il 60% statale, dovesse vincere il bando indetto dai commissari nominati dal Governo, sarebbe un ritorno a casa per SANAC, perché un tempo era parte del grande gruppo statale ILVA. L&#8217;importante oggi è salvare un asset fondamentale per l&#8217;acciaio italiano, assieme a 346 posti di lavoro, anche se c&#8217;è chi storce un po&#8217; il naso di fronte <strong>a una società a partecipazione statale che partecipa a un bando statale</strong>, in concorrenza con i privati. Anche perché la stessa Acciaierie d’Italia è il <strong>principale cliente di SANAC</strong> (70% di produzione) e negli ultimi mesi ha praticamente azzerato le richieste. Ma negli anni i lavoratori della SANAC di incongruenze ne hanno viste in abbondanza, non ultimo il fatto che ArcelorMittal, quando era proprietaria dell&#8217;ILVA, ha già partecipato a un bando per rilevare SANAC, l&#8217;ha vinto e poi si è ritirata.</p>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<h2 id="h-ilva-e-sanac-stessa-crisi-soluzioni-diverse">ILVA e SANAC: stessa crisi, soluzioni diverse</h2>



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<p>Il 15 aprile 2021 <strong>Invitalia</strong>, l&#8217;agenzia nazionale per l&#8217;attrazione degli investimenti, <strong>entra nel capitale dell&#8217;ex ILVA</strong> aprendo una nuova stagione. Lo stesso non avviene per <strong>SANAC</strong>, la sorella minore, che assieme a ILVA è andata in amministrazione straordinaria il 17 febbraio.</p>



<p>La grande fabbrica dell&#8217;acciaio e la piccola società che costruisce <strong>refrattari</strong>, uno strumento fondamentale per la produzione di acciaio, erano parte dello stesso gruppo. Una però al momento è salva e probabilmente diventerà pubblica; l&#8217;altra, dove lavorano <strong>346 operai</strong> divisi tra quattro stabilimenti, sta ancora aspettando di conoscere il proprio futuro.</p>



<p>Intanto sono arrivate la <strong>cassa integrazione e due aste pubbliche</strong>, di cui una andata praticamente deserta, mentre l&#8217;azienda continua a lavorare e produrre anche con buoni introiti, pur non sapendo chi saranno i prossimi acquirenti e se verranno conservati tutti i posti di lavoro. La decisione di scorporarle potrebbe dipendere dal fatto che si pensava che, viste le dimensioni, l&#8217;azienda di refrattari poteva essere ricollocata in modo migliore.</p>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<h2 id="h-sanac-un-altra-vittima-di-arcelormittal">SANAC, un’altra “vittima” di ArcelorMittal?</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Il 17 febbraio del 2015 i commissari straordinari dell&#8217;ILVA presentano al ministro per lo Sviluppo economico le <strong>istanze per l&#8217;ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria</strong> delle grandi imprese in stato di insolvenza. Le società in questione sono cinque e fanno tutte parte del <strong>gruppo ILVA</strong>. Tra queste c&#8217;è anche SANAC, legata al grande polo dell&#8217;acciaio fin da quando si chiamava Italsider ed era una società a partecipazione statale.</p>



<p>Le strade della casa madre e delle quattro sedi della SANAC (Gattinara in Piemonte, Massa Carrara in Toscana, Grogastu in Sardegna e Vado Ligure in Liguria) però si separano. SANAC sarà oggetto di una diversa <strong>procedura di trasferimento</strong>. La preoccupazione dei <strong>lavoratori</strong> diventa quindi quella di <strong>non essere salvati</strong>, cosa che non è ancora avvenuta. Anche se nel 2018, dopo che il controllo della società è passato a un commissario straordinario, l&#8217;azienda viene messa all&#8217;asta. Intanto ILVA è passata ad ArcelorMittal, che è l&#8217;unica a presentare un&#8217;offerta in sede d&#8217;asta.</p>



<p>A questo punto iniziano i problemi. ArcelorMittal chiede una <strong>proroga dei termini di presentazione dell&#8217;offerta</strong> e si arriva a settembre del 2019. Sul tavolo c&#8217;è la garanzia del riassorbimento di tutti i 346 addetti. Gli unici a rischio sarebbero i <strong>34 contratti a tempo determinato</strong>. Intanto si invitano i dipendenti a smaltire le ferie pregresse. Insomma, si cerca di facilitare in ogni modo l&#8217;ingresso dei nuovi proprietari.</p>



<p>«L’azienda – scrive un verbale di un tavolo del Mise del giugno 2019 – sta valutando come affrontare il calo delle commesse, augurandosi che sia dovuto a fattori contingenti. I commissari hanno segnalato il possibile ricorso agli ammortizzatori sociali. I commissari straordinari hanno sottolineato che l’offerta Mittal è soddisfacente, specificando che è obiettivo della gestione commissariale garantire la continuità aziendale e la salvaguardia occupazionale».</p>



<p>Gli unici a nutrire dubbi sono i <strong>sindacati</strong>, che sono <strong>perplessi anche sull&#8217;idea di staccare SANAC dall&#8217;ILVA</strong>. I dubbi sono leciti, ArcelorMittal temporeggia e a febbraio 2020 chiede ancora una proroga di 30 giorni, confermando il proprio impegno di acquisto, rinnovando le garanzie e dichiarando la volontà di gestire eventuali ulteriori proroghe qualora fosse necessario. Intanto al ministero si mette nero su bianco che la proposta di acquisto potrebbe non concretizzarsi e si valuta una nuova asta. Gli ordinativi intanto ci sono e l&#8217;azienda conferma l&#8217;impiego di tutti i dipendenti, anche se qualche stabilimento è ancora in sofferenza.</p>



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<h2 id="h-acciaierie-d-italia-la-compratrice-e-anche-la-principale-cliente-se-compra-toglie-il-70-del-fatturato">Acciaierie d’Italia, la compratrice è anche la principale cliente: se compra toglie il 70% del fatturato</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Pochi giorni dopo la richiesta di proroga arriva il primo caso di Coronavirus in Italia, e a marzo si è già in piena pandemia. Mantenere stabili i fatturati in una situazione simile diventa difficile e <strong>i commissari chiedono la cassa integrazione</strong>, anche perché, scrivono nero su bianco, ArcelorMittal sta facendo venire meno gli ordinativi e paga solo in seguito a decreti ingiuntivi. Il <strong>debito</strong> della multinazionale lussemburghese è di <strong>9 milioni di euro</strong> e il 30 novembre scade la fidejussione di ArcelorMittal per l’offerta di acquisto dell’intero perimetro.</p>



<p>Si arriva così al 2021 con l&#8217;indizione di un <strong>nuovo bando</strong>. ArcelorMittal esce di scena e Acciaierie d’Italia passa di mano, diventando una società partecipata da Invitalia e da un gruppo riconducibile all&#8217;ex Marcegaglia e agli stessi indiani di ArcelorMittal, che già una volta hanno fatto saltare l&#8217;offerta. Il nuovo gruppo però decide di partecipare al nuovo bando assieme ad altre società, alcune delle quali con sede all&#8217;estero. Il fermo degli ordini di Acciaierie d’Italia a fine novembre non è ancora stato sbloccato, e non è un buon segnale, visto che è il principale cliente. Peraltro sono già stati notificati dei <strong>decreti ingiuntivi ad Acciaierie d’Italia</strong> per il recupero dei crediti non ancora corrisposti. L’incasso di tali crediti permetterà a SANAC di ottenere la necessaria liquidità, nelle more dell’espletamento della gara.</p>



<p>Sempre nell&#8217;incontro di novembre al Mise il commissario straordinario <strong>Pietro Gnudi</strong> ha fatto presente come «il fermo degli ordinativi determinerà lo spegnimento di alcuni impianti, con il conseguente rischio di determinare il deprezzamento del valore della società». Che potrebbe finire nelle mani della stessa Acciaierie d’Italia.</p>



<p>«L&#8217;azienda sarebbe anche virtuosa – dice <strong>Giordano Fumarola</strong> della FIOM – ma se le si toglie il 70% del fatturato bisogna ricorrere alla cassa integrazione, anche se si registra una crescita di un terzo degli ordinativi verso aziende che non siano Acciaierie d’Italia nel 2021. Oggi siamo obbligati a chiedere la cassa integrazione.»</p>



<p>A fine novembre si sperava di risolvere il problema entro quattro mesi. I nomi degli altri partecipanti al bando al momento sono secretati. Una volta aperte le buste per legge il vincitore avrà 45 giorni di tempo per valutare la società; dopo di che si conoscerà il reale futuro di un’azienda e dei lavoratori, ai quali dal 2023 non potrà essere rinnovata la cassa integrazione.</p>



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SANAC sedotta e abbandonata. Ancora in bilico la sorella minore dell&#8217;ILVA

<p>“Essere qui significa difendere un patrimonio industriale, ma anche difendere una prospettiva di futuro che è assolutamente essenziale per avere lavoro di qualità, e per mantenere in Italia produzioni essenziali”.</p>
<p>Le parole erano di <strong>Andrea Orlando</strong>, ministro del Lavoro in visita alla <strong>Fimer di Terranuova Bracciolini</strong>. Il periodo era lo scorso febbraio. Siamo nel Valdarno, la provincia è quella di Arezzo. La Fimer del 2022 vuol dire una matrioska di proprietà e di nomi che si sono succeduti da sempre negli ultimi decenni: qui nel Valdarno basta nominare una delle tante sigle per farsi raccontare, da chi ha cinquant’anni in su, quanto fosse solida la fiducia delle famiglie che direttamente o di sponda avevano qualcuno in casa che ci lavorasse, e se non era un parente era un amico.</p>
<p>Il settore è quello delle <strong>energie rinnovabili</strong>, produzione di <strong>inverter</strong> per l’esattezza, e l’inizio della storia parte con la allora <strong>Power One</strong>, in assoluto il marchio di riferimento a livello mondiale nei primi anni Duemila.</p>
<p>Durante il suo passaggio allo stabilimento toscano, Orlando aveva annunciato l’imminente <strong>tavolo al Mise</strong>, il ministero dello Sviluppo economico, che in effetti poi c’è stato; un tavolo interlocutorio come tutti i primi incontri politici in cui ci si annusa, si spiega, si ascolta, si spera. In vista di quell’appuntamento del 10 febbraio al Mise, i sindacati FIOM, FIM e UILM avevano fatto sospendere il presidio al casello autostradale del Valdarno programmato in segno di protesta il giorno 11.</p>
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<h2 id="h-il-caso-fimer-orgoglio-del-fotovoltaico-abbandonato-dal-governo-della-transizione-ecologica">Il caso Fimer, orgoglio del fotovoltaico abbandonato dal governo della transizione ecologica</h2>
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<p>La prima domanda seria che c’è da porsi – mentre la politica e le conferenze stampa del Governo Draghi ricorrono costantemente a espressioni come “<strong>transizione ecologica</strong>” alternata a quella digitale, come se solo a pronunciarle di continuo si convincessero i cittadini che si sta davvero andando nella giusta direzione – è come sia possibile che un’impresa modello in campo ecologico come <strong>la Fimer sia finita in un tritacarne di scala internazionale</strong>, senza che i massimi vertici delle istituzioni nazionali si accorgessero della malaparata più volte segnalata da lavoratori, RSU e sindacato.</p>
<p>Solo nel <strong>2019</strong> lo stabilimento Fimer di Terranuova era considerato quello centrale nella strategia del gruppo brianzolo della famiglia Carzaniga che avrebbe voluto posizionarlo come quarto produttore al mondo di inverter fotovoltaici; Fimer era già anche il marchio internazionale di riferimento nella realizzazione di sistemi per la mobilità elettrica. Era stato lo stesso presidente <strong>Filippo Carzaniga</strong>, nel 2019, a ufficializzare la scelta di localizzare proprio nella fabbrica ex Power One valdarnese il nuovo Centro di Ricerca &amp; Sviluppo per il segmento Utility in Italia (lo stabilimento produttivo di Terranuova è la seconda sede italiana della Fimer, oltre a quella di Vimercate in provincia di Monza Brianza che lavora al momento senza scossoni).</p>
<p>Il piano di crescita della Fimer sembrava lineare anche in Toscana, ma purtroppo tocca invece oggi una <strong>vertenza</strong>, nel Valdarno, per circa <strong>800 persone</strong>: 450 solo i dipendenti dentro lo stabilimento, a cui vanno aggiunte altre 350 persone circa tra la provincia aretina e altre aree della Toscana. I numeri salgono ancora di più se si considerano tutti i fornitori di materia prima e semilavorati dislocati sull’intero territorio nazionale.</p>
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<h2 id="h-alessandro-tracchi-fiom-cgil-la-fimer-condannata-dagli-errori-delle-multinazionali-proprietarie">Alessandro Tracchi, FIOM CGIL: “La Fimer condannata dagli errori delle multinazionali proprietarie”</h2>
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<p>Riepilogando i tanti passaggi di mano, <strong>a marzo 2020 la Fimer aveva acquistato la divisione degli inverter solari di ABB</strong> senza che venissero mai sollevati dubbi o riserve sulle capienze di cassa del gruppo. Purtroppo.</p>
<p>Mi racconta la storia per filo e per segno <strong>Alessandro Tracchi</strong>, da poche settimane segretario provinciale per Arezzo della confederazione CGIL, ma da oltre vent’anni in quell’azienda dai tanti nomi e dalle tante facce dove lui ha tenuto traccia di ogni passaggio: lo ha fatto da lavoratore e da delegato sindacale. La premessa che mi chiede di fare rende bene l’idea dello stato d’animo con cui ha accettato di collaborare con <em>SenzaFiltro</em> per spiegare esattamente come sono andate le cose.</p>
<p>Me lo dice mentre si sposta da una sede a un’altra, e sale in macchina agganciando il bluetooth. Sono le 21.30 del 2 marzo: più volte, durante la giornata, tramite messaggi mi aveva garantito piena disponibilità ma chiesto di slittare l’orario, e di essere puntualissima perché ci saremmo sentiti tra una sua assemblea sindacale e un’altra.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-04_132521.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1000" height="563" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-04_132521.png" alt="" class="wp-image-49274" /></a><figcaption>Alessandro Tracchi, segretario provinciale per Arezzo della CGIL e dipendente Fimer.</figcaption></figure>
</div>
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<p>“Mi serve spiegarti però tutto dall’inizio, senza tralasciare i dettagli che magari sono noti agli addetti ai lavori e alla cronaca locale ma che non si riesce mai a far arrivare alla ribalta nazionale. Sono invece proprio queste ricostruzioni indietro nel tempo che si rivelano utili per capire la gravità di certe crisi e individuare le responsabilità”.</p>
<p>Parte quindi dalle basi, vale a dire <strong>l’acquisizione della Power One</strong>, la vecchia multinazionale americana che a sua volta aveva rilevato nel 2007 un’altra multinazionale, americana anch’essa (era la Magnetek), e che fino a quel momento aveva avuto in proprietà lo stabilimento di Terranuova. Insomma <strong>l’azienda era pioneristica e in piena salute</strong>, avendo iniziato già nei primi anni Duemila a ideare prodotti per le energie rinnovabili, gli inverter appunto: lì si concentravano tutti i tasselli essenziali a livello industriale, dall’R&amp;D al commerciale, dalla produzione al marketing, compresi il reparto campionature prototipi e l’assistenza clienti.</p>
<p>Le prime commercializzazioni della Power One sono datate <strong>2008/2009</strong>: era a quel tempo la seconda potenza mondiale con <strong>un bilancio di 1 miliardo di dollari</strong>. È lì che va ricercata la genesi della crisi, perché è lì che scatta l’interesse di un’altra multinazionale, la <strong>ABB</strong>, nome di riferimento dell’elettronica che, passata già per altre acquisizioni, tentò direttamente il colpaccio con Power One: ABB nel 2013 mostrava un fatturato in leggera discesa ma sempre solido, intorno ai 750 milioni di dollari.</p>
<p>“ABB riscontra subito qualche problema qualitativo negli inverter Power One per errori progettuali, ma non è questo il punto iniziale della crisi. Il punto è che ABB, da multinazionale con la tipica logica di chi non capisce il valore delle peculiarità aziendali nei diversi territori e nelle diverse geografie produttive, inizia a <strong>rimodellare tutta sé stessa a sua immagine e somiglianza</strong>: lo fa nello stabilimento di Terranuova così come in quello americano, in quello in Cina, in quello in India, uniformando tutto sotto una stessa logica e togliendo strategie sia nella gestione dei clienti che nelle politiche di aggressione al mercato. Ma il grande errore è soprattutto quello di <strong>introdurre un elemento </strong>che in ABB era strategico, ma in questo settore meno, vale a dire stare in un contesto internazionale usando <strong>solo i propri canali di vendita</strong>. Un criterio fallimentare per un prodotto come gli inverter, che avevano ancora bisogno di un diverso margine operativo continuando su un rapporto diretto coi clienti.”</p>
<p>“Nel giro di due anni si arrivò subito a una <strong>forte riduzione di fatturato</strong>, al punto che già nel 2015, abbandonando completamente il mercato americano, da dove veniva la metà di quei 750 milioni di dollari grazie a tre o quattro grossi clienti, arrivarono le prime riduzioni di personale. In quel momento l’azienda occupava ben 1.000 persone, più i circa 200 dipendenti che arrivavano dal consorzio esterno che si era costituto.”</p>
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<h2 id="h-abb-lascia-indietro-gli-inverter-l-inizio-della-fine">ABB lascia indietro gli inverter: l’inizio della fine</h2>
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<p>Tracchi<strong> </strong>prosegue nel racconto che fila liscio nei tre anni successivi al 2015, quando ABB in effetti risana alcune difficoltà di prodotto, mette in campo una ristrutturazione della gamma, fa ripartire con buoni risultati la parte solar della vecchia Power One. “Fino a quando però ABB, ricreato il gioiellino, non ritenendo più interessante per sé stessa la produzione di inverter, <strong>nel 2019 decide in modo scellerato di dividere lo stabilimento</strong>: da una parte gli inverter (che mette in vendita), e dall’altra il segmento che aveva fatto partire, relativo alla produzione di caricabatterie per la mobilità elettrica”.</p>
<p>Lo fermo a questo punto del racconto perché, come nei romanzi gialli, c’è un prima e un dopo a cui non si fa caso mentre lo si vive nel presente, ma l’intaglio di certi indizi la dice lunga sull’evoluzione delle cose.</p>
<p>E chiedo: quando ABB decide di mettere in vendita la linea solar, vengono investiti il territorio e la politica locale della decisione o non trapela niente della scelta imprenditoriale? Risposta: “<strong>ABB si muove da sola</strong>, noi avevamo sentito dei rumor che venivano però continuamente smentiti. A giugno 2019, dopo che la notizia circola già sui siti istituzionali di ABB dalla mattina alle 6, ci convocano per comunicare che <strong>la divisione degli inverter sarebbe stata messa in vendita</strong>. Parte lì il lungo <strong>contenzioso sindacale</strong> perché per prima rivendicavamo, e lo facciamo tuttora, la forza e il valore del nostro stabilimento che aveva sempre attraversato a testa alta anche tutti quei passaggi non facili: indipendentemente dalla proprietà, avevamo sempre dimostrato il nostro altissimo livello professionale e produttivo”.</p>
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<h2 id="h-il-mise-non-ci-ha-mai-convocato-la-nostra-situazione-non-li-preoccupava">“Il Mise non ci ha mai convocato: la nostra situazione non li preoccupava”</h2>
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<p><strong>Orgoglio dei lavoratori</strong>, quindi, in cima alla lista delle rivendicazioni sindacali: e rimarco questa sottolineatura di Tracchi, ascoltando la storia, perché ci si dimentica quasi sempre del dolore dei lavoratori, che non è solo mancati stipendi, ma per prima cosa mancati riconoscimenti, mancati rispetti, negato buon senso tra esseri umani.</p>
<p>“La seconda nostra grande obiezione è stata fin da subito sul <strong>piano finanziario</strong>: i bilanci degli anni 2017-19 di ABB, pur essendoci stata di nuovo una buona crescita, si aggiravano intorno ai <strong>45 milioni di fatturato annuo</strong>. Ci chiedevamo quindi come potesse Fimer esser messa improvvisamente nelle condizioni di reggere l’impatto di un sistema industriale così complesso. In quell’anno e mezzo di continue e concitate richieste di intervento da parte nostra, <strong>il Mise non ci convocò mai</strong> perché dicevano che la nostra situazione non lasciava presagire scenari preoccupanti; a tutti gli incontri in cui erano presenti sia ABB che Fimer, e durante i quali esponevamo le nostre perplessità, ci veniva sempre risposto che l’operazione avrebbe certamente portato a valorizzare le due divisioni monoprodotto, insomma una grande opportunità per entrambe.”</p>
<p>Chiedo se, anche solo in modo retroattivo, Tracchi e i suoi colleghi si siano mai dati una risposta su quella decisione subita da dentro il cuore dello stabilimento. “Mai. Di voci ne abbiamo sentite di ogni genere, dal gossip al complottismo, ma <strong>un perché che fosse realmente fondato non lo abbiamo mai né intuito né avuto</strong>”.</p>
<p>La <strong>spaccatura ufficiale</strong> dello stabilimento tra Fimer e ABB porta la data di <strong>marzo 2020</strong>, la pandemia bussava già alla porta e da lì a oggi sarebbe arrivata anche la carenza di materie prime. Appena entrata nella sua proprietà, nel giro di dieci giorni Fimer inizia a sostituire interamente il management e <strong>nomina un amministratore delegato</strong>: erano in piena pandemia quando ad aprile arriva appunto <strong>Alessio Facondo</strong>, ex dirigente di Finmeccanica, che presenta il piano industriale anche in Regione Toscana. Monta il disappunto soprattutto da parte della FIOM, di cui Tracchi a quel tempo era segretario generale (oltre che lavoratore distaccato in virtù della Legge 300/1970), perché era chiaro che la disponibilità di cassa non fosse all’altezza. Il Mise continua a snobbare le richieste dei lavoratori, ma per fortuna la <strong>Regione</strong> e il sindaco di Terranuova, <strong>Sergio Chienni</strong>, hanno sempre continuato ad attenzionare la situazione.</p>
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<h2 id="h-fimer-il-ministero-se-ne-accorge-solo-adesso-e-cerca-un-compratore">Fimer, il ministero se ne accorge solo adesso. E cerca un compratore</h2>
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<p>A che punto siamo oggi?</p>
<p>“<strong>Arrivare al Mise lo scorso dicembre è stato il grande passo</strong>, e lì abbiamo voluto spiegare la nostra amarezza per questo <strong>paradosso tutto italiano della transizione ecologica e del PNRR</strong>: un nome di riferimento mondiale come la Fimer, che dovrebbe garantire occupazione e crescita in un momento storico che trova così tanta attenzione intorno all’ecologia dentro un mercato dal trend costante di un +10/12% annuo, rischia di temere persino un fallimento o comunque un forte ridimensionamento. Ora siamo in concordato, oltre che in stallo, e supportati dagli ammortizzatori sociali. Speriamo che la proprietà ceda la governance e faccia entrare investitori. L’ultimo CdA si è dimesso il 15 dicembre scorso ed è arrivato un amministratore unico, <strong>Claudio Calabi</strong>, dopo tre cambi di amministratori delegati. Il 30 dicembre è stato presentato il concordato: da lì in avanti <strong>dipendiamo dai commissari giudiziali</strong> nominati dal giudice del Tribunale di Arezzo”.</p>
<p>Ieri, 3 marzo, in azienda c’è stato un <strong>incontro interno</strong> in vista dell’appuntamento di venerdì 11 in Regione Toscana. Ne è emerso l&#8217;avanzamento di diverse offerte di acquisto, tra le quali l&#8217;azienda ha individuato un non meglio precisato &#8220;soggetto industriale&#8221; preferibile rispetto agli altri. A seguito della notizia, la FIOM CGIL ha indetto un&#8217;assemblea in presenza per l&#8217;11 marzo, subito dopo l&#8217;incontro in Regione.</p>
<p>Per metà marzo è fissato il secondo appuntamento al Mise dove <em>si dovrebbe capire</em> <strong>la concretezza dell’interesse del soggetto industriale o del fondo di investimento</strong> e, semmai, con quali somme e con quale piano industriale. Tracchi usa il condizionale e mi spiega tutta la portata simbolica di quel condizionale da cui dipendono vite, famiglie, storie personali e collettive, sussistenze, rivincite. Chissà se cambierebbe qualcosa tra l’ingresso di un privato o di un fondo magari straniero.</p>
<p>“<strong>Il privato è sempre preferibile</strong>, per quanto ormai, nel mondo dell’economia, ci sono fondi vocati quasi esclusivamente a misure di sostegno o finanziamento. Non saprei dire, ormai le incognite sono ovunque nel mondo del lavoro: magari arriva il privato che sembra solido e ben intenzionato, ma poi rivela altre mire geografiche e dopo pochi anni delocalizza. Per noi la prospettiva adesso è vedere un piano industriale che riporti fiducia nello stabilimento del Valdarno.”</p>
<p>Dal Valdarno è tutto, per ora. In attesa del Mise, in attesa che torni il sole sugli inverter.</p>
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L&#8217;eccellenza delle rinnovabili di Terranuova Bracciolini, specializzata nella produzione di inverter, è stata spolpata dalle multinazionali nel silenzio della politica: vertenza per 800 lavoratori. La testimonianza di Alessandro Tracchi, segretario provinciale FIOM CGIL e dipendente Fimer.

Fimer, inverter solari: il governo parla di transizione ecologica ma non dirada la nebbia sugli 800 lavoratori - Informazione senza filtro

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<p><strong>Piero Gnudi</strong> è stato ministro del Turismo nel governo Monti, presidente dell&#8217;ENEL, ed è presidente della società che realizza ricerche di mercato Nomisma, nonché a capo di uno studio di consulenza aziendale. Oggi, a 83 anni, il suo ruolo è quello di trovare una <strong>soluzione per la crisi della SANAC</strong>, la società che produce refrattari e ha quattro sedi tra Toscana, Liguria, Piemonte e Sardegna.</p>



<p>Non si tratta soltanto del futuro dei circa <strong>350 dipendenti</strong>, oggi in cassa integrazione, che attendono di conoscere il proprio futuro, ma anche di <strong>un&#8217;azienda strategica per il Paese</strong>. SANAC è già andata all&#8217;asta una volta; l&#8217;unica azienda a essersi presentata era ArcelorMittal (oggi Acciaierie d’Italia), peraltro suo principale cliente, che non ha però ratificato l&#8217;offerta. Gnudi, che è commissario straordinario di SANAC, ha indetto una <strong>seconda asta</strong> alla quale parteciperanno nove società, anche dall&#8217;estero. Tra queste c&#8217;è anche Acciaierie d’Italia, che oggi è una società composta da AmInvest Co. Italy e dall&#8217;agenzia governativa Invitalia, nonostante sia in causa con i liquidatori per non aver tenuto fede alla sua proposta, quando ancora la proprietà era della multinazionale lussemburghese.</p>



<p>I <strong>refrattari</strong> sono forni particolari che sono fondamentali nella produzione dell&#8217;acciaio, e per il nuovo soggetto che gestisce Acciaierie d’Italia, proprietario dell&#8217;ex ILVA, avere la proprietà di una società come SANAC potrebbe essere importante in un&#8217;ottica di rilancio dell&#8217;acciaio italiano, che è un settore strategico nella produzione industriale di un Paese. <strong>Perdere la SANAC significherebbe perdere buona parte del mercato</strong>, ma anche un&#8217;azienda la cui condizione non è per nulla disperata e che, a detta del commissario straordinario stesso, <strong>potrebbe essere rilanciata</strong>, con oculate politiche di investimento e gestione. I prossimi mesi saranno quindi decisivi.</p>



<p>Nel suo studio in centro a Bologna, a pochi passi da piazza Maggiore, sotto le belle volte affrescate di un palazzo antico, l&#8217;economista spiega come l&#8217;Italia sta progressivamente perdendo un settore strategico come l&#8217;acciaio, partendo dalla vicenda di SANAC, una delle 70 finite sul tavolo del Mise nell&#8217;ultimo anno. Ma parla anche di come ci sia ancora tempo per correre ai ripari, sebbene il quadro mondiale non sia dei migliori.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Gnudi-1-scaled.jpg"><img width="1024" height="624" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Gnudi-1-1024x624.jpg" alt="" class="wp-image-49145" /></a><figcaption>Piero Gnudi durante l&#8217;intervista nel suo studio bolognese</figcaption></figure>



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<p><strong>Come si spiega il comportamento di ArcelorMittal, che prima si presenta a un&#8217;asta, poi cambia idea e infine si ripresenta?</strong><strong></strong></p>



<p><em>Sospira.</em></p>



<p>A volte bisognerebbe entrare nella testa delle persone. E poi c&#8217;è una causa legale, che ci spiegherà i motivi. Le motivazioni che hanno portato a un cambio di idea simile non saprei però spiegarle.</p>



<p><strong>Al di là delle scelte della singola azienda, che cosa può rappresentare la chiusura di SANAC, che copre il 60% del mercato italiano dei refrattari?</strong><strong></strong></p>



<p>Le grandi acciaierie avevano tutte società collegate che facevano refrattari. Quando negli anni Sessanta iniziarono la collaborazione con ILVA costruirono sedi in quattro città. Poi negli ultimi anni è subentrata la crisi del settore, che ha avuto ripercussioni anche sull&#8217;indotto. Il nostro compito è vendere SANAC, anche dopo che ILVA stessa ha tolto la fornitura, che rappresentava il 60% del fatturato. Non bisogna però dimenticare che la SANAC è sempre stata un&#8217;azienda che andava bene e che funziona ancora. Gli ordini comunque ci sono e a mio avviso ci sono tutte le possibilità di ripartire.</p>



<p><strong>Secondo i dati Istat elaborati da Siderweb le esportazioni di acciaio nel 2020 sono diminuite del 18,6%, e secondo Federacciai la produzione è calata del 12%. Si tratta del risultato peggiore dal 2008. I problemi di SANAC derivano anche da una pesante crisi di settore?</strong><strong></strong></p>



<p>In parte sì. Il settore di produzione dell&#8217;acciaio, negli ultimi anni, in Italia sta attraversando un momento di grandi difficoltà. La crisi dell&#8217;acciaio dipende innanzitutto dalla grande concorrenza dell&#8217;Oriente e di Paesi come Cina e India. E questa è connessa ai risparmi che loro hanno nei costi dell&#8217;energia, perché si avvalgono delle fonti legate al nucleare e al carbone, che noi non utilizziamo più. Il nucleare poteva essere una soluzione per abbassare i costi, ma da noi non si possono aprire centrali. Anche i costi di trasporto, che negli ultimi anni sono aumentati, non rendono sconveniente produrre in estremo Oriente. In Italia il settore acciaio non aveva un settore adatto al ciclo produttivo. Le grosse società italiane come la FIAT un tempo avevano un settore siderurgico, che però negli anni è andato perso. E poi non siamo più competitivi con le spese per l&#8217;energia.</p>



<p><strong>Dopo la sparizione delle grandi aziende dal suolo italiano rischia di scomparire anche l&#8217;acciaio. In queste condizioni cosa può fare la politica?</strong><strong></strong></p>



<p>La politica purtroppo al giorno d&#8217;oggi può fare poco. Innanzitutto deve cercare di facilitare i processi di vendita. I soldi non vanno spesi per aziende decotte, perché sono alla fine del loro ciclo, ma per migliorare le strutture produttive. È un discorso generale: bisogna identificare quali sono casi di aziende che possono essere salvate. SANAC è una di queste, perché è l&#8217;ultima azienda di refrattari rimasta in Italia.</p>



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<p>Le prossime settimane saranno quindi decisive per capire quale sarà il futuro di un&#8217;azienda che dà lavoro a quattro territori diversi, divisi in altrettante Regioni.</p>



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<h2 id="h-le-altre-vertenze">Le altre vertenze</h2>



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<p>Nel corso del 2021 si sono perfezionati alcuni passaggi a nuovi proprietari di aziende in difficoltà nel settore acciaio. È il caso dell&#8217;<strong>Ast di Terni</strong>, che è stata ceduta da ThyssenKrupp al gruppo italiano Arvedi. Sempre in Toscana, in particolare in Valdarno dove c&#8217;era il distretto dell&#8217;acciaio, non è ancora stato risolto il nodo della <strong>Bekaert</strong>, che ha chiesto i licenziamenti per i lavoratori. L&#8217;altro nervo scoperto per l&#8217;acciaio italiano è quella di <strong>Acciaierie d’Italia</strong>, ex ArcelorMittal, il cui capitale sociale potrebbe essere rilevato per il 60% dallo Stato.</p>



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<h2 id="h-come-va-l-acciaio-italiano">Come va l&#8217;acciaio italiano</h2>



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<p>L&#8217;ultimo report fornito da Federacciai nel 2021 parla di <strong>24,411 milioni di tonnellate di acciaio prodotte in Italia</strong>: un aumento del 19,8% rispetto al 2020 e del 5,3% in più sul 2019. Un risultato in linea con quello del 2018 (-0,4%), che fu un ottimo anno per l&#8217;acciaio italiano, in controtendenza con quello della produzione mondiale, che ha visto cominciare il 2022 in risalita. I dati mensili diffusi dalla World Steel Association mostrano la bilancia virtuale di gennaio fermarsi a quota 162,9 milioni di tonnellate, in crescita del 4,8%&nbsp;rispetto al primo mese del 2020. La maggior crescita è stata spinta da Sud America +11,4% e il resto dell’Europa (Bosnia, Macedonia, Norvegia, Serbia, Turchia, UK), mentre l’Africa è la macroarea più penalizzata con un -7,9% di variazione annua.</p>



<p>Nella top ten dei paesi produttori i maggiori volumi restano in capo alla <strong>Cina</strong> con 90,2 milioni di tonnellate di produzione, per un 6,8% di crescita, mentre in testa per la maggior crescita percentuale c’è la Turchia: +12,7%&nbsp;su gennaio 2020 e 3,4 milioni di tonnellate di output. L&#8217;Italia, insomma, sembra ancora lontana dai grandi produttori di acciaio.</p>



<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>Foto di Lara Mariani</em></p>


Piero Gnudi, Presidente Nomisma: &#8220;Acciaio italiano in crisi. La politica può solo facilitare la vendita delle aziende&#8221;

<p><strong>Acciaierie d’Italia</strong>, composta da Invitalia e da AmInvest Co., società partecipata da ArcelorMittal e dal gruppo Marcegaglia, è una delle dieci aziende che si sono presentate al bando per l&#8217;acquisizione di <strong>SANAC</strong>, la ditta che si occupa di produrre refrattari e che si trova in amministrazione straordinaria e in cassa integrazione.</p>
<p>Se Acciaierie d’Italia, che dal 2023 diventerà per il 60% statale, dovesse vincere il bando indetto dai commissari nominati dal Governo, sarebbe un ritorno a casa per SANAC, perché un tempo era parte del grande gruppo statale ILVA. L&#8217;importante oggi è salvare un asset fondamentale per l&#8217;acciaio italiano, assieme a 346 posti di lavoro, anche se c&#8217;è chi storce un po&#8217; il naso di fronte <strong>a una società a partecipazione statale che partecipa a un bando statale</strong>, in concorrenza con i privati. Anche perché la stessa Acciaierie d’Italia è il <strong>principale cliente di SANAC</strong> (70% di produzione) e negli ultimi mesi ha praticamente azzerato le richieste. Ma negli anni i lavoratori della SANAC di incongruenze ne hanno viste in abbondanza, non ultimo il fatto che ArcelorMittal, quando era proprietaria dell&#8217;ILVA, ha già partecipato a un bando per rilevare SANAC, l&#8217;ha vinto e poi si è ritirata.</p>
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<h2 id="h-ilva-e-sanac-stessa-crisi-soluzioni-diverse">ILVA e SANAC: stessa crisi, soluzioni diverse</h2>
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<p>Il 15 aprile 2021 <strong>Invitalia</strong>, l&#8217;agenzia nazionale per l&#8217;attrazione degli investimenti, <strong>entra nel capitale dell&#8217;ex ILVA</strong> aprendo una nuova stagione. Lo stesso non avviene per <strong>SANAC</strong>, la sorella minore, che assieme a ILVA è andata in amministrazione straordinaria il 17 febbraio.</p>
<p>La grande fabbrica dell&#8217;acciaio e la piccola società che costruisce <strong>refrattari</strong>, uno strumento fondamentale per la produzione di acciaio, erano parte dello stesso gruppo. Una però al momento è salva e probabilmente diventerà pubblica; l&#8217;altra, dove lavorano <strong>346 operai</strong> divisi tra quattro stabilimenti, sta ancora aspettando di conoscere il proprio futuro.</p>
<p>Intanto sono arrivate la <strong>cassa integrazione e due aste pubbliche</strong>, di cui una andata praticamente deserta, mentre l&#8217;azienda continua a lavorare e produrre anche con buoni introiti, pur non sapendo chi saranno i prossimi acquirenti e se verranno conservati tutti i posti di lavoro. La decisione di scorporarle potrebbe dipendere dal fatto che si pensava che, viste le dimensioni, l&#8217;azienda di refrattari poteva essere ricollocata in modo migliore.</p>
<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<h2 id="h-sanac-un-altra-vittima-di-arcelormittal">SANAC, un’altra “vittima” di ArcelorMittal?</h2>
<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p>Il 17 febbraio del 2015 i commissari straordinari dell&#8217;ILVA presentano al ministro per lo Sviluppo economico le <strong>istanze per l&#8217;ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria</strong> delle grandi imprese in stato di insolvenza. Le società in questione sono cinque e fanno tutte parte del <strong>gruppo ILVA</strong>. Tra queste c&#8217;è anche SANAC, legata al grande polo dell&#8217;acciaio fin da quando si chiamava Italsider ed era una società a partecipazione statale.</p>
<p>Le strade della casa madre e delle quattro sedi della SANAC (Gattinara in Piemonte, Massa Carrara in Toscana, Grogastu in Sardegna e Vado Ligure in Liguria) però si separano. SANAC sarà oggetto di una diversa <strong>procedura di trasferimento</strong>. La preoccupazione dei <strong>lavoratori</strong> diventa quindi quella di <strong>non essere salvati</strong>, cosa che non è ancora avvenuta. Anche se nel 2018, dopo che il controllo della società è passato a un commissario straordinario, l&#8217;azienda viene messa all&#8217;asta. Intanto ILVA è passata ad ArcelorMittal, che è l&#8217;unica a presentare un&#8217;offerta in sede d&#8217;asta.</p>
<p>A questo punto iniziano i problemi. ArcelorMittal chiede una <strong>proroga dei termini di presentazione dell&#8217;offerta</strong> e si arriva a settembre del 2019. Sul tavolo c&#8217;è la garanzia del riassorbimento di tutti i 346 addetti. Gli unici a rischio sarebbero i <strong>34 contratti a tempo determinato</strong>. Intanto si invitano i dipendenti a smaltire le ferie pregresse. Insomma, si cerca di facilitare in ogni modo l&#8217;ingresso dei nuovi proprietari.</p>
<p>«L’azienda – scrive un verbale di un tavolo del Mise del giugno 2019 – sta valutando come affrontare il calo delle commesse, augurandosi che sia dovuto a fattori contingenti. I commissari hanno segnalato il possibile ricorso agli ammortizzatori sociali. I commissari straordinari hanno sottolineato che l’offerta Mittal è soddisfacente, specificando che è obiettivo della gestione commissariale garantire la continuità aziendale e la salvaguardia occupazionale».</p>
<p>Gli unici a nutrire dubbi sono i <strong>sindacati</strong>, che sono <strong>perplessi anche sull&#8217;idea di staccare SANAC dall&#8217;ILVA</strong>. I dubbi sono leciti, ArcelorMittal temporeggia e a febbraio 2020 chiede ancora una proroga di 30 giorni, confermando il proprio impegno di acquisto, rinnovando le garanzie e dichiarando la volontà di gestire eventuali ulteriori proroghe qualora fosse necessario. Intanto al ministero si mette nero su bianco che la proposta di acquisto potrebbe non concretizzarsi e si valuta una nuova asta. Gli ordinativi intanto ci sono e l&#8217;azienda conferma l&#8217;impiego di tutti i dipendenti, anche se qualche stabilimento è ancora in sofferenza.</p>
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<h2 id="h-acciaierie-d-italia-la-compratrice-e-anche-la-principale-cliente-se-compra-toglie-il-70-del-fatturato">Acciaierie d’Italia, la compratrice è anche la principale cliente: se compra toglie il 70% del fatturato</h2>
<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p>Pochi giorni dopo la richiesta di proroga arriva il primo caso di Coronavirus in Italia, e a marzo si è già in piena pandemia. Mantenere stabili i fatturati in una situazione simile diventa difficile e <strong>i commissari chiedono la cassa integrazione</strong>, anche perché, scrivono nero su bianco, ArcelorMittal sta facendo venire meno gli ordinativi e paga solo in seguito a decreti ingiuntivi. Il <strong>debito</strong> della multinazionale lussemburghese è di <strong>9 milioni di euro</strong> e il 30 novembre scade la fidejussione di ArcelorMittal per l’offerta di acquisto dell’intero perimetro.</p>
<p>Si arriva così al 2021 con l&#8217;indizione di un <strong>nuovo bando</strong>. ArcelorMittal esce di scena e Acciaierie d’Italia passa di mano, diventando una società partecipata da Invitalia e da un gruppo riconducibile all&#8217;ex Marcegaglia e agli stessi indiani di ArcelorMittal, che già una volta hanno fatto saltare l&#8217;offerta. Il nuovo gruppo però decide di partecipare al nuovo bando assieme ad altre società, alcune delle quali con sede all&#8217;estero. Il fermo degli ordini di Acciaierie d’Italia a fine novembre non è ancora stato sbloccato, e non è un buon segnale, visto che è il principale cliente. Peraltro sono già stati notificati dei <strong>decreti ingiuntivi ad Acciaierie d’Italia</strong> per il recupero dei crediti non ancora corrisposti. L’incasso di tali crediti permetterà a SANAC di ottenere la necessaria liquidità, nelle more dell’espletamento della gara.</p>
<p>Sempre nell&#8217;incontro di novembre al Mise il commissario straordinario <strong>Pietro Gnudi</strong> ha fatto presente come «il fermo degli ordinativi determinerà lo spegnimento di alcuni impianti, con il conseguente rischio di determinare il deprezzamento del valore della società». Che potrebbe finire nelle mani della stessa Acciaierie d’Italia.</p>
<p>«L&#8217;azienda sarebbe anche virtuosa – dice <strong>Giordano Fumarola</strong> della FIOM – ma se le si toglie il 70% del fatturato bisogna ricorrere alla cassa integrazione, anche se si registra una crescita di un terzo degli ordinativi verso aziende che non siano Acciaierie d’Italia nel 2021. Oggi siamo obbligati a chiedere la cassa integrazione.»</p>
<p>A fine novembre si sperava di risolvere il problema entro quattro mesi. I nomi degli altri partecipanti al bando al momento sono secretati. Una volta aperte le buste per legge il vincitore avrà 45 giorni di tempo per valutare la società; dopo di che si conoscerà il reale futuro di un’azienda e dei lavoratori, ai quali dal 2023 non potrà essere rinnovata la cassa integrazione.</p>
<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>
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Lo strano caso della sorella minore dell&#8217;ILVA, in salute e con i lavoratori in bilico, la cui salvezza dipende da un acquisto controverso da parte di Acciaierie d&#8217;Italia. Che però è anche la sua principale cliente, e che è la nuova incarnazione di ArcelorMittal, responsabile del nulla di fatto nell&#8217;asta precedente.

SANAC sedotta e abbandonata. Ancora in bilico la sorella minore dell&#8217;ILVA - Informazione senza filtro

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<p>Se qualcuno pensa che la Nokia non sia più decisiva sul mercato della tecnologia si sbaglia: a Trieste c’è un’azienda, la <strong>Flex</strong>, le cui commesse sono quasi al 90% garantite dalla multinazionale finlandese.</p>



<p>La <strong>crisi dello stabilimento triestino</strong> non è di oggi: con <em>SenzaFiltro</em> <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/trieste-la-flex-non-si-piega-ma-si-spezza-86-esuberi-e-rischio-delocalizzazione/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">ne aveva scritto a giugno dello scorso anno</a> <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/author/michela-de-biasio/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Michela de Biasio</a> nella rubrica di attualità del nostro giornale, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/zona-franca/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Zona Franca</a>. Purtroppo neppure il <strong>tavolo di confronto</strong> aperto lo scorso mese di novembre al ministero dello Sviluppo economico tra l&#8217;azienda, le parti sociali e i tecnici ministeriali sembra aver sortito gli effetti sperati.</p>



<p>Eppure per il 2022 l’azienda aveva stipulato <strong>accordi con la stessa Nokia e con Roboze</strong>, garantendo per tutto quest’anno la regolare attività di produzione dello stabilimento.</p>



<p>Poi la crisi del costo delle materie prime e la mancanza di ulteriori commesse ha determinato un rallentamento che rischia di trasformarsi in preoccupanti <strong>stop di qualche linea di produzione</strong> all’interno dell’azienda.</p>



<p>La <strong>cassa integrazione ordinaria</strong> coprirà <strong>150 lavoratori</strong> fino al prossimo mese di giugno del 2022; poi sarà probabile che rischino davvero di non vedere la luce in fondo al tunnel.</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Norman.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Norman-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-49253" /></a><figcaption>Un incontro sindacale alle porte dell&#8217;azienda</figcaption></figure>



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<h2 id="h-flex-quella-dipendenza-da-taiwan-che-mette-a-rischio-la-produzione">Flex, quella dipendenza da Taiwan che mette a rischio la produzione</h2>



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<p><strong>Flextronics Manifacturing S.r.l.</strong> è una multinazionale americana che nasce nel 1969 nella Silicon Valley in California, e ha sedi in tutto il mondo: in Italia, oltre che a Trieste, a Milano, Treviso e Somaglia. Attiva nel ramo delle telecomunicazioni, è specializzata in <strong>materiali elettronici</strong>, ed è una delle eccellenze del distretto industriale delle tecnologie digitali del Friuli-Venezia.</p>



<p>Che cos’è cambiato dal grido di allarme dello scorso giugno quando il nostro giornale se ne fece portavoce, passando dall’incontro al Mise di novembre? Lo abbiamo chiesto a <strong>Marco Relli</strong>, sindacalista della FIOM CGIL che segue, tra le diverse realtà aziendali, anche quella della Flex a Trieste.</p>



<p>“C’è da dire che tra le tante fibrillazioni in corso sul versante Flex tra poco abbiamo anche le elezioni per nominare le nuove rappresentanze sindacali tra i lavoratori all’interno dello stabilimento”, afferma Relli, contattato da <em>SenzaFiltro</em>. “La situazione che viviamo oggi parte anche dalla ‘<strong>dipendenza forzata</strong>’ che l’azienda ha nei confronti delle forniture in arrivo da <strong>Taiwan</strong>, che l’ha portata ad attendere invano l’arrivo dal Paese orientale dei materiali necessari alla produzione. A Taiwan, adesso, si guardano bene dall’inviare i <strong>materiali</strong>; <strong>vista la crisi attuale preferiscono tenerseli per loro</strong>. Come fai a costruire una scheda se ti mancano i componenti per farla?”.</p>



<p>A onor del vero c’è da sottolineare come questa crisi di settore, che vede Taiwan controllare quasi il 51% del mercato globale dei semiconduttori, ha portato (finalmente) la Commissione europea a muoversi decidendo di investire circa 50 miliardi di euro per <strong>aumentare la produzione dei semiconduttori in Europa</strong>, passando nei prossimi anni dal 10 al 20% e diminuendo allo stesso tempo la dipendenza forzata dei Paesi europei verso i Paesi asiatici. Questo è l’obiettivo dichiarato dalla stessa Commissione lo scorso mese di febbraio.</p>



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<h2 id="h-marco-relli-fiom-cgil-ora-la-grande-preoccupazione-e-l-obiettivo-romania-delocalizzare-sarebbe-la-fine">Marco Relli, FIOM CGIL: &#8220;Ora la grande preoccupazione è l&#8217;obiettivo Romania&#8221;. Delocalizzare sarebbe la fine</h2>



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<p>Tornando a Trieste, tra le varie commesse che la Flex può vantare c’è anche quella con l’<strong>ENEL</strong> relativa alla <strong>lettura elettronica dei contatori</strong>, a cui si dedicavano circa una sessantina di dipendenti: “Ma questa commessa sta per terminare, purtroppo”, continua Relli, e “c’è anche da dire che da tempo la direzione della Flex sta cercando in maniera assidua di <strong>trovare nuovi clienti</strong>”.</p>



<p>In città si parla di <strong>BAT</strong> (British American Tobacco) per il mercato ancora attivo e in espansione delle <strong>sigarette elettroniche</strong>: i tentativi di diversificare le commesse continuano, così come dichiarato dai vertici di Flex anche al Mise durante l&#8217;incontro tra rappresentanti aziendali, sindacali e tecnici del ministero tenuto lo scorso novembre al tavolo di crisi.</p>



<p>“Quello che preoccupa è il principio della <strong>delocalizzazione della produzione a Timisoara</strong>, dove la manodopera costa meno, senza contare che sta per scadere la cassa integrazione per gli 86 lavoratori somministrati in staff leasing, e che <strong>i lavoratori totali in cassa potrebbero diventare 150</strong>. È chiaro che se i prodotti che sviluppi, concretamente, li produci a Trieste, conservi l’occupazione. Stiamo parlando di 580 lavoratori, persone che lavorano da vent’anni e sono in linea produttiva. C’è la possibilità di non abbandonarli al proprio destino?”, si domanda Relli.</p>



<p>Oggi però è ancora <strong>Nokia</strong> che garantisce la maggior parte delle commesse all’interno della Flex. La multinazionale finlandese ha da poco siglato un’intesa con <strong>Sirti</strong>, hub di innovazione nello sviluppo delle infrastrutture di rete sul 5G. Lo scopo è realizzare un programma di creazione comune per rispondere alle richieste del mercato in ambito utility ed enterprise<em>.</em></p>



<p>Intanto a Trieste si vocifera (e si spera) che Nokia possa portare proprio a Trieste altre sue produzioni. Per il momento sono solo rumor in attesa di conferma, ma sarebbe una ventata d’aria fresca per la città e i lavoratori del comparto.</p>



<p>Il sindaco di Trieste <strong>Roberto Dipiazza</strong>, contattato da <em>SenzaFiltro</em> sulla questione Flex, ha invece dichiarato: “Relativamente alla complessa situazione che sta vivendo la Flex come altre aziende del settore in Italia, legata in primis alla difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, siamo in contatto costante con la Regione FVG sia per quanto riguarda l&#8217;adozione di misure a garanzia dei lavoratori, che per quelle relative al sostegno dei livelli produttivi”.</p>



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<h2 id="h-diversificazione-delle-commesse-la-regola-d-oro-disattesa-da-pubblico-e-privato">Diversificazione delle commesse, la regola d’oro disattesa da pubblico e privato</h2>



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<p>In ultimo, ma certo non per importanza, ci interessa sentire l’opinione di chi la fabbrica Flex la vive quotidianamente dall’interno e insieme ai suoi colleghi di lavoro: <strong>Sergio Cortesi</strong> è delegato sindacale RSU della FIOM CGIL all’interno dello stabilimento triestino. Contattato da <em>SenzaFiltro</em> dichiara:</p>



<p>“Noi, facendo due calcoli, <strong>rischiamo che la nostra cassa integrazione termini già ad aprile</strong>. Speriamo che con il periodo di ferie possiamo arrivare a coprire almeno fino alla fine dell’estate, anche se c’è da dire che in base ai diversi reparti produttivi, molti lavoratori stanno usufruendo totalmente della cassa integrazione, rimanendo a casa dal lavoro durante il corso di tutta la settimana. C&#8217;è una situazione di oggettiva difficoltà.”</p>



<p><strong>Ma qual è la speranza di chi lavora alla Flex?</strong></p>



<p>“Il lavoro che noi facevamo è stato delocalizzato in gran parte a Timisoara, in Romania, e ci arriva anche del materiale da uno stabilimento in Ucraina. Per il futuro noi facciamo affidamento su un <strong>nuovo prodotto Nokia ad alto valore aggiunto</strong> che si sta sviluppando, e che secondo l’azienda ha già molte richieste da parte dei clienti. Anche se la visione dell’azienda è molto a breve termine, anche di fronte ai diversi scenari di crisi che si stanno delineando. Se si considera poi l&#8217;aumento generale dei costi dato anche dalla <strong>crisi energetica</strong>, fino ad arrivare a <strong>quel che sta accadendo in questi giorni</strong>, la nostra tipologia di lavoro rischia di diventare <strong>ancor meno sostenibile</strong>”, conclude il delegato sindacale della FIOM CGIL.</p>



<p>La <strong>diversificazione delle commesse</strong> rimane un punto strategico da realizzare: è l&#8217;unica speranza per la Flex, così come auspicato sia da parte del sindacato che da parte dei rappresentanti dei lavoratori. Gli stessi vertici aziendali stanno lavorando per realizzare questo obiettivo.</p>



<p>L&#8217;errore strategico è anche quello di dipendere troppo da un fornitore “forte” come Taiwan, ma non capita solo alle imprese private: anche il nostro Paese negli ultimi anni ha portato la dipendenza da fornitura di gas verso la Russia al 45%, e in tempi di crisi come quelli che viviamo proprio in questi giorni, la diversificazione rappresenta un vantaggio competitivo che non ci si può più permettere di ignorare. Il rischio è che a farne le spese siano sempre gli ultimi: i cittadini e i lavoratori.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>



<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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Flex di Trieste: commesse al 90% da Nokia, ancora crisi. Ma a far paura è la delocalizzazione in Romania

<p><strong>Piero Gnudi</strong> è stato ministro del Turismo nel governo Monti, presidente dell&#8217;ENEL, ed è presidente della società che realizza ricerche di mercato Nomisma, nonché a capo di uno studio di consulenza aziendale. Oggi, a 83 anni, il suo ruolo è quello di trovare una <strong>soluzione per la crisi della SANAC</strong>, la società che produce refrattari e ha quattro sedi tra Toscana, Liguria, Piemonte e Sardegna.</p>
<p>Non si tratta soltanto del futuro dei circa <strong>350 dipendenti</strong>, oggi in cassa integrazione, che attendono di conoscere il proprio futuro, ma anche di <strong>un&#8217;azienda strategica per il Paese</strong>. SANAC è già andata all&#8217;asta una volta; l&#8217;unica azienda a essersi presentata era ArcelorMittal (oggi Acciaierie d’Italia), peraltro suo principale cliente, che non ha però ratificato l&#8217;offerta. Gnudi, che è commissario straordinario di SANAC, ha indetto una <strong>seconda asta</strong> alla quale parteciperanno nove società, anche dall&#8217;estero. Tra queste c&#8217;è anche Acciaierie d’Italia, che oggi è una società composta da AmInvest Co. Italy e dall&#8217;agenzia governativa Invitalia, nonostante sia in causa con i liquidatori per non aver tenuto fede alla sua proposta, quando ancora la proprietà era della multinazionale lussemburghese.</p>
<p>I <strong>refrattari</strong> sono forni particolari che sono fondamentali nella produzione dell&#8217;acciaio, e per il nuovo soggetto che gestisce Acciaierie d’Italia, proprietario dell&#8217;ex ILVA, avere la proprietà di una società come SANAC potrebbe essere importante in un&#8217;ottica di rilancio dell&#8217;acciaio italiano, che è un settore strategico nella produzione industriale di un Paese. <strong>Perdere la SANAC significherebbe perdere buona parte del mercato</strong>, ma anche un&#8217;azienda la cui condizione non è per nulla disperata e che, a detta del commissario straordinario stesso, <strong>potrebbe essere rilanciata</strong>, con oculate politiche di investimento e gestione. I prossimi mesi saranno quindi decisivi.</p>
<p>Nel suo studio in centro a Bologna, a pochi passi da piazza Maggiore, sotto le belle volte affrescate di un palazzo antico, l&#8217;economista spiega come l&#8217;Italia sta progressivamente perdendo un settore strategico come l&#8217;acciaio, partendo dalla vicenda di SANAC, una delle 70 finite sul tavolo del Mise nell&#8217;ultimo anno. Ma parla anche di come ci sia ancora tempo per correre ai ripari, sebbene il quadro mondiale non sia dei migliori.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Gnudi-1-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="624" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Gnudi-1-1024x624.jpg" alt="" class="wp-image-49145" /></a><figcaption>Piero Gnudi durante l&#8217;intervista nel suo studio bolognese</figcaption></figure>
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<p><strong>Come si spiega il comportamento di ArcelorMittal, che prima si presenta a un&#8217;asta, poi cambia idea e infine si ripresenta?</strong><strong></strong></p>
<p><em>Sospira.</em></p>
<p>A volte bisognerebbe entrare nella testa delle persone. E poi c&#8217;è una causa legale, che ci spiegherà i motivi. Le motivazioni che hanno portato a un cambio di idea simile non saprei però spiegarle.</p>
<p><strong>Al di là delle scelte della singola azienda, che cosa può rappresentare la chiusura di SANAC, che copre il 60% del mercato italiano dei refrattari?</strong><strong></strong></p>
<p>Le grandi acciaierie avevano tutte società collegate che facevano refrattari. Quando negli anni Sessanta iniziarono la collaborazione con ILVA costruirono sedi in quattro città. Poi negli ultimi anni è subentrata la crisi del settore, che ha avuto ripercussioni anche sull&#8217;indotto. Il nostro compito è vendere SANAC, anche dopo che ILVA stessa ha tolto la fornitura, che rappresentava il 60% del fatturato. Non bisogna però dimenticare che la SANAC è sempre stata un&#8217;azienda che andava bene e che funziona ancora. Gli ordini comunque ci sono e a mio avviso ci sono tutte le possibilità di ripartire.</p>
<p><strong>Secondo i dati Istat elaborati da Siderweb le esportazioni di acciaio nel 2020 sono diminuite del 18,6%, e secondo Federacciai la produzione è calata del 12%. Si tratta del risultato peggiore dal 2008. I problemi di SANAC derivano anche da una pesante crisi di settore?</strong><strong></strong></p>
<p>In parte sì. Il settore di produzione dell&#8217;acciaio, negli ultimi anni, in Italia sta attraversando un momento di grandi difficoltà. La crisi dell&#8217;acciaio dipende innanzitutto dalla grande concorrenza dell&#8217;Oriente e di Paesi come Cina e India. E questa è connessa ai risparmi che loro hanno nei costi dell&#8217;energia, perché si avvalgono delle fonti legate al nucleare e al carbone, che noi non utilizziamo più. Il nucleare poteva essere una soluzione per abbassare i costi, ma da noi non si possono aprire centrali. Anche i costi di trasporto, che negli ultimi anni sono aumentati, non rendono sconveniente produrre in estremo Oriente. In Italia il settore acciaio non aveva un settore adatto al ciclo produttivo. Le grosse società italiane come la FIAT un tempo avevano un settore siderurgico, che però negli anni è andato perso. E poi non siamo più competitivi con le spese per l&#8217;energia.</p>
<p><strong>Dopo la sparizione delle grandi aziende dal suolo italiano rischia di scomparire anche l&#8217;acciaio. In queste condizioni cosa può fare la politica?</strong><strong></strong></p>
<p>La politica purtroppo al giorno d&#8217;oggi può fare poco. Innanzitutto deve cercare di facilitare i processi di vendita. I soldi non vanno spesi per aziende decotte, perché sono alla fine del loro ciclo, ma per migliorare le strutture produttive. È un discorso generale: bisogna identificare quali sono casi di aziende che possono essere salvate. SANAC è una di queste, perché è l&#8217;ultima azienda di refrattari rimasta in Italia.</p>
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<p>Le prossime settimane saranno quindi decisive per capire quale sarà il futuro di un&#8217;azienda che dà lavoro a quattro territori diversi, divisi in altrettante Regioni.</p>
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<h2 id="h-le-altre-vertenze">Le altre vertenze</h2>
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<p>Nel corso del 2021 si sono perfezionati alcuni passaggi a nuovi proprietari di aziende in difficoltà nel settore acciaio. È il caso dell&#8217;<strong>Ast di Terni</strong>, che è stata ceduta da ThyssenKrupp al gruppo italiano Arvedi. Sempre in Toscana, in particolare in Valdarno dove c&#8217;era il distretto dell&#8217;acciaio, non è ancora stato risolto il nodo della <strong>Bekaert</strong>, che ha chiesto i licenziamenti per i lavoratori. L&#8217;altro nervo scoperto per l&#8217;acciaio italiano è quella di <strong>Acciaierie d’Italia</strong>, ex ArcelorMittal, il cui capitale sociale potrebbe essere rilevato per il 60% dallo Stato.</p>
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<h2 id="h-come-va-l-acciaio-italiano">Come va l&#8217;acciaio italiano</h2>
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<p>L&#8217;ultimo report fornito da Federacciai nel 2021 parla di <strong>24,411 milioni di tonnellate di acciaio prodotte in Italia</strong>: un aumento del 19,8% rispetto al 2020 e del 5,3% in più sul 2019. Un risultato in linea con quello del 2018 (-0,4%), che fu un ottimo anno per l&#8217;acciaio italiano, in controtendenza con quello della produzione mondiale, che ha visto cominciare il 2022 in risalita. I dati mensili diffusi dalla World Steel Association mostrano la bilancia virtuale di gennaio fermarsi a quota 162,9 milioni di tonnellate, in crescita del 4,8%&nbsp;rispetto al primo mese del 2020. La maggior crescita è stata spinta da Sud America +11,4% e il resto dell’Europa (Bosnia, Macedonia, Norvegia, Serbia, Turchia, UK), mentre l’Africa è la macroarea più penalizzata con un -7,9% di variazione annua.</p>
<p>Nella top ten dei paesi produttori i maggiori volumi restano in capo alla <strong>Cina</strong> con 90,2 milioni di tonnellate di produzione, per un 6,8% di crescita, mentre in testa per la maggior crescita percentuale c’è la Turchia: +12,7%&nbsp;su gennaio 2020 e 3,4 milioni di tonnellate di output. L&#8217;Italia, insomma, sembra ancora lontana dai grandi produttori di acciaio.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>
<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />
<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>
<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>
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<p><em>Foto di Lara Mariani</em></p>


Il ministro del governo Monti ed ex presidente dell&#8217;ENEL, oggi incaricato di gestire la crisi aziendale di SANAC, intervistato da SenzaFiltro: &#8220;In Italia la produzione di acciaio è in difficoltà, ma questa è un&#8217;azienda che può essere salvata.&#8221;

Piero Gnudi, Presidente Nomisma: &#8220;Acciaio italiano in crisi. La politica può solo facilitare la vendita delle aziende&#8221; - Informazione senza filtro

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<p>Alla <strong>SaGa Coffee</strong> di Gaggio Montano, Comune appoggiato sull&#8217;Appennino bolognese, dal 4 novembre <strong>200 persone</strong> (<strong>quasi tutte donne</strong>) attendono di sapere quale sarà il loro destino lavorativo. Disoccupate? Riassunte da un nuovo acquirente? A quali condizioni?</p>



<p>Proprio dal 4 di novembre hanno realizzato un <strong>presidio</strong> all’ingresso dell’azienda dove si sono organizzate per trascorrere tutta la giornata. Davanti alla SaGa campeggiano una tenda bianca con una cucina attrezzata, una botte di ferro dove bruciano grossi ceppi di legna e una tenda blu allestita per la notte. Ci hanno dormito fino a Natale; poi il clima rigido e gli impegni familiari (quasi tutte hanno figli) gli hanno impedito di fare “il turno di notte”. Ma ancora oggi questo gruppo di donne trascorre tutta la giornata davanti all’azienda che le ha sfrattate: non mollano. Non vogliono mollare. Noi le abbiamo raggiunte il 15 Febbraio, dopo quasi 100 giorni di presidio e alla vigilia della decisione finale.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/02-tenda-blu-LAra2-1.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/02-tenda-blu-LAra2-1-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-49154" /></a><figcaption>La tenda dove dal 4 novembre le lavoratrici della SaGa Coffe hanno mangiato e dormito</figcaption></figure>



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<p>Sono anche abituate a parlare con la stampa perché i giornali le hanno sempre seguite, anche se l’unica che continua a garantire una certa continuità è “Linea Notte”, che tutte le sere racconta la vertenza. Loro si sentono di <strong>ringraziare i media</strong> che gli hanno dato molta visibilità e gli hanno permesso di toccare corde sensibili. Noi gli garantiamo che continueremo a seguire e a raccontare le loro storie. Molte lavoravano in Saeco e hanno già subito questa esperienza di incertezza. Sono agguerrite, ma non incattivite. Sono preoccupate, ma non disperate. <strong>Chiedono solo di lavorare</strong>.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/03-Elisa-scaled.jpg"><img width="1024" height="667" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/03-Elisa-1024x667.jpg" alt="" class="wp-image-49157" /></a><figcaption>Elisa, lavora a Gaggio Montano da più di 20 anni</figcaption></figure>



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<p><strong>Elisa </strong>abita a Vergato. È una mamma single con due figli.</p>



<p>“Lavoro a Gaggio Montano da più di 20 anni e c’ero anche quando è successo il patatrac in Saeco. Sei anni fa c’erano 275 esuberi e ci mandarono tutti fuori, poi c’è stata una cessione di ramo d’azienda. Sono una mamma single, e <strong>se quest’azienda chiude io non so più dove andare</strong>. Abito a Vergato (un paese sull&#8217;Appennino bolognese a 25 km dall’azienda) e avendo due figli non posso permettermi di cercare lavoro a Bologna, ad esempio. Sarebbe troppo lontano. Per questo sono qui fuori con il presidio dal 4 novembre. Siamo praticamente tutte donne, io ho quasi sempre lavorato nelle linee di produzione, poi sono stata trasferita in magazzino e ho preso anche la patente per il muletto. Oggi vado avanti con la <strong>cassa integrazione</strong>, venerdì (18 febbraio) c’è l’incontro decisivo per capire come andrà a finire la questione. Ad oggi non sappiamo chi saranno i nuovi acquirenti e quante persone conserveranno il loro posto di lavoro. Abbiamo bisogno di certezze.”</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/04-Carmela-Giacca-verde-scaled.jpg"><img width="1024" height="731" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/04-Carmela-Giacca-verde-1024x731.jpg" alt="" class="wp-image-49159" /></a><figcaption>Le lavoratrici della SaGa si scaldano con una stufa improvvisata. Carmela è la quarta da sinistra</figcaption></figure>



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<p><strong>Carmela </strong>lavora a Gaggio Montano dal 2003. Anche lei era in Saeco.</p>



<p>“Dal 2003 nonostante i cambiamenti sono riuscita a mantenere il lavoro e il mio ruolo. Ho lavorato come operatrice di linea e il mio lavoro non è mai stato particolarmente stravolto, ma <strong>il 4 novembre mi è cascato il mondo addosso</strong>. Io però sono ottimista. Sono qui quasi tutti i giorni, abito a 200 metri e ho dei bimbi che vanno a scuola nei dintorni. Hanno 8 e 11 anni e loro hanno tutto qui, casa, scuola, amici; per me non è pensabile spostarmi. Se fossi stata da sola non ci avrei pensato due volte, ma con due bimbi piccoli non ho molte soluzioni.”</p>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/05-Laura-bis.jpg"><img width="1024" height="720" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/05-Laura-bis-1024x720.jpg" alt="" class="wp-image-49167" /></a><figcaption>Laura, lavora a Gaggio Montano dal 1996</figcaption></figure>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p><strong>Laura</strong>, delegata sindacale per la FIOM dal 2011.</p>



<p>“Dal ‘96 ho avuto un percorso sempre stabile, con uno stipendio e una dignità. Facevo macchine da caffè professionali e anche nei vari passaggi da Saeco e Philips a SaGa Coffee ho sempre mantenuto il mio posto. Abito qui vicino, a Marano, una frazione di Gaggio Montano, e spero di poter rientrare a lavorare. Siamo in cassa integrazione da mesi, per fortuna l’azienda ha anticipato la cassa integrazione e non siamo rimaste scoperte. Ma questa è l’unica cosa positiva che ha fatto dal 4 novembre, giorno in cui <strong>ho pianto come una bambina</strong>. Questa è una fabbrica prevalentemente femminile, <strong>le donne sono l’80%</strong> e abbiamo tante realtà difficili. Ci sono mamme sole, mamme separate che non ricevono gli alimenti dall’ex marito, ma anche casi di moglie e marito che lavorano entrambi qui, e quindi famiglie intere che vivono con stipendi dimezzati e nella completa incertezza. Non è il mio caso, perché ho due figlie ormai grandi e sono part time da tempo, e sono fortunata perché mio marito lavora altrove. Anche lui era in Saeco anni fa, ma quando c’è stata la cessione, avendo in mano una patente da camionista, è riuscito a trovare lavoro altrove. Questo ci ha salvato.”</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/06-Intervistata-Andrea-bis.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/06-Intervistata-Andrea-bis-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-49165" /></a><figcaption>Franca, lavora a Gaggio Montano da 21 anni</figcaption></figure>



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<p><strong>Franca</strong>, 59 anni. Le mancherebbe poco alla pensione.</p>



<p>“Da 21 anni lavoro in questa azienda, mentre prima lavoravo presso un artigiano. <strong>Mi mancano 7 anni per andare in pensione</strong>, con 41 anni di lavoro. La mia alternativa è quella di aspettare la pensione di vecchiaia, anche se spero di lavorare qui fino alla fine, perché non ho alcuna intenzione di spostarmi (abito sul versante toscano della montagna). Qui alla SaGa ho svolto diverse mansioni. Sono entrata come operaia, ma avendo un diploma da ragioniera mi sono trovata a fare da jolly. Mi sono occupata di amministrazione, sia nel settore delle vendite che in quello degli acquisti. Ho due figli che sono andati via da questa valle, perché non c&#8217;è lavoro. Uno di loro vive a Bologna, paga oltre 700 euro di affitto. Io dopo tanti anni ho voglia di un po’ di riposo, perché dopo un periodo così difficile sono molto affaticata.”</p>



<p></p>



<p>Lasciamo il loro presidio e scendiamo lungo l&#8217;Appennino Bolognese con la loro stessa speranza nel cuore, del resto mancano pochi giorni all&#8217;incontro decisivo che deciderà il destino dell&#8217;azienda.</p>



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<h2 id="h-chiusi-gli-accordi-ma-ancora-incertezza">Chiusi gli accordi, ma ancora incertezza</h2>



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<p>Gli accordi si sono chiusi e la <strong>nuova società partecipata</strong> dalle aziende <strong>Tecnostamp</strong> e <strong>Minifaber</strong>, che si costituisce il primo giugno, si impegna all’<strong>assunzione di almeno 137 lavoratori </strong>(il numero potrebbe salire a 150 se Invitalia dovesse confermare il proprio ingresso). Nel frattempo chi verrà richiamato in azienda potrà lavorare: ad esempio, il 28 febbraio sono rientrate al lavoro 25 persone. Gli altri restano in cassa integrazione straordinaria.</p>



<p><strong>I quasi cento giorni di presidio hanno prodotto risultati</strong>: la maggior parte dei posti di lavoro, 137 ma forse anche 150, saranno salvati, ma l’incertezza resta. Elisa, Carmela, Laura e Franca sapranno soltanto a fine luglio se riusciranno a mantenere il posto di lavoro.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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<p><em>Foto di Lara Mariani.</em></p>


Le lavoratrici di SaGa Coffee si salvano da sole

<p>Se qualcuno pensa che la Nokia non sia più decisiva sul mercato della tecnologia si sbaglia: a Trieste c’è un’azienda, la <strong>Flex</strong>, le cui commesse sono quasi al 90% garantite dalla multinazionale finlandese.</p>
<p>La <strong>crisi dello stabilimento triestino</strong> non è di oggi: con <em>SenzaFiltro</em> <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/trieste-la-flex-non-si-piega-ma-si-spezza-86-esuberi-e-rischio-delocalizzazione/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">ne aveva scritto a giugno dello scorso anno</a> <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/author/michela-de-biasio/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Michela de Biasio</a> nella rubrica di attualità del nostro giornale, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/zona-franca/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Zona Franca</a>. Purtroppo neppure il <strong>tavolo di confronto</strong> aperto lo scorso mese di novembre al ministero dello Sviluppo economico tra l&#8217;azienda, le parti sociali e i tecnici ministeriali sembra aver sortito gli effetti sperati.</p>
<p>Eppure per il 2022 l’azienda aveva stipulato <strong>accordi con la stessa Nokia e con Roboze</strong>, garantendo per tutto quest’anno la regolare attività di produzione dello stabilimento.</p>
<p>Poi la crisi del costo delle materie prime e la mancanza di ulteriori commesse ha determinato un rallentamento che rischia di trasformarsi in preoccupanti <strong>stop di qualche linea di produzione</strong> all’interno dell’azienda.</p>
<p>La <strong>cassa integrazione ordinaria</strong> coprirà <strong>150 lavoratori</strong> fino al prossimo mese di giugno del 2022; poi sarà probabile che rischino davvero di non vedere la luce in fondo al tunnel.</p>
<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Norman.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Norman-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-49253" /></a><figcaption>Un incontro sindacale alle porte dell&#8217;azienda</figcaption></figure>
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<h2 id="h-flex-quella-dipendenza-da-taiwan-che-mette-a-rischio-la-produzione">Flex, quella dipendenza da Taiwan che mette a rischio la produzione</h2>
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<p><strong>Flextronics Manifacturing S.r.l.</strong> è una multinazionale americana che nasce nel 1969 nella Silicon Valley in California, e ha sedi in tutto il mondo: in Italia, oltre che a Trieste, a Milano, Treviso e Somaglia. Attiva nel ramo delle telecomunicazioni, è specializzata in <strong>materiali elettronici</strong>, ed è una delle eccellenze del distretto industriale delle tecnologie digitali del Friuli-Venezia.</p>
<p>Che cos’è cambiato dal grido di allarme dello scorso giugno quando il nostro giornale se ne fece portavoce, passando dall’incontro al Mise di novembre? Lo abbiamo chiesto a <strong>Marco Relli</strong>, sindacalista della FIOM CGIL che segue, tra le diverse realtà aziendali, anche quella della Flex a Trieste.</p>
<p>“C’è da dire che tra le tante fibrillazioni in corso sul versante Flex tra poco abbiamo anche le elezioni per nominare le nuove rappresentanze sindacali tra i lavoratori all’interno dello stabilimento”, afferma Relli, contattato da <em>SenzaFiltro</em>. “La situazione che viviamo oggi parte anche dalla ‘<strong>dipendenza forzata</strong>’ che l’azienda ha nei confronti delle forniture in arrivo da <strong>Taiwan</strong>, che l’ha portata ad attendere invano l’arrivo dal Paese orientale dei materiali necessari alla produzione. A Taiwan, adesso, si guardano bene dall’inviare i <strong>materiali</strong>; <strong>vista la crisi attuale preferiscono tenerseli per loro</strong>. Come fai a costruire una scheda se ti mancano i componenti per farla?”.</p>
<p>A onor del vero c’è da sottolineare come questa crisi di settore, che vede Taiwan controllare quasi il 51% del mercato globale dei semiconduttori, ha portato (finalmente) la Commissione europea a muoversi decidendo di investire circa 50 miliardi di euro per <strong>aumentare la produzione dei semiconduttori in Europa</strong>, passando nei prossimi anni dal 10 al 20% e diminuendo allo stesso tempo la dipendenza forzata dei Paesi europei verso i Paesi asiatici. Questo è l’obiettivo dichiarato dalla stessa Commissione lo scorso mese di febbraio.</p>
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<h2 id="h-marco-relli-fiom-cgil-ora-la-grande-preoccupazione-e-l-obiettivo-romania-delocalizzare-sarebbe-la-fine">Marco Relli, FIOM CGIL: &#8220;Ora la grande preoccupazione è l&#8217;obiettivo Romania&#8221;. Delocalizzare sarebbe la fine</h2>
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<p>Tornando a Trieste, tra le varie commesse che la Flex può vantare c’è anche quella con l’<strong>ENEL</strong> relativa alla <strong>lettura elettronica dei contatori</strong>, a cui si dedicavano circa una sessantina di dipendenti: “Ma questa commessa sta per terminare, purtroppo”, continua Relli, e “c’è anche da dire che da tempo la direzione della Flex sta cercando in maniera assidua di <strong>trovare nuovi clienti</strong>”.</p>
<p>In città si parla di <strong>BAT</strong> (British American Tobacco) per il mercato ancora attivo e in espansione delle <strong>sigarette elettroniche</strong>: i tentativi di diversificare le commesse continuano, così come dichiarato dai vertici di Flex anche al Mise durante l&#8217;incontro tra rappresentanti aziendali, sindacali e tecnici del ministero tenuto lo scorso novembre al tavolo di crisi.</p>
<p>“Quello che preoccupa è il principio della <strong>delocalizzazione della produzione a Timisoara</strong>, dove la manodopera costa meno, senza contare che sta per scadere la cassa integrazione per gli 86 lavoratori somministrati in staff leasing, e che <strong>i lavoratori totali in cassa potrebbero diventare 150</strong>. È chiaro che se i prodotti che sviluppi, concretamente, li produci a Trieste, conservi l’occupazione. Stiamo parlando di 580 lavoratori, persone che lavorano da vent’anni e sono in linea produttiva. C’è la possibilità di non abbandonarli al proprio destino?”, si domanda Relli.</p>
<p>Oggi però è ancora <strong>Nokia</strong> che garantisce la maggior parte delle commesse all’interno della Flex. La multinazionale finlandese ha da poco siglato un’intesa con <strong>Sirti</strong>, hub di innovazione nello sviluppo delle infrastrutture di rete sul 5G. Lo scopo è realizzare un programma di creazione comune per rispondere alle richieste del mercato in ambito utility ed enterprise<em>.</em></p>
<p>Intanto a Trieste si vocifera (e si spera) che Nokia possa portare proprio a Trieste altre sue produzioni. Per il momento sono solo rumor in attesa di conferma, ma sarebbe una ventata d’aria fresca per la città e i lavoratori del comparto.</p>
<p>Il sindaco di Trieste <strong>Roberto Dipiazza</strong>, contattato da <em>SenzaFiltro</em> sulla questione Flex, ha invece dichiarato: “Relativamente alla complessa situazione che sta vivendo la Flex come altre aziende del settore in Italia, legata in primis alla difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, siamo in contatto costante con la Regione FVG sia per quanto riguarda l&#8217;adozione di misure a garanzia dei lavoratori, che per quelle relative al sostegno dei livelli produttivi”.</p>
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<h2 id="h-diversificazione-delle-commesse-la-regola-d-oro-disattesa-da-pubblico-e-privato">Diversificazione delle commesse, la regola d’oro disattesa da pubblico e privato</h2>
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<p>In ultimo, ma certo non per importanza, ci interessa sentire l’opinione di chi la fabbrica Flex la vive quotidianamente dall’interno e insieme ai suoi colleghi di lavoro: <strong>Sergio Cortesi</strong> è delegato sindacale RSU della FIOM CGIL all’interno dello stabilimento triestino. Contattato da <em>SenzaFiltro</em> dichiara:</p>
<p>“Noi, facendo due calcoli, <strong>rischiamo che la nostra cassa integrazione termini già ad aprile</strong>. Speriamo che con il periodo di ferie possiamo arrivare a coprire almeno fino alla fine dell’estate, anche se c’è da dire che in base ai diversi reparti produttivi, molti lavoratori stanno usufruendo totalmente della cassa integrazione, rimanendo a casa dal lavoro durante il corso di tutta la settimana. C&#8217;è una situazione di oggettiva difficoltà.”</p>
<p><strong>Ma qual è la speranza di chi lavora alla Flex?</strong></p>
<p>“Il lavoro che noi facevamo è stato delocalizzato in gran parte a Timisoara, in Romania, e ci arriva anche del materiale da uno stabilimento in Ucraina. Per il futuro noi facciamo affidamento su un <strong>nuovo prodotto Nokia ad alto valore aggiunto</strong> che si sta sviluppando, e che secondo l’azienda ha già molte richieste da parte dei clienti. Anche se la visione dell’azienda è molto a breve termine, anche di fronte ai diversi scenari di crisi che si stanno delineando. Se si considera poi l&#8217;aumento generale dei costi dato anche dalla <strong>crisi energetica</strong>, fino ad arrivare a <strong>quel che sta accadendo in questi giorni</strong>, la nostra tipologia di lavoro rischia di diventare <strong>ancor meno sostenibile</strong>”, conclude il delegato sindacale della FIOM CGIL.</p>
<p>La <strong>diversificazione delle commesse</strong> rimane un punto strategico da realizzare: è l&#8217;unica speranza per la Flex, così come auspicato sia da parte del sindacato che da parte dei rappresentanti dei lavoratori. Gli stessi vertici aziendali stanno lavorando per realizzare questo obiettivo.</p>
<p>L&#8217;errore strategico è anche quello di dipendere troppo da un fornitore “forte” come Taiwan, ma non capita solo alle imprese private: anche il nostro Paese negli ultimi anni ha portato la dipendenza da fornitura di gas verso la Russia al 45%, e in tempi di crisi come quelli che viviamo proprio in questi giorni, la diversificazione rappresenta un vantaggio competitivo che non ci si può più permettere di ignorare. Il rischio è che a farne le spese siano sempre gli ultimi: i cittadini e i lavoratori.</p>
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Le commesse da Nokia, i semiconduttori dal Paese asiatico: l&#8217;azienda triestina metterà 150 lavoratori in cassa integrazione per scarsa diversificazione. &#8220;Una situazione aggravata dalle crisi internazionali degli ultimi giorni&#8221;, come testimonia Marco Relli della FIOM CGIL.

Flex di Trieste: commesse al 90% da Nokia, ancora crisi. Ma a far paura è la delocalizzazione in Romania - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/flex.jpg


<p>Chi lavora alla produzione di biciclette con pedalata assistita, le e-bike montate da circa 350 lavoratrici e lavoratori, non ha da temere di perdere il posto di lavoro; gli altri <strong>1.400 dipendenti</strong> dell’<strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/automotive-il-mercato-chiede-lelettrico-e-la-puglia-non-risponde-alla-bosch-rischiano-in-600/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">impianto Bosch di Bari</a> </strong>sono potenzialmente a <strong>rischio licenziamento</strong>. Da quest’ultima platea saranno estratti i <strong>700 esuberi</strong> annunciati dal gruppo industriale tedesco che in Puglia ha lo stabilimento più importante d’Italia, ad oggi destinato a pagare il dazio più pesante alla transizione energetica e alla conseguente <strong>dismissione della produzione di motori a combustione</strong> in Unione europea entro il 2035.</p>



<p>“Tutti quelli che oggi sono sul diesel sono potenzialmente licenziabili”, conferma <strong>Ciro D’Alessio</strong>, segretario della FIOM CGIL di Bari, e per la maggior parte sono lavoratrici e lavoratori entrati in fabbrica nel 1998 e che ora hanno un’età media compresa <strong>tra i 45 e i 50 anni</strong> e uno stipendio che garantisce 1<strong>.500/1.600 euro netti al mese</strong>. Persone che difficilmente riuscirebbero a trovare una nuova collocazione, al pari delle centinaia di operaie e operai impiegati negli altri impianti baresi della filiera dell’automotive.</p>



<p>La strada individuata dalla Bosch per ridurre i licenziamenti e proseguire la produzione in Puglia è “cercare un partner per lo sviluppo di <strong>nuove tecnologie e nuove idee di business</strong>”, riporta D’Alessio. Per capire meglio di cosa si tratti abbiamo contattato l’ufficio media della Bosch Italia, purtroppo inutilmente.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/IMG-20220301-WA0018.jpg"><img width="1024" height="744" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/IMG-20220301-WA0018-1024x744.jpg" alt="" class="wp-image-49176" /></a><figcaption>Manifestazione di lavoratori e sindacati per la vertenza Bosch a Bari</figcaption></figure>



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<h2 id="h-automotive-prove-di-crisi-il-caso-marelli">Automotive, prove di crisi: il caso Marelli</h2>



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<p>Comunque vada, incentivi o meno, sempre di licenziamenti si tratta. Centinaia di licenziamenti. Come nel caso della <strong>Marelli</strong>, altro marchio storico dell’automotive italiano che ha un impianto a Bari e uno a Venaria Reale, in provincia di Torino. A metà febbraio è stato firmato l’accordo con i sindacati, confederali e autonomi, per la gestione dei 550 esuberi, di cui 100 dirigenti, utilizzando le <strong>dimissioni incentivate</strong> e il contratto di espansione, da siglare al ministero del Lavoro.</p>



<p>Quest’ultimo strumento potrà applicarsi a un <strong>massimo di 350 persone</strong>, alle quali sarà garantito l’aggancio alla pensione entro i prossimi cinque anni e un&#8217;indennità pari al trattamento pensionistico al momento dell&#8217;uscita. Grazie all’utilizzo del <strong>contratto di espansione</strong> sarà possibile attenuare il bilancio dei licenziamenti con l’assunzione di un numero di unità pari a un terzo di quelle in uscita. Supponendo che queste ultime siano 350, potranno essere assunti in 117, 90 dei quali fra quanti lavorano attualmente con contratto di somministrazione a Bari e Venaria.</p>



<p>Le dimissioni incentivate, che non prevedono il ricorso alla NASpI o ad altra forma di sostegno per la disoccupazione, saranno al massimo 200. La finestra per le uscite volontarie rimarrà aperta fino al 30 giugno e l&#8217;incentivo sarà definito in base a qualifica e anzianità: si va da 24 a 36 mensilità di retribuzione lorda e comunque da un minimo di 40.000 euro a un massimo di 70.000 euro per gli operai, aumentati a 50.000 e 100.000 euro per impiegati e quadri. Chi voglia uscire prima del 30 aprile avrà un ulteriore incentivo di 20.000 euro.</p>



<p>L’obiettivo politico raggiunto dai sindacati con l’intesa è la <strong>permanenza in Italia delle attività della Marelli</strong>, che s’impegna a investire in ricerca e sviluppo, nuovi segmenti produttivi e formazione.</p>



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<h2 id="h-se-l-automotive-convince-i-dipendenti-in-esubero-a-lasciare">Se l’automotive convince i dipendenti in esubero a lasciare</h2>



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<p>A conti fatti, tra Bosch e Marelli, almeno un migliaio di lavoratrici e lavoratori saranno <strong>incentivati a lasciare il posto di lavoro</strong>. Destino che potrebbe essere condiviso da oltre 500.000 operaie e operai in tutta Europa, l’equivalente dell’1% dei 5,7 milioni di dipendenti del settore automotive.</p>



<p>Lo afferma uno studio di Boston Consulting Group, rilanciato dal gruppo industriale Platform for Electromobility, che ipotizza sia <strong>ben più consistente il cambio di mansioni rispetto alla perdita di posti di lavoro</strong>. A fronte di un calo di occupati pari al 20% nella produzione di motori termici e del 42% nell’indotto di questo segmento, si dovrebbero creare nuove opportunità per 300.000 addetti alla produzione di motori e veicoli ibridi ed elettrici.</p>



<p>Ragione per cui gli attori della filiera non hanno mai smesso di pressare il Governo ad assumere un ruolo attivo rispetto alle politiche industriali, finalizzato alla tutela di un settore fortemente colpito dalla crisi generata dalla pandemia, e a adottare un <strong>piano strutturale per la mobilità elettrica</strong>, necessario a non interrompere l’espansione delle vendite di auto già registrata nel 2021. Pressing che ha prodotto un primo risultato: lo stanziamento di <strong>8 miliardi per il periodo 2022-30</strong>.</p>



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<h2 id="h-pierluigi-bersani-crisi-dell-automotive-il-pnrr-parla-degli-obiettivi-ma-non-di-come-arrivarci">Pierluigi Bersani: “Crisi dell’automotive? Il PNRR parla degli obiettivi, ma non di come arrivarci”</h2>



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<p>In attesa di conoscere le scelte del Governo per affrontare la crisi sempre più evidente, abbiamo invitato <strong>Pierluigi Bersani</strong>, tra i fondatori di Articolo 1 e i leader della sinistra parlamentare, a riflettere sul tema e proporre una strategia politica fondata anche sulla tutela e la promozione del lavoro.</p>



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<p><strong>La transizione energetica sta producendo uno scontro sempre più aspro tra vecchia e nuova industria, soprattutto nell’automotive, che sembra avere una vittima annunciata: il lavoratore. Un processo che sembra poco osservato dalla politica. Che ne pensa?</strong><strong></strong></p>



<p>Il processo di transizione necessario e urgente non mi sembra fin qui posto su binari sicuri e convincenti né a scala europea né a quella nazionale. Per fare l’esempio più evidente, in queste settimane di bollette alle stelle pare sfuggire il fatto che la transizione riguarda anche quelli che ci forniscono i fossili realizzando con questo la metà del loro PIL, e dai quali quindi bisogna aspettarsi una reazione. Naturalmente si affaccia anche il problema della transizione industriale, che richiederebbe un processo di pianificazione non ancora ben delineato, in particolare per quel che riguarda l’automotive, fulcro storico della produzione industriale e che coinvolge 250.000 lavoratori in Italia.</p>



<p><strong>Come si procede nella transizione dell’automotive, avendo cura di non perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro occupati da persone che hanno mediamente 50 anni e rischiano di ingrossare le fila dei nuovi poveri?</strong><strong></strong></p>



<p>Ragionevolezza vorrebbe che se hai davanti quindici anni dedichi i primi tre o quattro a sgomberare le strade dai veicoli più inquinanti, almeno fino a euro3, tenendo in vita la produzione e provvedendo intanto ad attrezzarti per la transizione all’elettrico, dalle colonnine alle stazioni di servizio, per arrivare alla pianificazione di una transizione industriale che si proietti sulla nuova componentistica e sulle batterie, oltre che su processi di nuove produzioni nell’universo della meccanica e dell’automazione. Ciò consentirebbe di arrivare alla fine degli anni Venti a un generale passaggio all’elettrico del parco. Ovvio che un processo di pianificazione del genere richiederebbe lungimiranza e stabilità della politica, un ponte di comando tecnico-manageriale autorevole a scala nazionale e un tavolo di raccordo con i soggetti sociali. Tutte cose che mi pare fatichino a essere allestite.</p>



<p><br><strong>Un tema evidentemente strategico, eppure non ha trovato spazio e attenzione nel PNRR. O sbaglio?</strong></p>



<p>Effettivamente il PNRR è più attrezzato a dire dove si vuole arrivare che non a dire come si fa ad arrivarci. Il che non impedirebbe di provvedere comunque a mettere in campo strumenti adatti a una pianificazione di lungo periodo. Su questo c’è un ritardo che si potrebbe comunque rimontare, soprattutto se maturasse la consapevolezza che tutto questo va fatto per consentire il necessario processo di decarbonizzazione, evitando contraccolpi che potrebbero rallentarlo o addirittura bloccarlo.</p>



<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>



<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



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<p><em>Foto di copertina: Eric Vandeville/Abaca/LaPresse</em></p>


Bosch Bari, 1.400 a rischio. Pierluigi Bersani: &#8220;Transizione automotive mal gestita da Italia e UE&#8221;

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<p>Alla <strong>SaGa Coffee</strong> di Gaggio Montano, Comune appoggiato sull&#8217;Appennino bolognese, dal 4 novembre <strong>200 persone</strong> (<strong>quasi tutte donne</strong>) attendono di sapere quale sarà il loro destino lavorativo. Disoccupate? Riassunte da un nuovo acquirente? A quali condizioni?</p>
<p>Proprio dal 4 di novembre hanno realizzato un <strong>presidio</strong> all’ingresso dell’azienda dove si sono organizzate per trascorrere tutta la giornata. Davanti alla SaGa campeggiano una tenda bianca con una cucina attrezzata, una botte di ferro dove bruciano grossi ceppi di legna e una tenda blu allestita per la notte. Ci hanno dormito fino a Natale; poi il clima rigido e gli impegni familiari (quasi tutte hanno figli) gli hanno impedito di fare “il turno di notte”. Ma ancora oggi questo gruppo di donne trascorre tutta la giornata davanti all’azienda che le ha sfrattate: non mollano. Non vogliono mollare. Noi le abbiamo raggiunte il 15 Febbraio, dopo quasi 100 giorni di presidio e alla vigilia della decisione finale.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/02-tenda-blu-LAra2-1.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/02-tenda-blu-LAra2-1-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-49154" /></a><figcaption>La tenda dove dal 4 novembre le lavoratrici della SaGa Coffe hanno mangiato e dormito</figcaption></figure>
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<p>Sono anche abituate a parlare con la stampa perché i giornali le hanno sempre seguite, anche se l’unica che continua a garantire una certa continuità è “Linea Notte”, che tutte le sere racconta la vertenza. Loro si sentono di <strong>ringraziare i media</strong> che gli hanno dato molta visibilità e gli hanno permesso di toccare corde sensibili. Noi gli garantiamo che continueremo a seguire e a raccontare le loro storie. Molte lavoravano in Saeco e hanno già subito questa esperienza di incertezza. Sono agguerrite, ma non incattivite. Sono preoccupate, ma non disperate. <strong>Chiedono solo di lavorare</strong>.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/03-Elisa-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="667" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/03-Elisa-1024x667.jpg" alt="" class="wp-image-49157" /></a><figcaption>Elisa, lavora a Gaggio Montano da più di 20 anni</figcaption></figure>
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<p><strong>Elisa </strong>abita a Vergato. È una mamma single con due figli.</p>
<p>“Lavoro a Gaggio Montano da più di 20 anni e c’ero anche quando è successo il patatrac in Saeco. Sei anni fa c’erano 275 esuberi e ci mandarono tutti fuori, poi c’è stata una cessione di ramo d’azienda. Sono una mamma single, e <strong>se quest’azienda chiude io non so più dove andare</strong>. Abito a Vergato (un paese sull&#8217;Appennino bolognese a 25 km dall’azienda) e avendo due figli non posso permettermi di cercare lavoro a Bologna, ad esempio. Sarebbe troppo lontano. Per questo sono qui fuori con il presidio dal 4 novembre. Siamo praticamente tutte donne, io ho quasi sempre lavorato nelle linee di produzione, poi sono stata trasferita in magazzino e ho preso anche la patente per il muletto. Oggi vado avanti con la <strong>cassa integrazione</strong>, venerdì (18 febbraio) c’è l’incontro decisivo per capire come andrà a finire la questione. Ad oggi non sappiamo chi saranno i nuovi acquirenti e quante persone conserveranno il loro posto di lavoro. Abbiamo bisogno di certezze.”</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/04-Carmela-Giacca-verde-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="731" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/04-Carmela-Giacca-verde-1024x731.jpg" alt="" class="wp-image-49159" /></a><figcaption>Le lavoratrici della SaGa si scaldano con una stufa improvvisata. Carmela è la quarta da sinistra</figcaption></figure>
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<p><strong>Carmela </strong>lavora a Gaggio Montano dal 2003. Anche lei era in Saeco.</p>
<p>“Dal 2003 nonostante i cambiamenti sono riuscita a mantenere il lavoro e il mio ruolo. Ho lavorato come operatrice di linea e il mio lavoro non è mai stato particolarmente stravolto, ma <strong>il 4 novembre mi è cascato il mondo addosso</strong>. Io però sono ottimista. Sono qui quasi tutti i giorni, abito a 200 metri e ho dei bimbi che vanno a scuola nei dintorni. Hanno 8 e 11 anni e loro hanno tutto qui, casa, scuola, amici; per me non è pensabile spostarmi. Se fossi stata da sola non ci avrei pensato due volte, ma con due bimbi piccoli non ho molte soluzioni.”</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/05-Laura-bis.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="720" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/05-Laura-bis-1024x720.jpg" alt="" class="wp-image-49167" /></a><figcaption>Laura, lavora a Gaggio Montano dal 1996</figcaption></figure>
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<p><strong>Laura</strong>, delegata sindacale per la FIOM dal 2011.</p>
<p>“Dal ‘96 ho avuto un percorso sempre stabile, con uno stipendio e una dignità. Facevo macchine da caffè professionali e anche nei vari passaggi da Saeco e Philips a SaGa Coffee ho sempre mantenuto il mio posto. Abito qui vicino, a Marano, una frazione di Gaggio Montano, e spero di poter rientrare a lavorare. Siamo in cassa integrazione da mesi, per fortuna l’azienda ha anticipato la cassa integrazione e non siamo rimaste scoperte. Ma questa è l’unica cosa positiva che ha fatto dal 4 novembre, giorno in cui <strong>ho pianto come una bambina</strong>. Questa è una fabbrica prevalentemente femminile, <strong>le donne sono l’80%</strong> e abbiamo tante realtà difficili. Ci sono mamme sole, mamme separate che non ricevono gli alimenti dall’ex marito, ma anche casi di moglie e marito che lavorano entrambi qui, e quindi famiglie intere che vivono con stipendi dimezzati e nella completa incertezza. Non è il mio caso, perché ho due figlie ormai grandi e sono part time da tempo, e sono fortunata perché mio marito lavora altrove. Anche lui era in Saeco anni fa, ma quando c’è stata la cessione, avendo in mano una patente da camionista, è riuscito a trovare lavoro altrove. Questo ci ha salvato.”</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/06-Intervistata-Andrea-bis.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/06-Intervistata-Andrea-bis-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-49165" /></a><figcaption>Franca, lavora a Gaggio Montano da 21 anni</figcaption></figure>
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<p><strong>Franca</strong>, 59 anni. Le mancherebbe poco alla pensione.</p>
<p>“Da 21 anni lavoro in questa azienda, mentre prima lavoravo presso un artigiano. <strong>Mi mancano 7 anni per andare in pensione</strong>, con 41 anni di lavoro. La mia alternativa è quella di aspettare la pensione di vecchiaia, anche se spero di lavorare qui fino alla fine, perché non ho alcuna intenzione di spostarmi (abito sul versante toscano della montagna). Qui alla SaGa ho svolto diverse mansioni. Sono entrata come operaia, ma avendo un diploma da ragioniera mi sono trovata a fare da jolly. Mi sono occupata di amministrazione, sia nel settore delle vendite che in quello degli acquisti. Ho due figli che sono andati via da questa valle, perché non c&#8217;è lavoro. Uno di loro vive a Bologna, paga oltre 700 euro di affitto. Io dopo tanti anni ho voglia di un po’ di riposo, perché dopo un periodo così difficile sono molto affaticata.”</p>
</p>
<p>Lasciamo il loro presidio e scendiamo lungo l&#8217;Appennino Bolognese con la loro stessa speranza nel cuore, del resto mancano pochi giorni all&#8217;incontro decisivo che deciderà il destino dell&#8217;azienda.</p>
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<h2 id="h-chiusi-gli-accordi-ma-ancora-incertezza">Chiusi gli accordi, ma ancora incertezza</h2>
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<p>Gli accordi si sono chiusi e la <strong>nuova società partecipata</strong> dalle aziende <strong>Tecnostamp</strong> e <strong>Minifaber</strong>, che si costituisce il primo giugno, si impegna all’<strong>assunzione di almeno 137 lavoratori </strong>(il numero potrebbe salire a 150 se Invitalia dovesse confermare il proprio ingresso). Nel frattempo chi verrà richiamato in azienda potrà lavorare: ad esempio, il 28 febbraio sono rientrate al lavoro 25 persone. Gli altri restano in cassa integrazione straordinaria.</p>
<p><strong>I quasi cento giorni di presidio hanno prodotto risultati</strong>: la maggior parte dei posti di lavoro, 137 ma forse anche 150, saranno salvati, ma l’incertezza resta. Elisa, Carmela, Laura e Franca sapranno soltanto a fine luglio se riusciranno a mantenere il posto di lavoro.</p>
<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>
<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />
<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>
<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>
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<p><em>Foto di Lara Mariani.</em></p>


200 lavoratrici di SaGa Coffee sono in presidio davanti all&#8217;azienda dal 4 novembre per salvare il loro posto di lavoro. E il loro territorio. Le loro voci e le immagini della loro vita quotidiana nel fotoreportage di SenzaFiltro.

Le lavoratrici di SaGa Coffee si salvano da sole - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/01-Copertina-Lara-1.jpg


<p>Alla fine se ne sono salvate <strong>137, delle 200 lavoratrici</strong> che per 94 giorni hanno occupato la <strong>SaGa Coffee</strong>, l&#8217;ultimo presidio rimasto di quella che una volta era la Coffee Valley, la valle del caffè. Le rimanenti andranno in pensione oppure riceveranno un incentivo all&#8217;esodo, con cifre che arrivano fino a 85.000 euro. Lo stabilimento non chiuderà, ma si sottoporrà all&#8217;ennesima dieta dimagrante anche se le dipendenti – quasi tutte donne – avrebbero volentieri lavorato.</p>



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<h2 id="h-saga-coffee-azienda-in-positivo-lavoratrici-alla-porta">SaGa Coffee, azienda in positivo, lavoratrici alla porta</h2>



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<p>Inerpicata sulle montagne tra Bologna e Pistoia, era un piccolo orgoglio per l’Emilia-Romagna: una <strong>schiera di fabbriche</strong> che guardavano verso il basso dalla montagna, nelle quali si producevano le migliori <strong>macchine da caffè</strong>. Partendo da un angolo della provincia di Bologna, alcune di queste aziende erano diventate piccole multinazionali con sede anche all&#8217;estero.</p>



<p>È la storia della <strong>SaGa Coffee</strong>, che fu acquistata nel 2016 quando ancora faceva parte del gruppo Saeco e si occupava di creare distributori di macchine da caffè da bar. La società venne acquistata dal gruppo Evoca di Bergamo e poi passò a un <strong>fondo canadese</strong> che ha investito nell&#8217;azienda nel 2016, acquistandola.</p>



<p>All&#8217;epoca nello stabilimento di Gaggio Montano c&#8217;erano 320 lavoratori. Molti di loro sono andati in pensione e non sono stati rimpiazzati, anche perché negli ultimi anni la società ha risentito della crisi del settore. Anche se prima del crollo l&#8217;azienda bolognese ha reso più che bene ai nuovi proprietari: si è passati, infatti, dai 302 milioni di euro di fatturato con un EBITDA di 74 milioni del 2015 ai 462,7 (con 105,5 di EBITDA del 2019), per ritornare poi a 304 di fatturato e 54,6 di EBITDA del 2020.</p>



<p>«I primi tre trimestri del <strong>2021</strong> – spiega <strong>Primo Sacchetti</strong> della CGIL – c&#8217;è stata una <strong>notevole ripresa</strong>. Possiamo capire che ci sia comunque ancora un po&#8217; di prudenza, ma <strong>non possiamo giustificare i licenziamenti</strong>. Capiamo che con la chiusura degli ospedali e degli uffici pubblici un settore come quello delle macchine da caffè vada in crisi.»</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Primo-Sacchetti-bis.jpg"><img width="1024" height="706" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Primo-Sacchetti-bis-1024x706.jpg" alt="" class="wp-image-49180" /></a><figcaption><strong>Primo Sacchetti</strong> della CGIL con alcune lavoratrici durante il presidio durato dal 4 Novembre al 18 Febbraio</figcaption></figure>



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<h2 id="h-cronaca-di-un-licenziamento-chiusura-e-delocalizzazione-notificate-da-un-giorno-all-altro">Cronaca di un licenziamento: chiusura e delocalizzazione notificate da un giorno all’altro</h2>



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<p>È stato proprio il periodo della pandemia e il ricorso sempre più diffuso allo smart working da parte di molte aziende a causare la <strong>flessione del mercato</strong> delle macchine per il caffè. Una crisi generalizzata che si riflette anche sulla piccola azienda di Gaggio Montano.</p>



<p>Tutto comincia il 4 novembre del 2021, quando l&#8217;amministratore delegato manda in azienda una <strong>mail</strong> al direttore dello stabilimento. Alcune lavoratrici la intercettano per caso e vi leggono che il dirigente dà indicazione di caricare gli stampi e di <strong>trasferirsi nella sede di Bergamo</strong>. La mail è di giovedì, ma le operazioni di trasloco devono effettuarsi dal venerdì.</p>



<p>Le lavoratici contattano subito i sindacati e organizzano uno <strong>sciopero</strong> con tanto di presidio. Il giorno successivo arriva la comunicazione ufficiale dell&#8217;amministratore di cessazione e chiusura entro il mese di marzo dello stabilimento di Gaggio Montano. Il presidio diventa fisso, arrivando a durare cento giorni. La società tiene duro ed è decisa a <strong>delocalizzare la produzione in Spagna e Romania</strong>, dove i costi del lavoro sono più bassi, e a <strong>Bergamo</strong>, meglio servita dal punto di vista dei trasporti. Dalla sede dell&#8217;azienda al primo casello autostradale, che è Sasso Marconi, ci vogliono almeno 48 minuti, quasi tutti di tornanti, che pesano molto sulla decisione di chiudere. Anche perché, come precisa Sacchetti: «Dalla lettura dei bilanci si evince che lo stabilimento aveva sostenibilità e aveva una perdita inferiore agli altri del gruppo, è stato <strong>chiuso per logiche di mercato</strong>».</p>



<p>Insomma, pur con i problemi connessi, lo stabilimento bolognese è quello che si trova in condizioni migliori. Nel giro di poco tempo la voce del presidio si sparge e intervengono anche gli amministratori regionali. Il <strong>presidente della Regione</strong> interviene e viene siglato un accordo con un patto per il lavoro e l&#8217;ambiente che viene rispettato.</p>



<p>«Nella gestione della trattativa – spiega Sacchetti – gli amministratori hanno avuto un ruolo attivo, cosa che la politica e i partiti non hanno avuto. <strong>In queste zone la distanza tra la gente e la politica è ormai molto alta</strong>. Cresce l&#8217;astensionismo e i voti della destra». Questo a pochi chilometri da uno dei luoghi simbolo della Resistenza, cioè il paese di Marzabotto, dove avvenne un eccidio per mano dei nazifascisti.</p>



<p>La questione però è seria e da anni nessuno sembra avere voglia di affrontarla. «Il futuro dell&#8217;Appennino è a rischio», continua Sacchetti. «La <strong>crisi della Saeco</strong> inizia a cavallo tra il 2010 e il 2011. All&#8217;epoca c&#8217;erano 1.400 dipendenti e questa zona era la <strong>Coffee Valley</strong>. Con l&#8217;avvento delle multinazionali il territorio si è impoverito, e non essendoci lavoro la gente si trasferisce».</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Sanac-Ballone-2.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Sanac-Ballone-2-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-49147" /></a></figure>



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<h2 id="h-un-intera-valle-a-rischio-salvata-dal-presidio-delle-lavoratrici">Un’intera valle a rischio, salvata dal presidio delle lavoratrici</h2>



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<p>Attorno alla Saeco, nata dall’ingegno degli imprenditori <strong>Zaccanti</strong> e <strong>Zappella</strong>, oggi proprietari della Parmacotto, si muoveva l’economia di una vallata intera. L’80% dei lavoratori erano donne, che hanno avuto così la possibilità di non trasferirsi per poter lavorare, anche se i loro figli stanno progressivamente abbandonando la vallata. È il caso ad esempio di <strong>Franca Calabrese</strong>, delegata sindacale, che ha visto partire entrambi i suoi figli per andare a vivere a Bologna, dove si trovano a pagare anche 700 euro di affitto. In questi mesi ha lottato, con le altre sue compagne che si trovano in situazioni simili – alcune sono madri single – per non perdere la possibilità di lavorare vicino a casa, ma anche per mantenere in vita una zona dell&#8217;Appennino bolognese che altrimenti rischierebbe di morire.</p>



<p>Nel <strong>presidio</strong>, che ha superato i tre mesi, con tanto di fornelli da campo e una cambusa piena di rifornimenti oltre che uno spazio per dormire, c&#8217;è molto sconforto, e in parte <strong>senso di abbandono</strong>. Anche se tutto il paese si è mobilitato per sostenere le donne che lottano per difendere il loro posto di lavoro: dalla Protezione Civile alla Croce Rossa, fino alla squadra di calcio paesana e ai bambini delle scuole elementari, che hanno fatto arrivare i loro disegni di incoraggiamento.</p>



<p>Il sostegno è arrivato anche dal sindaco di Gaggio Montano e dagli amministratori locali che hanno seguito la vicenda, conclusasi con la <strong>cessione della società a un nuovo gruppo</strong>, il quale si è impegnato a confermare i posti di lavoro e metterà in atto politiche di rilancio dello stabilimento della SANAC. Si tratta di una società partecipata dalle aziende Tecnostamp e Minifaber, che si impegna all’assunzione di almeno 137 lavoratori entro i dodici mesi interessati dal ricorso alla cassa integrazione straordinaria per cessazione. Il numero salirà a 150 se Invitalia dovesse confermare il proprio ingresso. Previste anche un’integrazione giornaliera agli importi di cassa pari a 20 euro lordi e un sistema di <strong>incentivazioni all’esodo fino a 85.000 euro lordi</strong>. Il protocollo d&#8217;intesa è stato firmato in Regione venerdì.</p>



<p>«Siamo soddisfatti di questo accordo che è stato firmato in Regione», dice Sacchetti. «Consideriamo anche l&#8217;aver ottenuto gli incentivi all&#8217;esodo un ottimo risultato. Possiamo dire che <strong>per le lavoratrici, ma anche per tutta la zona, questa è stata una vittoria</strong>».</p>



<p>Ora il ciclo produttivo della SaGa Coffee può riprendere, ultimo baluardo rimasto in quella che una volta era la valle del caffè. &nbsp;</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>



<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



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<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p><em>Foto di Lara Mariani</em></p>


Caffè scorretto: SaGa Coffee, possibile svolta per le 200 lavoratrici a rischio

<p>Chi lavora alla produzione di biciclette con pedalata assistita, le e-bike montate da circa 350 lavoratrici e lavoratori, non ha da temere di perdere il posto di lavoro; gli altri <strong>1.400 dipendenti</strong> dell’<strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/automotive-il-mercato-chiede-lelettrico-e-la-puglia-non-risponde-alla-bosch-rischiano-in-600/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">impianto Bosch di Bari</a> </strong>sono potenzialmente a <strong>rischio licenziamento</strong>. Da quest’ultima platea saranno estratti i <strong>700 esuberi</strong> annunciati dal gruppo industriale tedesco che in Puglia ha lo stabilimento più importante d’Italia, ad oggi destinato a pagare il dazio più pesante alla transizione energetica e alla conseguente <strong>dismissione della produzione di motori a combustione</strong> in Unione europea entro il 2035.</p>
<p>“Tutti quelli che oggi sono sul diesel sono potenzialmente licenziabili”, conferma <strong>Ciro D’Alessio</strong>, segretario della FIOM CGIL di Bari, e per la maggior parte sono lavoratrici e lavoratori entrati in fabbrica nel 1998 e che ora hanno un’età media compresa <strong>tra i 45 e i 50 anni</strong> e uno stipendio che garantisce 1<strong>.500/1.600 euro netti al mese</strong>. Persone che difficilmente riuscirebbero a trovare una nuova collocazione, al pari delle centinaia di operaie e operai impiegati negli altri impianti baresi della filiera dell’automotive.</p>
<p>La strada individuata dalla Bosch per ridurre i licenziamenti e proseguire la produzione in Puglia è “cercare un partner per lo sviluppo di <strong>nuove tecnologie e nuove idee di business</strong>”, riporta D’Alessio. Per capire meglio di cosa si tratti abbiamo contattato l’ufficio media della Bosch Italia, purtroppo inutilmente.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/IMG-20220301-WA0018.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="744" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/IMG-20220301-WA0018-1024x744.jpg" alt="" class="wp-image-49176" /></a><figcaption>Manifestazione di lavoratori e sindacati per la vertenza Bosch a Bari</figcaption></figure>
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<h2 id="h-automotive-prove-di-crisi-il-caso-marelli">Automotive, prove di crisi: il caso Marelli</h2>
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<p>Comunque vada, incentivi o meno, sempre di licenziamenti si tratta. Centinaia di licenziamenti. Come nel caso della <strong>Marelli</strong>, altro marchio storico dell’automotive italiano che ha un impianto a Bari e uno a Venaria Reale, in provincia di Torino. A metà febbraio è stato firmato l’accordo con i sindacati, confederali e autonomi, per la gestione dei 550 esuberi, di cui 100 dirigenti, utilizzando le <strong>dimissioni incentivate</strong> e il contratto di espansione, da siglare al ministero del Lavoro.</p>
<p>Quest’ultimo strumento potrà applicarsi a un <strong>massimo di 350 persone</strong>, alle quali sarà garantito l’aggancio alla pensione entro i prossimi cinque anni e un&#8217;indennità pari al trattamento pensionistico al momento dell&#8217;uscita. Grazie all’utilizzo del <strong>contratto di espansione</strong> sarà possibile attenuare il bilancio dei licenziamenti con l’assunzione di un numero di unità pari a un terzo di quelle in uscita. Supponendo che queste ultime siano 350, potranno essere assunti in 117, 90 dei quali fra quanti lavorano attualmente con contratto di somministrazione a Bari e Venaria.</p>
<p>Le dimissioni incentivate, che non prevedono il ricorso alla NASpI o ad altra forma di sostegno per la disoccupazione, saranno al massimo 200. La finestra per le uscite volontarie rimarrà aperta fino al 30 giugno e l&#8217;incentivo sarà definito in base a qualifica e anzianità: si va da 24 a 36 mensilità di retribuzione lorda e comunque da un minimo di 40.000 euro a un massimo di 70.000 euro per gli operai, aumentati a 50.000 e 100.000 euro per impiegati e quadri. Chi voglia uscire prima del 30 aprile avrà un ulteriore incentivo di 20.000 euro.</p>
<p>L’obiettivo politico raggiunto dai sindacati con l’intesa è la <strong>permanenza in Italia delle attività della Marelli</strong>, che s’impegna a investire in ricerca e sviluppo, nuovi segmenti produttivi e formazione.</p>
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<h2 id="h-se-l-automotive-convince-i-dipendenti-in-esubero-a-lasciare">Se l’automotive convince i dipendenti in esubero a lasciare</h2>
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<p>A conti fatti, tra Bosch e Marelli, almeno un migliaio di lavoratrici e lavoratori saranno <strong>incentivati a lasciare il posto di lavoro</strong>. Destino che potrebbe essere condiviso da oltre 500.000 operaie e operai in tutta Europa, l’equivalente dell’1% dei 5,7 milioni di dipendenti del settore automotive.</p>
<p>Lo afferma uno studio di Boston Consulting Group, rilanciato dal gruppo industriale Platform for Electromobility, che ipotizza sia <strong>ben più consistente il cambio di mansioni rispetto alla perdita di posti di lavoro</strong>. A fronte di un calo di occupati pari al 20% nella produzione di motori termici e del 42% nell’indotto di questo segmento, si dovrebbero creare nuove opportunità per 300.000 addetti alla produzione di motori e veicoli ibridi ed elettrici.</p>
<p>Ragione per cui gli attori della filiera non hanno mai smesso di pressare il Governo ad assumere un ruolo attivo rispetto alle politiche industriali, finalizzato alla tutela di un settore fortemente colpito dalla crisi generata dalla pandemia, e a adottare un <strong>piano strutturale per la mobilità elettrica</strong>, necessario a non interrompere l’espansione delle vendite di auto già registrata nel 2021. Pressing che ha prodotto un primo risultato: lo stanziamento di <strong>8 miliardi per il periodo 2022-30</strong>.</p>
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<h2 id="h-pierluigi-bersani-crisi-dell-automotive-il-pnrr-parla-degli-obiettivi-ma-non-di-come-arrivarci">Pierluigi Bersani: “Crisi dell’automotive? Il PNRR parla degli obiettivi, ma non di come arrivarci”</h2>
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<p>In attesa di conoscere le scelte del Governo per affrontare la crisi sempre più evidente, abbiamo invitato <strong>Pierluigi Bersani</strong>, tra i fondatori di Articolo 1 e i leader della sinistra parlamentare, a riflettere sul tema e proporre una strategia politica fondata anche sulla tutela e la promozione del lavoro.</p>
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<p><strong>La transizione energetica sta producendo uno scontro sempre più aspro tra vecchia e nuova industria, soprattutto nell’automotive, che sembra avere una vittima annunciata: il lavoratore. Un processo che sembra poco osservato dalla politica. Che ne pensa?</strong><strong></strong></p>
<p>Il processo di transizione necessario e urgente non mi sembra fin qui posto su binari sicuri e convincenti né a scala europea né a quella nazionale. Per fare l’esempio più evidente, in queste settimane di bollette alle stelle pare sfuggire il fatto che la transizione riguarda anche quelli che ci forniscono i fossili realizzando con questo la metà del loro PIL, e dai quali quindi bisogna aspettarsi una reazione. Naturalmente si affaccia anche il problema della transizione industriale, che richiederebbe un processo di pianificazione non ancora ben delineato, in particolare per quel che riguarda l’automotive, fulcro storico della produzione industriale e che coinvolge 250.000 lavoratori in Italia.</p>
<p><strong>Come si procede nella transizione dell’automotive, avendo cura di non perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro occupati da persone che hanno mediamente 50 anni e rischiano di ingrossare le fila dei nuovi poveri?</strong><strong></strong></p>
<p>Ragionevolezza vorrebbe che se hai davanti quindici anni dedichi i primi tre o quattro a sgomberare le strade dai veicoli più inquinanti, almeno fino a euro3, tenendo in vita la produzione e provvedendo intanto ad attrezzarti per la transizione all’elettrico, dalle colonnine alle stazioni di servizio, per arrivare alla pianificazione di una transizione industriale che si proietti sulla nuova componentistica e sulle batterie, oltre che su processi di nuove produzioni nell’universo della meccanica e dell’automazione. Ciò consentirebbe di arrivare alla fine degli anni Venti a un generale passaggio all’elettrico del parco. Ovvio che un processo di pianificazione del genere richiederebbe lungimiranza e stabilità della politica, un ponte di comando tecnico-manageriale autorevole a scala nazionale e un tavolo di raccordo con i soggetti sociali. Tutte cose che mi pare fatichino a essere allestite.</p>
<p><strong>Un tema evidentemente strategico, eppure non ha trovato spazio e attenzione nel PNRR. O sbaglio?</strong></p>
<p>Effettivamente il PNRR è più attrezzato a dire dove si vuole arrivare che non a dire come si fa ad arrivarci. Il che non impedirebbe di provvedere comunque a mettere in campo strumenti adatti a una pianificazione di lungo periodo. Su questo c’è un ritardo che si potrebbe comunque rimontare, soprattutto se maturasse la consapevolezza che tutto questo va fatto per consentire il necessario processo di decarbonizzazione, evitando contraccolpi che potrebbero rallentarlo o addirittura bloccarlo.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>
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<p><em>Foto di copertina: Eric Vandeville/Abaca/LaPresse</em></p>


Pierluigi Bersani apre la campagna elettorale

La dismissione della produzione di motori a combustione decisa dall&#8217;UE per il 2035 sta provocando licenziamenti a catena nell&#8217;automotive: è il caso della Bosch e della Marelli, a Bari. Sul tema abbiamo raccolto dichiarazioni in esclusiva di Pierluigi Bersani.

Bosch Bari, 1.400 a rischio. Pierluigi Bersani: &#8220;Transizione automotive mal gestita da Italia e UE&#8221; - Informazione senza filtro

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<p><strong>Bouquet di rincari e bollette</strong>, aspettative di aiuti recise da tempo: è un connubio micidiale quello che colpisce il <strong>settore florovivaistico italiano,</strong> oggi più che mai sull’orlo di un collasso vero e proprio. Un bilancio che senza nessuna ironia ma con amaro realismo era già scoccato proprio a ridosso di una delle feste commercialmente più redditizie per il settore e attesa come occasione di rilancio dopo due anni di denti stretti: San Valentino. Ad accelerare la gravità della situazione l’odierno <strong>conflitto in Ucraina</strong>, come ha evidenziato a gran voce da <strong>Coldiretti che ha organizzato diverse manifestazioni di protesta</strong> tra cui quella di Forte Marghera (Mestre) dove circa 800 lavoratori e lavoratrici del settore agricolo sono scesi in piazza per dire stop alle <strong>speculazioni</strong> che stanno strozzando le aziende e <strong>no alla guerra</strong> che, come denuncia Coldiretti, rischia di cancellare completamente le esportazioni made in Italy in Russia e in Ucraina e di far schizzare il <strong>caro concimi</strong> con aumenti fino al<strong> +170%</strong> con ripercussioni gravi sulla filiera agroalimentare italiana.&nbsp;</p>



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<h2 id="h-serre-e-vivai-bollette-da-1-700-a-6-100-euro">Serre e vivai, bollette da 1.700 a 6.100 euro</h2>



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<p>Focalizzandoci sul segmento serre e vivai, a delineare la complessa situazione è sempre Coldiretti, secondo cui la produzione di fiori quest’anno arriva a costare alle imprenditrici e agli imprenditori agricoli ben il <strong>30% in più </strong>a causa dell’<strong>impennata dei costi energetici</strong>.</p>



<p>Il caro bollette ha così innescato una dinamica paradossale, con casi di vivai praticamente costretti a <strong>produrre in perdita</strong>: un ossimoro da crisi conclamata e con effetti già tangibili e diffusi nel nostro Paese. Il comparto florovivaistico rappresenta infatti un segmento strategico per l’economia agricola nazionale che conta <strong>27.000 aziende florovivaistiche</strong> <strong>attive</strong>, le quali coinvolgono complessivamente<strong> 200.000 occupati</strong>, tra lavoratori e lavoratrici, e che generano un valore superiore ai <strong>2,57 miliardi di euro</strong>, sempre secondo i dati forniti da Coldiretti.</p>



<p>L’emergenza energetica ha impattato con violenza sui gestori di serre per piante e fiori, che nel periodo invernale si devono affidare al riscaldamento prolungato per mesi, soprattutto al Centro-Nord dove gli inverni sono più lunghi e rigidi. Dalla testimonianza di Coldiretti, sul fronte nazionale i numeri dei <strong>rincari </strong>sono da capogiro: nell’arco di un anno la <strong>bolletta mensile di un’azienda florovivaistica </strong>media è passata <strong>da 1.700 euro a 6.100 euro</strong>.</p>



<p>Al rincaro di energia elettrica si aggiungono gli aumenti riguardanti i <strong>carburanti </strong>per la movimentazione dei macchinari e i costi delle<strong> materie prime </strong>e degli<strong> imballaggi</strong>: ad esempio i costi degli imballaggi in plastica sono triplicati, e in termini percentuali nelle serre si spende il 50% in più per gasolio ed elettricità, il 400% in più per concimi e metano. Secondo le stime di Coldiretti per una serra di circa mille metri, dove viene coltivato un fiore tipico del periodo come la viola a ciocche, la <strong>perdita netta per i vivaisti è pari a 1.250 euro</strong>. Numeri e disagi che si commentano da soli.</p>



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<h2 id="h-giulia-baldelli-ecoflora-produzione-ridimensionata-o-interrotta">Giulia Baldelli, Ecoflora: “Produzione ridimensionata o interrotta”</h2>



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<p>Per il nostro servizio ci focalizziamo sul <strong>territorio veneto</strong>, contesto fervido dal punto di vista florovivaistico e non esente, come il resto d’Italia, dalle problematiche fin qui descritte. Coldiretti regionale evidenzia come tra le 1.500 aziende del settore non siano mancate scelte nette come quella di <strong>evitare la produzione di alcune varietà di fiori</strong> o di <strong>ridimensionare</strong> la coltivazione di altre varietà proprio per non gravare sulle tasche dei consumatori.</p>



<p>Per tastare il polso della situazione ci siamo confrontati, prima dello scoppio bellico, con chi questa crisi la sta affrontando a testa alta nel quotidiano: abbiamo raggiunto telefonicamente <strong>Giulia Baldelli</strong>, co-titolare insieme ai genitori e al fratello di Ecoflora, azienda a conduzione familiare della provincia di Rovigo e con in spalla più di trent’anni di storia.</p>



<p>“I miei genitori hanno dato vita all’impresa negli anni Ottanta”, racconta. “Sono partiti dalle classiche serre in nylon per arrivare a quelle in ferro-vetro. Nel tempo sono stati effettuati diversi investimenti”. L’impresa coinvolge anche una <strong>fattoria didattica</strong> e ha implementato progettualità di inclusione lavorativa e di respiro sociale, tra cui laboratori e tirocini, a favore di persone con disabilità e fragilità, vincendo il premio come impresa socialmente responsabile. “Sono laureata in psicologia e ho sviluppato queste mie conoscenze all’interno dell’azienda”, puntualizza la nostra intervistata. “Abbiamo ancora tanta strada da fare: vorremmo tutelare tutte queste attività insieme alla clientela”.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/orto-della-pace.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/orto-della-pace-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-49090" /></a><figcaption>Il Giardino della pace firmato Coldiretti Veneto</figcaption></figure></div>



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<p>La preoccupazione per il periodo è tangibile. Tocchiamo subito il tema delle <strong>ricadute </strong>determinate dall’<strong>aumento dei costi</strong>: “Il caro bollette ha inciso molto sui prezzi finali di vendita del prodotto, dobbiamo pagare il <strong>50% in più rispetto all’anno scorso</strong>. Anche l’aumento delle materie prime come terra, concime, vasi di plastica ha avuto il suo peso”. E spiega: “Consideriamo che per riscaldare le serre cominciamo a spendere tanto da ottobre fino all’arrivo di temperature più calde in primavera. Conosco <strong>tanti garden che hanno proprio deciso di chiudere la produzione </strong>di tutte quelle piante, come ad esempio le ornamentali, che necessitano di riscaldamento per tutto il periodo invernale e di notte, almeno qui al Nord Italia, anche per il mese di aprile”.</p>



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<h2 id="h-le-chiavi-di-svolta-energia-pulita-e-risparmio-energetico-e-lo-stato-resta-a-guardare">Le chiavi di svolta? Energia pulita e risparmio energetico. E lo Stato resta a guardare</h2>



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<p>Riguardo alla questione dei <strong>prezzi finali</strong> del prodotto chiediamo alla co-titolare di Ecoflora come la stiano affrontando.</p>



<p>“Nel nostro piccolo cerchiamo di aumentarli in modo equo, e quindi di contenerli. Ad esempio un vasetto di primula lo vendiamo a 70 centesimi, applicando un aumento minimo: <strong>aumentare eccessivamente i prezzi significherebbe infatti tagliarci le gambe</strong>. Lo stesso prezzo l’abbiamo però trovato all’ingrosso. Purtroppo ho notato che il rialzo dei prezzi è stato notevole nell’ambito dei mercati e supermercati.”</p>



<p>La strategia di tutela dell’azienda cerca di affidarsi ad altro: “Usiamo le centrali a metano, ma per l’energia elettrica stiamo pensando di puntare fortemente sul <strong>fotovoltaico</strong>, che già abbiamo presente sulla tettoia della fattoria didattica, da implementare sulle serre. Altro aspetto è quello del <strong>risparmio energetico</strong> per venire incontro agli scenari futuri”.</p>



<p>Rispetto al tema <strong>aiuti dallo Stato</strong> Giulia Baldelli commenta con amarezza: “<strong>Al momento</strong> <strong>tutto tace</strong>. Così come abbiamo fatto durante questi due anni di pandemia, siamo noi a doverci rimboccare le maniche”. Non dimentichiamo infatti che questa crisi energetica arriva dopo un periodo di chiusure massacranti anche per questo settore, soprattutto in stagioni strategiche dal punto di vista commerciale come la primavera.</p>



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<h2 id="h-perche-la-crisi-florovivaistica-e-un-colpo-al-made-in-italy">Perché la crisi florovivaistica è un colpo al Made in Italy</h2>



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<p>Costi lievitati e spesso insostenibili, produzioni messe in stand-by, tutela degli incassi e tenuta dei clienti che suonano come una dicotomia: lo scenario per il settore florovivaistico italiano mette a dura prova su diversi fronti, ma non manca all’appello un’altra questione non meno insidiosa.</p>



<p>L’eclissarsi dal mercato di determinate tipologie di fiori italiani rischia di <strong>compromettere il Made in Italy</strong> e di <strong>favorire l’importazione dall’estero</strong>. I Paesi stranieri nel 2021 hanno già registrato un aumento del 20% in valore, secondo un’analisi Coldiretti su dati Istat relativi ai primi dieci mesi dell’anno. In gioco non ci sono solo questioni economiche: purtroppo ci sono casi di piante e fiori ottenuti da situazioni di lavoro sottopagato e senza adeguata tutela dei diritti.</p>



<p>“Il rischio di <strong>compromettere la produzione di fiori italiana </strong>è reale e lo vediamo dalle aziende florovivaistiche che hanno bloccato la produzione o proprio chiuso”, chiosa a questo proposito Giulia Baldelli. “Facciamo fatica a trovare i fiori recisi, che sono spesso d’importazione dai Paesi più caldi come Sud America o Africa, dove i prezzi sono minori proprio perché il clima è più favorevole e impatta meno sui costi di gestione”.</p>



<p>Non possiamo infine dimenticare la questione ambientale legata allo <strong>spreco</strong>: chi gestisce un vivaio non può decidere da un giorno all’altro di bloccare la produzione, pena la morte delle piante o la mancata fioritura. “La programmazione della produzione dei fiori avviene molti mesi prima di avviarla, perché se non le vendi nelle stagioni giuste le piante si rovinano: la natura ha i suoi tempi. Ad esempio le produzioni della primavera si cominciano a programmare in autunno; tra poco penseremo già alle stelle di Natale e ai ciclamini. Nel nostro ambito funziona così e dobbiamo tenere conto anche degli imprevisti dati dalle condizioni atmosferiche. Già con il lockdown molti garden hanno ridotto la produzione per timore di ulteriori chiusure, che avrebbero portato ad altre perdite”.</p>



<p>La preoccupazione resta tanta per i gestori e lavoratori dell’intero comparto, come ci confermano le parole della nostra intervistata: “Lo scenario è abbastanza nebuloso, perché <strong>risposte a livello politico non ce ne sono</strong>. Siamo tutti collegati, le ricadute di un settore hanno effetti sull’altro, e non abbiamo la possibilità di muoverci sul mercato come prima. L’importante resta salvaguardare le persone che lavorano al nostro interno e i clienti”.</p>



<p>Una salvaguardia che fa parte dell’equipaggiamento quotidiano di sopravvivenza di molti vivaisti, che continuano ad affrontare un contesto economico finora arido di risposte e supporti concreti.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi tutti gli articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/sostenibilita/">Sostenibilità</a></strong>.</em></p>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi tutti gli articoli del mensile di febbraio &#8220;<strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-109/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Stipendi d&#8217;Italia</a></strong>&#8220;.</em></p>



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<p><em>Nella foto di copertina: Manifestazione a Forte Marghera. Credits: Coldiretti</em></p>


Crisi energetica, per serre e vivai bollette schizzate da 1.700 a 6.100 euro. Lo Stato li lascia appassire

<p>Alla fine se ne sono salvate <strong>137, delle 200 lavoratrici</strong> che per 94 giorni hanno occupato la <strong>SaGa Coffee</strong>, l&#8217;ultimo presidio rimasto di quella che una volta era la Coffee Valley, la valle del caffè. Le rimanenti andranno in pensione oppure riceveranno un incentivo all&#8217;esodo, con cifre che arrivano fino a 85.000 euro. Lo stabilimento non chiuderà, ma si sottoporrà all&#8217;ennesima dieta dimagrante anche se le dipendenti – quasi tutte donne – avrebbero volentieri lavorato.</p>
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<h2 id="h-saga-coffee-azienda-in-positivo-lavoratrici-alla-porta">SaGa Coffee, azienda in positivo, lavoratrici alla porta</h2>
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<p>Inerpicata sulle montagne tra Bologna e Pistoia, era un piccolo orgoglio per l’Emilia-Romagna: una <strong>schiera di fabbriche</strong> che guardavano verso il basso dalla montagna, nelle quali si producevano le migliori <strong>macchine da caffè</strong>. Partendo da un angolo della provincia di Bologna, alcune di queste aziende erano diventate piccole multinazionali con sede anche all&#8217;estero.</p>
<p>È la storia della <strong>SaGa Coffee</strong>, che fu acquistata nel 2016 quando ancora faceva parte del gruppo Saeco e si occupava di creare distributori di macchine da caffè da bar. La società venne acquistata dal gruppo Evoca di Bergamo e poi passò a un <strong>fondo canadese</strong> che ha investito nell&#8217;azienda nel 2016, acquistandola.</p>
<p>All&#8217;epoca nello stabilimento di Gaggio Montano c&#8217;erano 320 lavoratori. Molti di loro sono andati in pensione e non sono stati rimpiazzati, anche perché negli ultimi anni la società ha risentito della crisi del settore. Anche se prima del crollo l&#8217;azienda bolognese ha reso più che bene ai nuovi proprietari: si è passati, infatti, dai 302 milioni di euro di fatturato con un EBITDA di 74 milioni del 2015 ai 462,7 (con 105,5 di EBITDA del 2019), per ritornare poi a 304 di fatturato e 54,6 di EBITDA del 2020.</p>
<p>«I primi tre trimestri del <strong>2021</strong> – spiega <strong>Primo Sacchetti</strong> della CGIL – c&#8217;è stata una <strong>notevole ripresa</strong>. Possiamo capire che ci sia comunque ancora un po&#8217; di prudenza, ma <strong>non possiamo giustificare i licenziamenti</strong>. Capiamo che con la chiusura degli ospedali e degli uffici pubblici un settore come quello delle macchine da caffè vada in crisi.»</p>
<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Primo-Sacchetti-bis.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="706" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Primo-Sacchetti-bis-1024x706.jpg" alt="" class="wp-image-49180" /></a><figcaption><strong>Primo Sacchetti</strong> della CGIL con alcune lavoratrici durante il presidio durato dal 4 Novembre al 18 Febbraio</figcaption></figure>
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<h2 id="h-cronaca-di-un-licenziamento-chiusura-e-delocalizzazione-notificate-da-un-giorno-all-altro">Cronaca di un licenziamento: chiusura e delocalizzazione notificate da un giorno all’altro</h2>
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<p>È stato proprio il periodo della pandemia e il ricorso sempre più diffuso allo smart working da parte di molte aziende a causare la <strong>flessione del mercato</strong> delle macchine per il caffè. Una crisi generalizzata che si riflette anche sulla piccola azienda di Gaggio Montano.</p>
<p>Tutto comincia il 4 novembre del 2021, quando l&#8217;amministratore delegato manda in azienda una <strong>mail</strong> al direttore dello stabilimento. Alcune lavoratrici la intercettano per caso e vi leggono che il dirigente dà indicazione di caricare gli stampi e di <strong>trasferirsi nella sede di Bergamo</strong>. La mail è di giovedì, ma le operazioni di trasloco devono effettuarsi dal venerdì.</p>
<p>Le lavoratici contattano subito i sindacati e organizzano uno <strong>sciopero</strong> con tanto di presidio. Il giorno successivo arriva la comunicazione ufficiale dell&#8217;amministratore di cessazione e chiusura entro il mese di marzo dello stabilimento di Gaggio Montano. Il presidio diventa fisso, arrivando a durare cento giorni. La società tiene duro ed è decisa a <strong>delocalizzare la produzione in Spagna e Romania</strong>, dove i costi del lavoro sono più bassi, e a <strong>Bergamo</strong>, meglio servita dal punto di vista dei trasporti. Dalla sede dell&#8217;azienda al primo casello autostradale, che è Sasso Marconi, ci vogliono almeno 48 minuti, quasi tutti di tornanti, che pesano molto sulla decisione di chiudere. Anche perché, come precisa Sacchetti: «Dalla lettura dei bilanci si evince che lo stabilimento aveva sostenibilità e aveva una perdita inferiore agli altri del gruppo, è stato <strong>chiuso per logiche di mercato</strong>».</p>
<p>Insomma, pur con i problemi connessi, lo stabilimento bolognese è quello che si trova in condizioni migliori. Nel giro di poco tempo la voce del presidio si sparge e intervengono anche gli amministratori regionali. Il <strong>presidente della Regione</strong> interviene e viene siglato un accordo con un patto per il lavoro e l&#8217;ambiente che viene rispettato.</p>
<p>«Nella gestione della trattativa – spiega Sacchetti – gli amministratori hanno avuto un ruolo attivo, cosa che la politica e i partiti non hanno avuto. <strong>In queste zone la distanza tra la gente e la politica è ormai molto alta</strong>. Cresce l&#8217;astensionismo e i voti della destra». Questo a pochi chilometri da uno dei luoghi simbolo della Resistenza, cioè il paese di Marzabotto, dove avvenne un eccidio per mano dei nazifascisti.</p>
<p>La questione però è seria e da anni nessuno sembra avere voglia di affrontarla. «Il futuro dell&#8217;Appennino è a rischio», continua Sacchetti. «La <strong>crisi della Saeco</strong> inizia a cavallo tra il 2010 e il 2011. All&#8217;epoca c&#8217;erano 1.400 dipendenti e questa zona era la <strong>Coffee Valley</strong>. Con l&#8217;avvento delle multinazionali il territorio si è impoverito, e non essendoci lavoro la gente si trasferisce».</p>
<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Sanac-Ballone-2.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/Sanac-Ballone-2-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-49147" /></a></figure>
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<h2 id="h-un-intera-valle-a-rischio-salvata-dal-presidio-delle-lavoratrici">Un’intera valle a rischio, salvata dal presidio delle lavoratrici</h2>
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<p>Attorno alla Saeco, nata dall’ingegno degli imprenditori <strong>Zaccanti</strong> e <strong>Zappella</strong>, oggi proprietari della Parmacotto, si muoveva l’economia di una vallata intera. L’80% dei lavoratori erano donne, che hanno avuto così la possibilità di non trasferirsi per poter lavorare, anche se i loro figli stanno progressivamente abbandonando la vallata. È il caso ad esempio di <strong>Franca Calabrese</strong>, delegata sindacale, che ha visto partire entrambi i suoi figli per andare a vivere a Bologna, dove si trovano a pagare anche 700 euro di affitto. In questi mesi ha lottato, con le altre sue compagne che si trovano in situazioni simili – alcune sono madri single – per non perdere la possibilità di lavorare vicino a casa, ma anche per mantenere in vita una zona dell&#8217;Appennino bolognese che altrimenti rischierebbe di morire.</p>
<p>Nel <strong>presidio</strong>, che ha superato i tre mesi, con tanto di fornelli da campo e una cambusa piena di rifornimenti oltre che uno spazio per dormire, c&#8217;è molto sconforto, e in parte <strong>senso di abbandono</strong>. Anche se tutto il paese si è mobilitato per sostenere le donne che lottano per difendere il loro posto di lavoro: dalla Protezione Civile alla Croce Rossa, fino alla squadra di calcio paesana e ai bambini delle scuole elementari, che hanno fatto arrivare i loro disegni di incoraggiamento.</p>
<p>Il sostegno è arrivato anche dal sindaco di Gaggio Montano e dagli amministratori locali che hanno seguito la vicenda, conclusasi con la <strong>cessione della società a un nuovo gruppo</strong>, il quale si è impegnato a confermare i posti di lavoro e metterà in atto politiche di rilancio dello stabilimento della SANAC. Si tratta di una società partecipata dalle aziende Tecnostamp e Minifaber, che si impegna all’assunzione di almeno 137 lavoratori entro i dodici mesi interessati dal ricorso alla cassa integrazione straordinaria per cessazione. Il numero salirà a 150 se Invitalia dovesse confermare il proprio ingresso. Previste anche un’integrazione giornaliera agli importi di cassa pari a 20 euro lordi e un sistema di <strong>incentivazioni all’esodo fino a 85.000 euro lordi</strong>. Il protocollo d&#8217;intesa è stato firmato in Regione venerdì.</p>
<p>«Siamo soddisfatti di questo accordo che è stato firmato in Regione», dice Sacchetti. «Consideriamo anche l&#8217;aver ottenuto gli incentivi all&#8217;esodo un ottimo risultato. Possiamo dire che <strong>per le lavoratrici, ma anche per tutta la zona, questa è stata una vittoria</strong>».</p>
<p>Ora il ciclo produttivo della SaGa Coffee può riprendere, ultimo baluardo rimasto in quella che una volta era la valle del caffè. &nbsp;</p>
<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli del <strong>reportage 109</strong>, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</a>&#8220;.</em></p>
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<p><em>Foto di Lara Mariani</em></p>


Il gioiello dell&#8217;ex Coffee Valley rischiava la chiusura e la delocalizzazione, ma il presidio delle lavoratrici ha cambiato la situazione. Analizziamo dinamiche e risultati con Primo Sacchetti, della CGIL.

Caffè scorretto: SaGa Coffee, possibile svolta per le 200 lavoratrici a rischio - Informazione senza filtro

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Aziende sull’orlo di una crisi di nervi

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