Senza etica la competizione è drogata

“L’etica in azienda? Troppe imprese ritengono che sia un lusso che non ci si può permettere, un impegno che risulta estraneo al business. Quindi molte se ne disinteressano e quella minoranza che se ne occupa spesso lo fa come operazione d’immagine: predispone un bel codice etico scritto con tutti i santi crismi su un bel […]

“L’etica in azienda? Troppe imprese ritengono che sia un lusso che non ci si può permettere, un impegno che risulta estraneo al business. Quindi molte se ne disinteressano e quella minoranza che se ne occupa spesso lo fa come operazione d’immagine: predispone un bel codice etico scritto con tutti i santi crismi su un bel documento, lo stampa su carta patinata e lo espone in sala riunioni e sul sito Internet. Poi si dimentica della sua esistenza”.

Claudio Antonelli ha appena pubblicato con Franco Angeli un libro dal titolo inequivocabile, Etica pane quotidiano. “Un vero e proprio manuale d’uso per chi desidera introdurre nel proprio agire pratico e professionale l’etica”, come l’ha definito l’Assessore alle politiche per il lavoro del comune di Milano Cristina Tajani.

Antonelli è vice presidente con delega all’etica di Confassociazioni e presidente di PIÙ, Professioni intellettuali unite, un’organizzazione che da sempre si batte per l’affermazione dell’etica nell’attività professionale.

Ma è proprio vero che l’etica sia qualcosa che non c’entra niente con il business, una pratica che, addirittura, fa solo perdere tempo e denaro?

“È esattamente il contrario. Quando una comunità, una catena di relazioni o una rete di business si comporta uniformemente in modo etico, s’instaura un meccanismo fiduciario che è la base del rapporto di collaborazione. Così il sistema non ha sprechi di costo nel controllo esasperato e nel recupero dei disservizi. Alla fine, risulta essere più efficiente e, quindi, più conveniente. Senza etica, viceversa, la competizione è drogata e l’equità nel rapporto concorrenziale basato sul merito risulta falsata, perché s’innesca un circuito vizioso in cui ognuno crede di fare il furbo, di fregare l’altro. Poiché però tutti fregano, tutti restano fregati.

In definitiva il sistema etico ha un vantaggio competitivo di efficienza rispetto ai sistemi non etici”.

 Se scrivere un codice etico non è sufficiente, mi sembra comunque che oggi, a differenza di qualche anno fa quando la cosa era di moda, non siano poi tante le aziende che si dedicano a quella attività.

“Effettivamente quando la questione era apparsa come una novità c’è stato un gran rullo di tamburi. Oggi invece le cose sono cambiate al punto che noi, come associazione PIÙ, abbiamo deciso di realizzare un’indagine per individuare chi aveva predisposto dei codici etici. All’inizio siamo rimasti molto soddisfatti perché parecchie imprese avevano pubblicato su Internet dei codici bellissimi. Peccato però che, quando le abbiamo contattate per capire come li avevano applicati, alla fine quasi nessuna ha voluto farsi intervistare. Semplicemente perché non avevano nulla da dire”.

Però qualche impresa che ha addirittura instaurato una figura di responsabile dell’etica mi risulta che ci sia.

“Sì, c’è una certa quota di multinazionali che prevede la funzione di Ethic manager, aziende che non hanno fatto una scelta solo d’immagine e che interpretano la sostenibilità dal punto di vista del valore del business, del contenimento dei costi e della crescita reputazionale. Queste strutture, però, sono soprattutto grandi gruppi con casa madre nel Nord Europa”.

Ma in Italia siamo più avanti o più indietro rispetto all’estero?

“Siamo più indietro. Probabilmente anche perché paghiamo un particolare retroterra culturale, un handicap rispetto ad altre nazioni in cui il senso dello Stato è sviluppato già fin nell’educazione di base. E ciò è un indicatore, perché avere il senso dello Stato vuol dire aver cominciato a capire che c’è un bene comune da salvaguardare”.

Passando dalle aziende ai professionisti, quando per loro si può parlare di etica?

Nelle professioni classiche ordinistiche, dagli avvocati, agli architetti, ai notai e così via, esistono codici deontologici che sono più dettagliati e specifici dei codici etici. Tuttavia anche lì spesso il controllo non c’è: certe strutture, tipo il collegio dei probiviri, intervengono solo su violazioni conclamate e su esposti, cercando poi di gestire i problemi senza tanta pubblicità e difendendo in modo corporativo la categoria contro l’interesse degli utenti. In ogni caso non si tratta di strutture proattive che aiutano ad essere etici, ma solo di interventi repressivi. Tanto più che se uno va a vedere i numeri le espulsioni sono rarissime”.

Diamo un’occhiata ora al mondo non profit che, per definizione, dovrebbe essere etico. È un settore in cui non ci sono problemi?

“Effettivamente in quell’area è molto forte l’approccio etico nel senso dell’Etica dell’intenzione: siccome lo faccio e siccome sono volontario va tutto bene. Ciò però non sempre corrisponde a un’Etica dell’efficacia. Ci sono infatti molte strutture brillanti, ma anche non poche che non sono efficienti, perché tra loro gioca una sorta di lassismo del “vogliamoci tutti bene”. Dall’esterno queste situazioni appaiono a volte quasi di sfruttamento, perché non basta che tu stia facendo fare al volontario una cosa buona se non tieni conto che, comunque, lo stai facendo lavorare. Così queste strutture valutano zero il costo di un volontario perché, di fatto, per loro è gratis. Per misurare tuttavia l’efficienza economica dell’organizzazione anche il volontario deve essere valorizzato a costi standard nei bilanci. Perché se è vero che non si tratta di “For profit” neanche si deve funzionare come organizzazioni “For loss”.

Comunque la gente sente molto il problema dell’etica verso la politica, molto meno nei confronti delle aziende.

 “È vero, spesso si tende a vedere il problema nella logica del business e, quindi, con maggior tolleranza, proprio come ciascuno guarda con tolleranza le proprie mancanze. Se c’è un’azienda che fabbrica armi neanche il sindacato è molto disposto a prendere posizione contro per non causare la perdita di posti di lavoro. È una contraddizione che esiste in molti: si chiude un occhio sulle armi ma si giudica moralmente riprovevole una donna che fa la prostituta.”

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