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L’Europa bussa alle porte del Governo per il debito pubblico sempre più pressante: l’idea dell’esecutivo è di vendere ai privati una quota imprecisata di aziende statali, senza un’ombra di politica industriale. Ecco che cosa si rischia sulla base dei precedenti
Passati gli entusiasmi elettorali per la vittoria del centrodestra e per l’approvazione della legge sull’autonomia, voluta da Matteo Salvini in cambio del via libera sul premierato, ora nelle mani del Governo restano le brutte cifre del mostruoso debito italiano. Avviene in un contesto politico europeo nel quale l’esecutivo Meloni rischia l’isolamento, dopo che sia Scholz che Tusk hanno sbarrato la strada ai populisti di destra dell’ECR guidati dalla Presidente del Consiglio italiana. Nel rifiutare il MES, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti lo ha detto con chiarezza: in queste condizioni politiche non possiamo approvarlo. Una sorta di vendetta.
D’altronde lui è vittima e carnefice delle politiche del suo Governo a favore degli evasori, come il concordato preventivo e i condoni che ogni giorno Matteo Salvini gli mette sul tavolo, contro ogni provvedimento fiscale che individui i tanti furbetti delle tasse (vedi l’inedita buffonata istituzionale del redditometro prima approvato per decreto dal viceministro Maurizio Leo e poi annullato via social da un video di Giorgia Meloni per ragioni puramente elettorali).
Giorgetti a questo punto dà l’idea di essere in pieno stato confusionale, stretto tra la morsa di un debito pubblico in continua crescita, un’assenza totale di un piano industriale, e una serie di provvedimenti che vanno in senso opposto al risanamento del buco nel bilancio statale. A peggiorare la situazione è arrivato con una gigantesca tegola il monito del Fondo Monetario Internazionale, che, udite udite, chiede al Governo una manovra da 60 miliardi in due anni e “suggerisce” di abbandonare tutte le scelte in deficit in tempi brevi.
In questo quadro desolante al Governo è venuta l’idea originale di fare cassa attraverso le privatizzazioni.
L’idea è di dismettere quote di imprese controllate dal Tesoro a imprese private. Nel mirino del Governo ci sono le Poste, l’ENI e RaiWay. Un progetto ibrido, perché non si specifica se si vuole cedere il pacchetto di maggioranza o quote di minoranza; un progetto senza una politica industriale, senza alcuna proiezione sui riflessi che in passato le privatizzazioni e le concessioni hanno avuto sull’occupazione – e senza un’idea chiara sulle liberalizzazioni, unica garanzia che le privatizzazioni funzionino.
Esempi negativi in tal senso ce ne sono tanti: dalle concessioni Autostrade al gruppo Benetton, che si sono concluse con la tragedia del ponte Morandi, alle concessioni sui balneari che il Governo si guarda bene da liberalizzare, nonostante i continui richiami dell’Europa; fino alla privatizzazione di Telecom, che negli anni ha continuato a cambiare proprietà con pesanti riflessi sull’occupazione.
Secondo i rapporti ufficiali, compreso quello della Corte dei conti, le privatizzazioni in Italia dal 1993 al 2010 sono state 93 e hanno portato nelle casse dello Stato 38 miliardi di euro; ma il debito pubblico era di 1.500 miliardi, contro quello attuale che tocca la vetta di 2.843. Stando a un rapporto della UIL, “i risultati delle privatizzazioni rivelarono che il trasferimento in mani private delle imprese pubbliche aveva generato effetti modesti sulla competitività, e che senza regolamentazione e mercati competitivi le compagnie, fissando qualsiasi prezzo e standard di servizio a loro discrezione, creavano monopoli e oligopoli”.
Non solo. “Dopo la privatizzazione risultava che i costi di produzione venivano ridotti a scapito dei lavoratori dipendenti, le cui condizioni lavorative peggiorano. Anche i rapporti di lavoro erano colpiti, con notevoli conseguenze negative sull’occupazione e le condizioni lavorative”.
C’è un’ultima considerazione da fare. Una politica di privatizzazioni senza un progetto industriale alternativo rischia, come è già avvenuto, di cedere ai privati asset strategici che sono il cuore dell’industria italiana. Anche questo è un modo per impoverire l’economia italiana nel lungo periodo. Se si facesse oggi una mappa del capitalismo italiano si scoprirebbe che settori importanti come le telecomunicazioni sono già nelle mani di gruppi stranieri. Alcuni danni sono già fatti, insomma. Sarebbe il caso di non farne altri, muovendosi a tentoni.
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