La tragedia di Rigopiano ha avuto un’eco in sordina sul piano legale: con la sentenza d’appello prevista per il 27 novembre, analizziamo le mancanze e le responsabilità dei coinvolti insieme a Massimiliano Gabrielli, avvocato della famiglia di una delle vittime
Ai giuristi manca il Kahneman degli economisti
Il diritto in Italia fatica a comunicare con le scoperte delle discipline neuroscientifiche, economiche e tecnologiche. Il rischio è quello di avere sempre più leggi, sempre meno efficaci.
Nel 2010 Pietro Rossi scrisse un libro dal titolo Fine del diritto?, molto stuzzicante per chi come me si interrogava sull’evoluzione, del diritto. Bastò però leggere la postfazione per rendersi conto che la domanda era solo provocatoria: la disincantata constatazione era che non si trattasse più del diritto “di una volta”.
Grazie. E per fortuna, aggiungo io. Il diritto è una scienza sociale, e dunque dovrebbe essere particolarmente sensibile a ciò che accade nel mondo reale.
In altri Paesi si è creata una corrente di pensiero orientata a discutere di realismo giuridico, ossia di come i fattori extragiuridici (tecnologia, società, progresso delle conoscenze filosofiche, economiche o psicologiche) possano impattare sul diritto. Tuttavia la nostra collocazione mediterranea ci ha precluso la partecipazione a simili discussioni, di casa nel nord dell’Europa e dell’America.
Amiamo una concezione più o meno pura del diritto, forse perché sentiamo il peso di essere il luogo in cui è nato quel diritto romano che dopo duemila anni ancora pensiamo possa essere un faro.
Ai giuristi manca il Kahneman degli economisti: qualcuno che non c’entra nulla con quel settore scientifico e che, piano piano, per decenni studia e raccoglie dati che all’improvviso deflagrano come un terremoto. E infatti l’economia neoclassica ne è uscita malconcia, mentre il mite psicologo sperimentale israeliano raccoglieva premi Nobel e finiva sui TED Talks, sfornando saggi poi divenuti autentici bestseller.
La fallibilità di un diritto caduto in disgrazia
Una visione semplicistica del mondo fa credere che possa esistere un legislatore che sa tutto quello che c’è da sapere, in grado trasformare questa sua immensa conoscenza in precetti che tutti dovrebbero osservare. D’altra parte, il mito del libero arbitrio e quello della volontà razionale sono duri a morire.
Non vorrei risultare irrispettoso, ma questo demiurgo è rappresentato dai nostri politici: le norme che produce non sono perle di saggezza basate su una visione del futuro, ma compromessi di battaglie parlamentari, con maggioranze temporanee e mutevoli che rendono il risultato finale tecnicamente deludente – specie negli ultimi tempi. Se poi alla base c’è pure una visione consensocentrica, il risultato non sarà mai illuminato, né illuminante.
Questo gli operatori del diritto lo sanno: basta chiedere a un commercialista (per non parlare solo di avvocati) che cosa ne pensa della qualità delle disposizioni tributarie.
Da noi la discussione sull’“orgia legislativa” – orgy of statute making, come la definirono gli americani a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta – non c’è mai stata, e quindi oggi moriamo sotto il peso di centinaia di migliaia di norme che nessun uomo – e quindi neanche nessun avvocato – può conoscere.
Il diritto è positivo, perché “posto”, cioè emanato dal legislatore di turno: al contempo però è anche imposto, perché è distante dal sentire comune, per un motivo non evidente: il senso comune non esiste più. Siamo infatti nell’era della società liquida, come ci ha insegnato Bauman; il legislatore lo ignora e continua a produrre leggi che funzionano come una fresa, ma solo in teoria, giacché in pratica non livellano affatto la società. Nel terzo millennio ci sono tante zone grigie dove il diritto non entra.
Se non si conoscono le scoperte delle neuroscienze del comportamento umano negli ultimi vent’anni o la psicologia negli ultimi cinquanta è impossibile immaginarlo. Così il diritto arranca nel cercare di raggiungere l’obiettivo della salute pubblica nell’epoca della pandemia, e neanche vede il traguardo della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Il diritto come tecnologia
Il diritto è una tecnologia creata per evitare l’autotutela, il deflagrare incontrollato di conflitti interpersonali o sociali. Nel corso di un paio di millenni si è evoluto notevolmente, diventando sempre più sofisticato. Qualcuno potrebbe pensare che considerarlo una tecnologia sia riduttivo, ma non farlo crea ben altri problemi, come ritenere che sia al di sopra degli aspetti o dei fenomeni sui quali opera. In questo senso il diritto non è umile, perché, probabilmente, salvo rare eccezioni, i giuristi non lo sono, mentre un po’ tutti immaginano il mondo giuridico in una sorta di empireo. Ma è davvero così?
Con un pizzico di umiltà intellettuale si potrebbe riconoscere che in un mondo complesso nessun elemento prevale su un altro: ogni nodo della rete fa il suo sporco lavoro, se è ben fatto; diversamente si scioglie e svanisce. Il nodo del diritto è bello saldo, impossibile da allentare, e per fortuna, direbbe la maggioranza; ma altrettanto potremmo dire per il mercato o per le tecnologie della società dell’informazione, dalle quali oggi siamo totalmente dipendenti.
In una rete non ci sono apici, vertici o gerarchie, e questo è vero anche per il diritto sotto diversi profili: il diritto è una tecnologia in concorrenza e coabitazione con altre tecnologie, tant’è vero che oggi abbiamo il processo telematico, la PEC, la firma digitale, che nascono dall’incrocio di domini diversi (diritto, processo, informatica e telematica).
L’evoluzione del diritto nella giurisprudenza normativa
Il legislatore unico del passato oggi è diventato diffuso: l’Europa verso l’alto e le autorità amministrative o indipendenti (AGCOM, ANAC. Garante privacy) a metà, mentre in basso troviamo le soft law (codici di condotta o autoregolamentazioni).
La corrente del Niño ha cambiato direzione e la giurisprudenza è diventata normativa (o almeno lo ha dichiarato nel 2009 nella sentenza 10741), un po’ come avviene nei Paesi anglosassoni: quindi si mette a fare concorrenza al legislatore, con grande scorno degli avvocati che, se pure se ne accorgono, non sanno o non vogliono dire al cliente che la certezza del diritto, oggi, non è più neppure una chimera, ma un ideale, un principio o un mito.
Chi è nato con l’idea di un diritto ex ante, già posto, bello, lindo, conoscibile e consultabile aprendo un semplice Codice civile o penale e non ha degli strumenti cognitivi, comunicativi e negoziali flessibili, come fa a gestire un diritto che in 20-30 anni diventa ex post?
Categorie monstre come la proprietà cominciano a soffrire sotto il peso di una società che inventa nuove soluzioni, generando fenomeni come la servitization: perché comprare qualcosa e quindi acquisirne la relativa proprietà, se si può ottenere lo stesso beneficio pagando un canone e con meno preoccupazioni? Non si tratta infatti solo di “usare” il bene come se fosse una semplice locazione, ma di godere dell’intero servizio che esso offre: quindi anche della manutenzione, oppure della sostituzione e dell’aggiornamento; il rischio obsolescenza non sta più in capo all’acquirente. Diversamente, in un mondo che cambia in fretta, si rischia di comprare roba già vecchia.
La valutazione dell’impatto delle leggi che scomunica l’Italia
Un diritto che, nel suo glorioso passato, può vantarsi di aver contribuito allo sviluppo della persona umana e di aver consentito all’odierna società livelli di democrazia mai visti in precedenza, dovrebbe oggi riconoscere che la scure dell’utilità marginale non fa sconti a nessuno: non si può più continuare a sfornare leggi senza chiedersi che impatto avranno sulla società; se saranno utili, inutili o addirittura pericolose, giacché aumentano l’entropia di un sistema già in equilibrio precario.
E così abbiamo partorito l’AIR e la VIR (Analisi e Valutazione Impatto Regolamentazione), trasformando però questo strumento di programmazione e supporto decisionale, nell’adattamento italiano, nell’ennesimo strato di vernice su una ruggine che ormai ha consumato tutto il metallo: così risulta infatti nelle Relazioni annuali sullo stato di applicazione dell’AIR.
Il rapporto Cepej ci vede da anni come fanalino di coda dell’Europa (nettamente sopra la media per numero di avvocati e processi pendenti). E forse pure con la lampadina fulminata.
Il terremoto dell’economia sta colpendo anche il diritto, e concetti enormi, apparentemente solidi e inscalfibili come quello di giurisdizione o di sovranità dello Stato, cominciano a vacillare. La parola nuova è cooperazione: se si vogliono scoprire e reprimere i reati della rete, ad esempio, si deve contare su un’azione sinergica e coordinata con Paesi esteri, e dove c’è la leva della responsabilità penale qualcosa funziona. Sempre che il criminale di turno non nasconda sé stesso o il suo hardware in uno Stato più o meno canaglia.
L’innovazione è un diritto più umano (e più leggero)
È ora che il diritto inizi a pensare in chiave strategica, altrimenti creeremo i superbatteri dell’illegalità.
Tutti parlano degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale come dell’avanguardia del diritto, quando questi sistemi non sono che macinatori di dati, dunque per definizione orientati al passato: la vera innovazione sarebbe recuperare una dimensione umana al diritto, che sembra sempre più astratto e burocratico. Anche chi si occupa di management e leadership sa che con la sola tecnologia non si va lontano. Il diritto invece pecca di una visione autosufficiente che sembra bloccarne lo sviluppo.
In una realtà in cui tutto è volatile, incerto, complesso e ambiguo non si può avere una soluzione unica e autonoma per tutti i problemi. Per sviluppare la pianta più forte e più sana si procede con la potatura: se non iniziamo a decidere che cosa lasciare e che cosa tagliare, invece di un giardino con un minimo di ordine, vivremo in una giungla.
Anche questa, a suo modo, è innovazione.
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