Il Veneto lavora, ma a che prezzo? E chi resta indietro nella corsa della locomotiva d’Italia? L’analisi sulla situazione della Regione con le testimonianze di Tiziana Basso (segretaria generale CGIL Veneto) e Cristian Rosteghin (Alleanza contro la povertà).
Dignità del lavoro: salario minimo comune denominatore
Una certa letteratura economica collegava l’adozione del salario minimo a un calo dei posti di lavoro, ma studi più recenti, compresi quelli del premio Nobel per l’economia David Card, testimoniano che non è così. Ecco i motivi.
In Italia si torna periodicamente a discutere dell’introduzione di un minimo salariale: di recente il dibattito è stato riacceso dal presidente dell’INPS Tridico e dai segretari di partito Conte e Letta.
Al dibattito politico si affianca un vivace dibattito accademico, che quest’anno ha richiamato l’attenzione del premio Nobel per l’economia. David Card, infatti, è stato premiato per i suoi contributi empirici all’economia del lavoro, fra cui uno studio sugli effetti dell’innalzamento del minimo salariale in New Jersey.
Queste ricerche tentano di identificare gli effetti del salario minimo e sono una vera e propria “rivoluzione della credibilità”: attraverso una migliore struttura delle ricerche e ipotesi più solide, questi studi hanno ottenuto una maggiore credibilità in ambito accademico e nel policy making.
I risultati sono sorprendentemente in contrasto con la teoria tradizionale che il minimo salariale comporti costi maggiori per le imprese, e quindi minori assunzioni. Al contrario, la sua introduzione potrebbe portare a un aumento dei salari senza un significativo costo in termini occupazionali.
Salario minimo, favorevoli o contrari?
Quali sono le motivazioni dei sostenitori, e quali quelle dei detrattori del salario minimo?
Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da alcune categorie più svantaggiate – donne, giovani e immigrati – che storicamente si è cercato di tutelare attraverso l’elevata copertura della contrattazione collettiva. Da un punto di vista economico, il salario minimo legale e il minimo retributivo fissato da un contratto collettivo sono equivalenti.
Tuttavia negli ultimi anni sono proliferati i contratti “pirata” (contratti firmati da sindacati poco rappresentativi), le imprese hanno talvolta applicato accordi a loro più vantaggiosi, e alcuni rapporti di lavoro dipendente sono stati trasformati in falsi autonomi. Dunque, alcuni lavoratori e lavoratrici non trovano tutela nei contratti collettivi.
A loro volta le parti sindacali e datoriali hanno espresso alcune criticità rispetto alle diverse proposte di salario minimo legale, temendo un ulteriore indebolimento della contrattazione collettiva con la fuoriuscita di molte imprese, soprattutto piccole e micro, attratte da un minimo legale inferiore a quello dei contratti collettivi. Come se questi due strumenti fossero alternativi e non complementari.
Altro che ridurre i posti di lavoro: il salario minimo li trasforma in meglio
Il salario minimo si propone come una misura di contrasto alla povertà rivolta ai lavoratori e alle lavoratrici che non ricevono un’adeguata remunerazione. Tuttavia, potrebbe avere l’effetto collaterale di aumentare il costo del lavoro per le imprese, riducendo quindi l’occupazione.
La letteratura economica si è concentrata a studiarne le conseguenze in termini di occupazione sui lavoratori e le lavoratrici a basso reddito, per capire se e quanto ne possano beneficiare. Tuttavia, è bene evidenziare che le finalità redistributive non sono l’obiettivo primario del salario minimo, che esclude chi non lavora.
Mentre prima degli anni Novanta gli studi empirici sembravano confermare la tesi dei classici modelli economici, secondo cui un innalzamento del salario minimo determina una decrescita dell’occupazione, con l’introduzione di metodi causali da parte di Card e altri economisti l’opinione è radicalmente cambiata.
Anche gli studi più recenti non evidenziano un impatto significativo sull’occupazione. Focalizzandosi sempre sugli Stati Uniti, un gruppo di ricercatori mostra come la distribuzione dei salari è cambiata a seguito dell’introduzione del salario minimo. In particolare, i ricercatori hanno evidenziato come i posti di lavoro al di sotto della soglia minima sono diminuiti, mentre sono aumentati quelli al di sopra di questa soglia, compensando del tutto la prima perdita. Sembrerebbe dunque che non siano stati “distrutti”, ma trasformati in posti di lavoro migliori.
Il salario minimo è salutare: che cosa dicono gli studi
È interessante comprendere le motivazioni di tale dinamica. In primo luogo, le imprese potrebbero coprire questo costo aggiuntivo con un parziale aumento dei prezzi, senza subire una risposta negativa da parte della domanda: di fatto è una redistribuzione dall’intera comunità – che vedrebbe i prezzi rialzati – ai lavoratori e alle lavoratrici a basso reddito, che godrebbero di maggiori salari.
Un’altra spiegazione teorica è quella relativa al monopsonio: le imprese godono di sufficiente potere nei confronti dei lavoratori da poter pagare loro salari inferiori. Le imprese, quindi, scelgono di massimizzare i loro profitti riducendo i salari, al costo di limitare l’occupazione e quindi la quantità di beni o servizi prodotti. In questo caso, un salario minimo avrebbe un effetto positivo sull’occupazione: le imprese non avrebbero più l’incentivo di limitare la domanda di lavoro, poiché così facendo incorrerebbero solo in costi (minore produzione) e non in benefici (il salario è fissato al minimo).
Infine, è anche da considerarsi l’impatto benefico della politica sulla produttività: la letteratura ha infatti dimostrato come ci sia un effetto positivo su questa variabile economica, anche in seguito a una riallocazione dei lavoratori e delle lavoratrici verso le imprese più produttive.
Infine, la letteratura ha mostrato effetti positivi anche sulla salute dei bambini o il tasso di suicidi.
Il salario minimo nel resto d’Europa
Il tema del minimo retributivo è al centro del dibattito anche nelle istituzioni europee. A fine 2020 la Commissione Europea ha promosso una proposta di direttiva per un salario minimo adeguato. L’obiettivo è quello di assicurare che i minimi retributivi – fissati attraverso la contrattazione collettiva e/o per legge – garantiscano un tenore di vita dignitoso a tutti i lavoratori e lavoratrici, nel rispetto dell’autonomia degli Stati membri in materia salariale.
L’Italia è uno dei sei Paesi europei che non prevedono un salario minimo legale universale, insieme a Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria e Cipro.
La Germania lo ha adottato per ultima nel 2015: analizzarne gli effetti sul mercato del lavoro tedesco rappresenta un’utile occasione di riflessione per il dibattito italiano. Il salario minimo è stato introdotto in risposta alla diminuzione della copertura della contrattazione collettiva (pari al 56% del 2015) e all’aumento del numero di lavoratori e lavoratrici a basso salario, trovando anche il sostegno dei sindacati. Il valore del salario minimo viene rinegoziato ogni due anni da un’apposita commissione, sul modello della Low Pay Commission inglese introdotta nel 1999, ed è pari a 9,50 € all’ora a gennaio 2021. La misura ha toccato circa 4 milioni di persone, pari al 10-15% dei lavoratori a seconda delle stime, che guadagnavano meno del livello previsto prima della riforma.
Le analisi empiriche condotte finora mostrano un aumento significativo dei salari orari dei lavoratori a basso salario e un incremento più limitato di quelli mensili a causa della concomitante riduzione delle ore di lavoro, operata anche attraverso i contratti collettivi. La riforma ha avuto complessivamente un effetto quasi nullo sull’occupazione, e secondo alcuni economisti ha incentivato i lavoratori e le lavoratrici a muoversi verso imprese più produttive, con salari più elevati. Inoltre, il salario minimo legale non si è sostituito alla contrattazione collettiva, né la ha indebolita, poiché ne hanno beneficiato soprattutto i lavoratori e le lavoratrici non coperti dai contratti collettivi.
Nel complesso l’esperienza tedesca risulta positiva, e molte delle storiche obiezioni al salario minimo non trovano riscontro nelle evidenze. Il contesto italiano è molto simile a quello che ha portato la Germania a introdurre il minimo legale, con un numero sempre maggiore di lavoratori e lavoratrici non tutelati dalla contrattazione collettiva. Tener conto dei punti di forza e dei limiti della riforma tedesca, come la difficoltà a garantire l’effettivo rispetto del minimo legale, è utile per disegnare una misura efficace anche in Italia.
Come evidenziato da Boeri, i veri interrogativi non riguardano l’introduzione di un salario minimo, ma il livello a cui viene fissato e le misure di effettiva applicazione. Riteniamo che i benefici di un salario minimo in Italia superino i costi, purché la misura sia disegnata tenendo in considerazione le evidenze empiriche degli altri Paesi.
La discussione dovrebbe ora iniziare a incentrarsi su altri aspetti, a partire da eventuali differenze regionali nello strumento, o sull’eventualità di declinarlo diversamente in base alle caratteristiche demografiche del lavoratore.
Ha collaborato all’articolo:
Sara Rabino – Nata a Torino nel 1996 e cresciuta ad Asti. Ha conseguito sia la laurea triennale che quella magistrale all’Università Bocconi, con uno scambio all’University College of London. Dopo un periodo di ricerca al centro di ricerca IGIER (Milano) e al CNRS (Parigi) in economia del lavoro e economia della salute, ha iniziato un PhD in Economics all’Università di Zurigo. Senior fellow del think-tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.
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