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Numero 79 &#8211; Stabat Matera

Numero 79 - Stabat Matera

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<p>Il lavoro come lo vedono i giovani, e come gli altri non l&#8217;hanno visto mai: guardiamo in faccia la nuova generazione per chiedergli che cosa vuole fare da grande &#8211; e che cosa vuole fare ora.</p>


Numero 113 &#8211; Sentirsi giovani

Il lavoro come lo vedono i giovani, e come gli altri non l&#8217;hanno visto mai: guardiamo in faccia la nuova generazione per chiedergli che cosa vuole fare da grande &#8211; e che cosa vuole fare ora.

Numero 113 - Sentirsi giovani

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Numero 07 &#8211; Connessioni e collaborazioni

Numero 07 - Connessioni e collaborazioni

Numero 07 - Connessioni e collaborazioni - Informazione senza filtro

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Numero 49 &#8211; Le dimensioni contano?

Numero 49 - Le dimensioni contano?

Numero 49 - Le dimensioni contano? - Informazione senza filtro

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<p>Perché stiamo male quando lavoriamo? Scaviamo nelle origini del disagio che si prova nel lavoro, nei lavori, nei nostri e in quelli di tutti: gli infortuni più diffusi sono quelli mentali.</p>


Numero 115 &#8211; Infortuni mentali

Perché stiamo male quando lavoriamo? Scaviamo nelle origini del disagio che si prova nel lavoro, nei lavori, nei nostri e in quelli di tutti: gli infortuni più diffusi sono quelli mentali.

Numero 115 - Infortuni mentali

Numero 115 - Infortuni mentali - Informazione senza filtro

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<p>Con la nuova legge di bilancio il Governo Meloni trova nella riforma del Reddito di Cittadinanza il megafono di cartone con cui confermare ai suoi elettori il rispetto delle promesse elettorali.</p>



<p>Considerando la scarsa copertura finanziaria, sarebbe stato sicuramente molto più difficile impegnarsi su terreni più strategici ma anche più controversi come il cuneo fiscale, (altri) incentivi alle aziende (non a caso Bonomi è su tutte le furie), le tantissime crisi aziendali i cui tavoli di lavoro sono aperti da più di due anni, incentivi a chi assume, una supervisione più accurata delle cartelle esattoriali che stanno strozzando liberi professionisti e piccole attività. E, dunque, niente di meglio e al tempo stesso di facile presa che abolire la misura più chiacchierata degli ultimi anni dando un colpo al cerchio (l&#8217;opinione pubblica alimentata da articoli scandalistici sui giornali) e uno alla botte (imprenditori e loro associazioni di categoria che hanno trovato nel Reddito di Cittadinanza il miglior capro espiatorio a una mancanza di visione a medio termine e di programmazione: in molti ricorderanno albergatori e ristoratori che a maggio &#8211; giugno, alle porte della stagione estiva, si lamentavano di non trovare personale).</p>



<h2>I numeri e le lettere del RdC</h2>



<p>La nuova Ministra del Lavoro <strong>Elvira Calderone</strong>, prima fra tutti, ha ben chiaro che l&#8217;abolizione del Reddito di Cittadinanza sarà una bomba sociale che &#8211; nonostante i luoghi comuni spesso non verificati che gli sono stati cuciti attorno &#8211; colpirà fasce molto deboli di popolazione. La Ministra ha puntato i piedi, ottenendo una dilazione per tutto il 2023 rispetto alla chiusura immediata proposta dal Governo.</p>



<p><strong>Quanti sono</strong> dunque i percettori di reddito? <strong>L&#8217;unica fonte attendibile è l&#8217;INPS</strong> e <a href="https://www.inps.it/news/osservatorio-reddito-e-pensione-di-cittadinanza-i-dati-di-agosto">gli ultimi dati, relativi ai primi otto mesi dell&#8217;anno</a>, parlano di 1.063.164 nuclei familiari per un totale di 3.386.231 persone.</p>



<p><strong>Chi sono</strong> i percettori di reddito? Cittadini con più di 18 anni che risultano disoccupati e che hanno un reddito inferiore a 9360 euro l&#8217;anno . L&#8217;identikit disegnato da ANPAL per metà riguarda persone dichiarate &#8220;non occupabili&#8221; perché senza alcuna competenza, con problemi di salute o disoccupati da più di tre anni. Altri hanno un&#8217;età per la quale il mercato del lavoro tende a escluderli. </p>



<p>Chi invece ha più o meno felicemente sottoscritto un &#8220;patto per il lavoro&#8221;, siglato con contratti prevalentemente a tempo determinato, rientra nell&#8217;<strong>oltre milione e mezzo di persone</strong>. Numeri ben diversi da quelli riportati dai delatori del RdC che affermano senza se e senza ma il flop del sussidio, soprattutto se parla solo in virtù delle testimonianze di certi selezionati imprenditori ospitati sui giornali o se messi a confronto con i risultati degli inossidabili Centri per l&#8217;Impiego recentemente rifinanziati dal Governo Draghi e che da sempre non intermediano nemmeno il 2% della domanda nazionale, ma che sono sempre lì.</p>



<p><strong>Cosa vuol dire &#8220;occupabili&#8221;?</strong> Sono i beneficiari che potevano firmare il “patto per il lavoro”, circa un terzo dei percettori totali. Di questi, 173 mila un lavoro già ce l’hanno, ma hanno una retribuzione talmente misera che il reddito permette loro di sopravvivere con dignità.</p>



<h2 id="h-cosa-prevede-il-nuovo-rdc">Cosa prevede il nuovo RdC</h2>



<p>A grande richiesta (in primis delle associazioni di categoria), ecco dunque la riforma che prevede una <strong>riduzione dell&#8217;erogazione del sussidio</strong> che passa dai 18 mesi rinnovabili (come è stato fino a oggi), a 7/8 mensilità. Sono esclusi dalla riforma tutti coloro che hanno a carico minori, disabili e over 60. I poveri che possono lavorare rimarranno poveri se non troveranno un lavoro, anche se la loro condizione di inoccupabili li rende per l&#8217;appunto, e non a caso, tali.</p>



<p>A questi, vengono offerti corsi di formazione e di riqualificazione professionale che &#8211; scusate il cinismo &#8211; saranno una grande opportunità per le solite agenzie di formazione legate a doppio filo al sistema della PA e delle agenzie private <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/navigator-politica-privati/">che hanno già iniziato a fare pressing per garantirsi il gustoso boccone</a>.</p>



<p>Come conferma anche <strong>Marco Bentivogli</strong> su Repubblica di ieri, queste sono grandi opportunità per le società di consulenza e, personalmente, aggiungo anche che poco incideranno sulla professionalità di chi sarà sempre una seconda scelta rispetto a chi lo stesso lavoro lo esercita da anni o rispetto a giovani, carini e disoccupati.</p>



<p>Se invece parliamo di figure di bassissimo livello, c&#8217;è davvero bisogno di formazione? O basterebbe la volontà di Comuni e istituzioni per trovare uno spazio di lavoro all&#8217;interno della comunità?</p>



<p>Il 1 gennaio 2024 il Reddito di Cittadinanza, che si attesta ad una cifra media di 570 euro lordi, verrà abolito definitivamente e sostituito da &#8220;qualcosa&#8221; su cui il nuovo Governo <em>lavorerà</em>. Ma se, come ritiene qualcuno, quei 570 euro sono &#8220;competitor&#8221; sufficienti a far rifiutare proposte, quel &#8220;qualcosa che verrà&#8221; sarà bene che preveda anche maggiori controlli alle imprese e che vada a braccetto anche con una revisione dei Contratti Collettivi Nazionali per riaprire il dibattito sul salario minimo che il Governo precedente ha derubricato con grande facilità.</p>



<p>Alcuni di quei Contratti Collettivi, che Brunetta ritiene &#8220;garanti di salari adeguati&#8221;, in alcuni casi non raggiungono i 6 euro l&#8217;ora di retribuzione come nel caso dei portieri di prestigiose università e di palazzi della Pubblica Amministrazione.</p>



<p></p>



<h2 id="h-ieri-delatori-oggi-sostenitori">Ieri delatori, oggi sostenitori</h2>



<p>Sarebbe da studiare da un punto di vista fenomenologico (oltre che di onestà intellettuale della nostra informazione di massa) l&#8217;atteggiamento dei giornali nei confronti del Reddito di Cittadinanza che fino a ieri ospitavano testimonianze ben selezionate fra i politici locali e gli inserzionisti più fedeli a supporto della leggenda secondo cui il Reddito di cittadinanza avesse generato divanisti e fannulloni (sconfessato anche da Tito Boeri). Oggi, quegli stessi giornali strillano la necessità di conservarlo e migliorarlo, gli stessi che hanno nascosto i numeri chiari e ufficiali disponibili sui canali dell&#8217;INPS e della Corte dei Conti e confermati da <a href="https://www.ilmattino.it/primopiano/vaticano/reddito_cittadinanza_caritas_chiesa_poveri_ultime_notizie-6994861.html">una ricerca della Caritas</a> che ha mappato il milione di poveri che  sopravvive solo grazie al sussidio. </p>



<p>A volte basta un cambio di Governo per far cambiare opinione sullo stesso argomento.</p>



<p></p>



<h2 id="h-viva-l-umiliazione">Viva l&#8217;umiliazione</h2>



<p>I mesi che abbiamo davanti, in vista di una nuova crisi ancora non del tutto espressa nella sua forma peggiore, non lasciano presagire grandi speranze per la tutela dei lavoratori neanche sotto questa legislatura.</p>



<p>È di ieri la dichiarazione infelice del titolare del Ministero dell&#8217;Istruzione (e per non farci mancare nulla anche del Merito): &#8220;<em>Soltanto lavorando per la collettività, umiliandosi anche, si prende la responsabilità dei propri atti</em>.&nbsp;<em>Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di fronte ai propri compagni. Da lì nasce il riscatto.</em>&#8220;</p>



<p>Una perla di saggezza che illumina la strada del lunghissimo tunnel della comunicazione in cui si stanno infilando uno dietro l&#8217;altro i Ministri nei primissimi giorni dalla nomina.</p>



<p>A peggiorare le cose, la proposta del reinserimento dei voucher dell&#8217;era Renziana che diedero la stoccata finale alla regolarità nei rapporti di lavoro in mestieri come braccianti, colf, badanti, lavoratori agricoli e del turismo dove il nero è all&#8217;ordine del giorno. Chi pensò la formula dei voucher fu così ingenuo (ma a pensar male a volte si indovina) da permettere la registrazione del voucher fino a 24 ore dopo la prestazione d&#8217;opera. </p>



<p>Il successo dei voucher si spiega da solo: nel 2008 i&nbsp;<em>voucher</em>&nbsp;venduti erano 536 mila mentre nel 2016 avevano raggiunto i 134 milioni.</p>



<blockquote class="wp-block-quote">
<p><em>Il governo pare voler ripristinare questo&nbsp;far west&nbsp;per venire incontro alle imprese del turismo (già aiutate dalla possibilità per gli stagionali di mantenere il Rdc) e dell’agricoltura, tipo Coldiretti, che da anni lamentano una fuga dei braccianti che i dati Inps smentiscono. Poco importa, poi, che lo stop del 2017 ai&nbsp;voucher&nbsp;non abbia fatto aumentare il lavoro nero e che i settori coinvolti siano quelli con la quota più alta di lavoratori con reddito inferiore ai 10 mila euro lordi annui.</em></p>
<cite>Carlo di Foggia, Il Fatto Quotidiano &#8211; 24/11/2022</cite></blockquote>



<h2 id="h-oltre-il-rdc-bonomi-manca-la-visione">Oltre il RdC. Bonomi: &#8220;Manca la visione&#8221;</h2>



<p>Fra i camaleonti dell&#8217;opinione, anche il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che da sempre osteggia il Reddito di Cittadinanza e che qualche mese fa aveva rilasciato dichiarazioni al vetriolo a fronte di numeri totalmente inventati. <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/bonomi-da-i-numeri-sul-reddito-di-cittadinanza-ma-sono-tutti-incorretti/">Ne avevamo parlato qui.</a></p>



<p>In un&#8217;intervista a La Stampa del 22 novembre, è evidente che questa legge di bilancio non gli sia andata giù, a partire dalla riforma del cuneo fiscale (sul tema, a dire il vero, Bonomi non ha tutti i torti). Il Presidente degli Industriali si aspettava un aiuto di Stato più consistente. All&#8217;ironia del giornalista Marco Zatterin: &#8220;deduco che siamo lontani dal modello di riforma fiscale dei suoi sogni&#8221;, Bonomi risponde: &#8220;[&#8230;] se riduci le tasse agli autonomi, il lavoratore che ha la stessa retribuzione paga tre volte tanto&#8221;. </p>



<p>Un&#8217;affermazione che ancora una volta tradisce l&#8217;insofferenza che Bonomi ha per i dati, preferendo affidarsi a informazioni di cui detiene il copyright.</p>



<p>La chiusura è disarmante: &#8220;Alcuni dipendenti iniziano a dire alle imprese che preferiscono passare alla partita IVA perchè così risparmiano sulle tasse&#8221;. </p>



<p>Mi permetto di far notare, e senza alcun timore di essere smentito, che difficilmente un dipendente d&#8217;azienda si sogna di passare a partita IVA considerando le aliquote capestro che il nostro Paese destina ai liberi professionisti e che &#8211; semmai &#8211; sono le aziende che sempre più spesso &#8220;suggeriscono&#8221; ad alcune figure professionali di passare a partita IVA &#8220;se vogliono dare continuità al loro lavoro in azienda&#8221;.</p>



<p>Vedi alla voce: &#8220;sarebbe meglio ti dimettessi, ma ti garantiamo un contratto come consulente esterno&#8221; tanto in voga negli ultimi anni fra le imprese più all&#8217;avanguardia nella gestione del personale.</p>



<p>&#8220;Manca una visione&#8221;, continua Bonomi in questa intervista &#8211; &#8220;viviamo drammi industriali a cui vorremmo dare risposta e tutti cominciano con la &#8220;I&#8221;: Ita, Ilva, Isab, Intel&#8221;.<br>No Presidente, i drammi aziendali non iniziano solo con la &#8220;I&#8221;. Si chiamano anche Electrolux, Augustin Breda, Fimer, Flextronics, Speedline, GKN, Pernigotti e altri 60 tavoli di crisi aperti per i motivi più svariati, che il <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/osservatorio-crisi-aziendali-vi-teniamo-docchio/">nostro giornale monitora periodicamente</a>. </p>



<p>Dalla concorrenza sleale ai fondi di investimento che chiudono senza soluzione di continuità anche quando le produzioni sono in attivo, in molti di questi tavoli Confindustria è coinvolta direttamente ma le domande sono ancora in attesa di una risposta.</p>



<p>Confidiamo che questo Governo, che ama i toni drastici della concretezza, sappia esprimersi al suo meglio in quelle sedi, iniziando a tutelare davvero la produzione interna, gli imprenditori attratti dalle sirene di costi più vantaggiosi in Paesi confinanti e ponga un freno alle acquisizioni leggere di fondi di investimento e pirati alla riscossa senza piani industriali.</p>



<p>Smarcato questo, sono certo che migliaia di lavoratori saranno ben felici di non dover ricorrere ad alcun sussidio perché il lavoro avrà finalmente la dignità che si merita. Anche in questo Paese.</p>



<p></p>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/?s=rdc" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Reddito di Cittadinanza</a></strong>.</em></p>



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<div class="is-layout-flow wp-block-group"><div class="wp-block-group__inner-container">
<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 116, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-116/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Cavalli di battaglia</strong></a>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Sua Sanità PNRR</strong></a>&#8220;.</em></p>



<hr class="wp-block-separator has-text-color has-black-color has-css-opacity has-black-background-color has-background is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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Reddito di cittadinanza: non basta cambiare le parole per rendere &#8220;occupabili&#8221; i &#8220;disoccupati&#8221;


<p>Non stiamo bene, e va sempre peggio.</p>



<p>In Italia, durante il lockdown, nove persone su dieci hanno sofferto di stress psicologico e una persona su due ha accusato sintomi depressivi. Il 2021 ha segnato un <strong>peggioramento negli indici di salute mentale</strong>, in particolare tra giovani e donne.</p>



<p>Non si tratta di percezione, ma di dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità, dall’ISTAT e da IPSOS. Tutti indizi che puntano verso la presenza di un malessere generale avvertito, ma ancora privo di un nome e di contorni definiti: <strong>sappiamo che è un male, ma non sappiamo ancora di soffrirne</strong>. Una tendenza che però potrebbe essere in via di cambiamento.</p>



<p>Abbiamo sentito in esclusiva per <em>SenzaFiltro</em> <strong>Stefania Fregosi</strong>, Healthcare Head IPSOS, per interpretare i dati che arrivano dal combinato disposto dei rapporti ufficiali.</p>



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<figure class="alignleft size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/foto-Stefania-Fregosi-002.jpg"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/foto-Stefania-Fregosi-002.jpg" alt="" class="wp-image-52729" width="356" height="474" /></a><figcaption class="wp-element-caption"> <strong>Stefania Fregosi</strong>, Healthcare Head IPSOS</figcaption></figure></div>


<p><strong>In base ai risultati globali di questo report, che cosa si evince sullo stato della salute mentale nel nostro Paese?</strong></p>



<p>In generale assistiamo a un processo di crescente attenzione e sensibilità al concetto di salute mentale. Gli italiani pensano sempre più spesso alla propria salute mentale, mostrando un trend crescente anche solo rispetto ad un anno fa. I target più sensibili a questo tema – perché i più colpiti da stress/ ansia/depressione – sono le donne e i giovani sotto i 35 anni. Nonostante l’opinione pubblica italiana sostenga che il benessere mentale e fisico siano ugualmente importanti, gli italiani pensano che il sistema sanitario oggi ancora non rifletta questa visione e non fornisca un egual trattamento, concentrandosi maggiormente sul benessere fisico.</p>



<p><strong>Dopo la pandemia quali sono le esperienze vissute dagli intervistati, specialmente nel corso dell’ultimo anno?</strong></p>



<p>Gli effetti dello stress sono i problemi di benessere mentale segnalati più frequentemente: un terzo degli italiani dichiara di avere sofferto di stress molte volte durante l’ultimo anno, fino a condizionare la propria vita quotidiana. Sempre un terzo degli italiani afferma che lo stress è stato tale da avere la sensazione di non riuscire più a gestire la situazione. Il 20% è stato depresso al punto da sentirsi triste o senza speranza tutti i giorni o più volte alla settimana. Infine, il 9% dichiara di avere pensato più volte al suicidio o all’autolesionismo, durante l’ultimo anno. Sono dati inquietanti che ci devono fare riflettere. Mettono in evidenza quanto il tema della salute mentale debba essere affrontato seriamente dal SSN e dalle istituzioni: ci sono forti sono attese da parte della popolazione.</p>



<p><strong>Su quale fascia d’età occorrerebbe prestare maggiore attenzione nell’ambito della salute mentale, a suo parere?</strong></p>



<p>Il benessere mentale è un tema da non sottovalutare soprattutto per le giovani generazioni, che sono state le più colpite dalla pandemia e che oggi risultano bisognose di comprensione, attenzione e rete assistenziale adeguata per rispondere al meglio al loro disagio. Inoltre, occorre lavorare al fine abbattere ulteriormente lo stigma e promuovere un concetto più ampio di benessere mentale come benessere emotivo, psicologico e sociale.</p>



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<h2 id="h-il-benessere-mentale-alla-prova-della-pandemia">Il benessere mentale alla prova della pandemia</h2>



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<p>Ma che cosa significa<strong> benessere mentale</strong>?</p>



<p>Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la salute mentale è parte integrante del benessere, e lo si deduce proprio dalla definizione di salute: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità”.</p>



<p>La stessa OMS descrive quella mentale come una <strong>componente essenziale della salute</strong>, definendola come lo stato di benessere che consente di realizzare le proprie abilità, di sostenere i livelli normali di stress della vita quotidiana per lavorare in modo produttivo e fornire un contributo alla propria comunità.</p>



<p>I numeri raccontano molto: l’Istituto Superiore della Sanità evidenzia come in Italia, durante il lockdown della primavera 2020, l’<strong>88,6% </strong>delle persone sopra i 16 anni ha sofferto di <strong>stress psicologico</strong>, e quasi il <strong>50%</strong> di <strong>sintomi di depressione</strong> <em>(Fonte: survey condotta su 5.008 persone attraverso il portale del progetto #PRESTOinsieme, nato da un’iniziativa congiunta ISS, Università di Padova e Prochild onlus, con il supporto tecnico della Zeta research Srl)</em>.</p>



<p>L’ISTAT il 26 luglio 2018 aveva pubblicato il report<em> La salute mentale nelle varie fasi della vita</em>, con i dati riferiti al triennio 2015-2017. Per certi aspetti una vita fa, considerando gli ultimi due anni che abbiamo vissuto. Esiste però il <strong>rapporto</strong> <strong>BES 2021</strong> (Benessere Equo e Sostenibile) che definisce proprio gli ultimi due anni appena trascorsi in termini di salute mentale: “I due anni della pandemia hanno messo a dura prova il benessere psicologico della popolazione. In particolare, nel 2021 si osserva un <strong>peggioramento</strong> nelle condizioni di <strong>benessere mentale</strong> specialmente tra i <strong>ragazzi di 14-19 anni</strong>.<em> </em>Così l’indice di salute mentale, pur nei limiti della sua misurazione sintetica, assume un rilievo particolare nei due anni di pandemia, per tentare di monitorare gli effetti sulla componente psicologica ed emotiva, maggiormente sottoposta ai considerevoli cambiamenti nella vita sociale e relazione, avvenuta in tale periodo”.</p>



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<h2 id="h-italia-nel-2021-indicatori-della-salute-mentale-in-calo-tra-i-14-e-i-19-anni">Italia, nel 2021 indicatori della salute mentale in calo tra i 14 e i 19 anni</h2>



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<p>Vediamo nel dettaglio i dati del rapporto.</p>



<p>L’<strong>indice di salute mentale </strong>fornisce una misura del disagio psicologico degli individui e comprende stati correlati all’ansia e alla depressione, basandosi sull’aggregazione dei punteggi totalizzati da ciascun individuo nel rispondere a cinque domande specifiche (Fonte: BES 2021).</p>



<p>Nel <strong>2021</strong> l’indice assume in <strong>Italia</strong> il valore di <strong>68,4</strong>, e risulta nel complesso stabile rispetto al 2019 e al 2020 (quando era rispettivamente pari a 68,4 e 68,8). Decresce invece tra le <strong>donne</strong>, mettendo in evidenza un <strong>peggioramento</strong> nella salute mentale, mentre aumenta leggermente tra gli uomini. Le condizioni di benessere mentale generalmente peggiorano al crescere dell’età, ma nel 2021 le differenze tra i più giovani e i più anziani diminuiscono, e nel 2021 si registra un <strong>deterioramento del benessere psicologico tra i ragazzi</strong>.</p>



<p>Così, dopo un miglioramento registrato nel 2020, nel secondo anno di pandemia l’indice di salute mentale cala decisamente nella fascia di 14-19 anni di entrambi i sessi, passando a un punteggio di 66,6 per le ragazze (-4,6 punti rispetto al 2020) e 74,1 per i ragazzi (-2,4 punti rispetto al 2020). Tra le donne si osserva un peggioramento della salute mentale anche nella classe di età 20-24 anni (-3,4 rispetto al 2019), mentre nelle altre si osserva una sostanziale stabilità.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine1.png"><img width="579" height="304" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine1.png" alt="" class="wp-image-52597" /></a></figure></div>


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<h2 id="h-i-paesi-che-pensano-di-piu-e-di-meno-alla-salute-mentale-secondo-ipsos-la-situazione-dell-italia">I Paesi che pensano di più (e di meno) alla salute mentale secondo IPSOS. La situazione dell’Italia</h2>



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<p>Lo scorso 10 ottobre IPSOS ha pubblicato il suo report <em>World mental health day 2022</em> in un panel di intervistati di 34 Paesi diversi.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine2.png"><img width="602" height="331" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine2.png" alt="" class="wp-image-52596" /></a></figure></div>


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<p>A livello globale è interessante il dato su come sia il <strong>Portogallo</strong> il primo Paese al mondo a pensare alla propria salute mentale, con l’82%, e come fanalino di coda invece c’è la <strong>Cina</strong>, che chiude la classifica dei 34 Paesi con una percentuale pari al 33%. È altresì interessante il passaggio in cui viene richiesto agli intervistati – a livello globale – quale tra i possibili problemi di salute elencati venga considerato il più preoccupante dai propri connazionali: la <strong>salute mentale</strong> nel 2022 risulta essere tra le maggiori preoccupazioni, <strong>seconda solo al COVID-19</strong>, superando (rispetto agli anni 2020-2021) anche il cancro.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine3.jpg"><img width="602" height="337" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine3.jpg" alt="" class="wp-image-52595" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><em>Fonte: “World mental health day 2022”, Ipsos. Ottobre 2022</em></figcaption></figure></div>


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<p><strong>In Italia il 55% ci pensa spesso</strong> (+4% rispetto al 2021); di contro, nel nostro Paese si pensa più spesso alla <strong>salute fisica</strong> con il <strong>77%</strong> delle persone (+5% rispetto al 2021); anche se poi l’80% degli intervistati italiani crede che la salute mentale e quella fisica siano egualmente importanti. Secondo il report sono i <strong>giovani under 35</strong> e le <strong>donne</strong> a pensare di più alla propria salute mentale rispetto agli altri target demografici, rispettivamente con il 31 e il 27%.</p>



<p>Il report appena esaminato è stato pubblicato il 10 ottobre, data in cui si celebra la Giornata mondiale della salute mentale. Un tema di cui si discute ancora troppo poco, anche se il ministero della Salute, lo scorso 13 e 14 ottobre, ha organizzato a Roma il <em>G</em><em>lobal Mental Health Summit &#8211; Skills, rights, care.</em></p>



<p>Dunque, anche se poco, se ne parla. E proprio da qui occorre (ri)partire.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/salute/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Salute</a></strong>.</em></p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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<p><strong><em>In copertina Foto di Hasty Words da Pixabay</em></strong></p>


I dati IPSOS sulla salute mentale: “1 italiano su 10 ha pensato al suicidio nell’ultimo anno”

<p>Ciò che teniamo in borsa, o che nascondiamo nei cassetti dell’ufficio, dice chi siamo ma anche come stiamo. Ne ho avuto conferma alcuni anni fa, quando la mia collega di stanza ebbe un brutto <strong>attacco di panico</strong> dopo aver sbattuto furiosamente il telefono contro un responsabile che sedeva al di là della parete. Un crollo psicofisico scatenato da ruggini professionali mai portate a galla: un attacco di panico da vera letteratura medica, non un attacco d’ansia; ce lo confermò lei stessa, più tardi, di soffrirne da più di un anno e che era seguita da uno psichiatra con cui faceva terapia di gruppo. “Gli ripeto spesso che odio venire al lavoro per come veniamo trattati”, aggiunse. </p>
<p>La <strong>scena madre</strong> fu lei che iniziò a sudare, la tachicardia in aumento, diceva di sentirsi svenire, morire, di stare male come se l’ufficio le si stringesse addosso, ci afferrava le mani; finché ci ritrovammo in cinque, da due che eravamo. Chi era entrato con lo Xanax in mano (uno ce l’aveva in gocce, l’altra in compresse), chi coi Fiori di Bach, chi addirittura con una boccetta di Lexotan; una collega si fece largo persino con un misuratore della pressione tascabile. Luoghi di lavoro che somigliano a cassette del pronto soccorso ma che nessuno sospetta finché non scoppia la rissa dei dolori individuali.&nbsp;</p>
<p>L’altro fattore che non dimentico è che a tirare fuori i propri rimedi furono <strong>uomini e donne, colleghi giovanissimi e un quasi pensionato</strong>; uno dei nostri capi ci stupì, uscendo dall’ufficio per allungare un conforto e farsi <em>normale </em>per un giorno. Una sedia in mezzo alla stanza, una donna in preda a un dolore mentale e cinque persone solo apparentemente più sane di lei: eccolo, il mio ricordo.</p>
<p><strong>Stiamo male</strong>.</p>
<p>La relazione di giugno scorso del Parlamento europeo &#8211; redatta dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali &#8211; non ci ha girato intorno nemmeno con le virgole: la prossima crisi sanitaria, e mondiale, sarà legata alla <strong>perdita di salute mentale nel mondo del lavoro</strong>.&nbsp;</p>
<p>La relazione si chiude con un invito alla Commissione europea e agli Stati membri che ha più le sembianze di un obbligo, anche se è scritta con le forme di uno stimolo: serve adottare al più presto <strong>piani di prevenzione</strong>, il senso è chiaro. Un po’ tremo, allora, se il senso è questo, perché ripenso alla vigliaccheria con cui la nostra politica ha finto di aggiornare un piano pandemico in vista di future crisi sanitarie (date per certe, in quanto cicliche), mentre nel frattempo ci chiudeva in casa per mesi dicendo di proteggerci.</p>
<p>A distanza di quasi tre anni dovremmo dircele a voce alta, certe verità.</p>
<p>Il Parlamento europeo, nella sua relazione, non trascura affatto il nucleo del problema: <strong>la salute mentale non è mai stata considerata all’altezza di quella fisica</strong>.&nbsp;</p>
<p>Nemmeno l’OMS si tira indietro e, a fine 2021, ha snocciolato l’allarme su più piani. Più di <strong>300 milioni di persone </strong>soffrono di <strong>disturbi mentali per colpa del lavoro</strong>: li chiama espressamente esaurimento, ansia, depressione, stress post-traumatico. Stringe il campo sull’Europa per segnalare che un lavoratore su quattro è convinto che la propria salute mentale risenta negativamente del lavoro. Affonda, infine, sui costi in progressivo aumento negli ultimi dieci anni a livello di PIL nazionali per rispondere alle conseguenze delle patologie mentali.&nbsp;</p>
<p><strong>Ma perché stiamo male quando lavoriamo?&nbsp;</strong></p>
<p>Provo a fare un elenco senza vincitori, complice l’onda lunga della pandemia.</p>
<p>Vita professionale e privata che si sono messe di colpo a convivere in casa, e non eravamo pronti.</p>
<p>Insofferenza nel sentirsi costretti a gestire il lavoro come un tempo da occupare<strong> </strong>più che come un senso da riempire. Cultura del lavoro ancora adolescenziale che vive di poteri, forme di controllo, assenza di relazioni, ignoranze emotive. Salari che non bilanciano lo sforzo e il sacrificio. Scarso interessamento alla persona. Muri di gomma contro il diritto alla disconnessione. Bullismi, mobbing, violenze psicologiche sottili, abusi, indifferenze, sessismi. Fragili politiche del lavoro per i giovani. Riunioni ingoiate una dietro l’altra senza il sapore delle caramelle. Attenzione zero all’emergenza della salute mentale nei percorsi formativi obbligatori o volontari: <strong>la salute, per le aziende, è un infortunio fisico oppure non vale</strong>, è una gamba che salta, è tagli o ferite più o meno gravi, è uno star male che si possa certificare con l’ipocrisia degli occhi e delle mani, altrimenti non conta. Dipendenza da algoritmi padroni che non hanno un colore, una faccia, un odore, eppure ci comandano a bacchetta. Solitudini e silenzi dei manager, dei capi, dei presidenti. Stanchezza mentale dilagante per carenza di desideri. Occasioni nulle di ascolto e di confronto reciproco dentro le organizzazioni aziendali. Progressioni di crescita e di carriera blindate. Ristagni. </p>
<p>Se continuiamo a evitare che alcuni <strong>sentimenti nobili </strong>entrino nei luoghi di lavoro perché inadeguati o inopportuni al contesto, non aspettiamoci di migliorare. Non faremo altro che mettere a covare i problemi sotto le scrivanie; una volta erano i tappeti.</p>
<p>Oggi, mentre aspettavo di essere ammessa a una riunione online, è partita a video la configurazione dell’app: <em>installazione, configurazione, verifica audio e video</em>, fin qui tutto ordinario. Finché non ho visto passare anche la scritta <em>preparazione delle sedie.</em> Ho tentennato un istante con me stessa. Mi sono toccata le mani, ero presente, ero sola, ne ero sicura. Non c’era nessuna sala riunioni, nessun collega, nessuno che stesse allestendo le sedie, ero solo in attesa di collegarmi da remoto con persone che avrei visto dai capelli al mezzo busto se l’inquadratura fosse andata bene. Eppure, dall’altra parte dello schermo, un’app stava cercando di portarmi nella sua finzione.</p>
<p>Stiamo male, ma <strong>stiamo anche vigili</strong>.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/rubriche/editoriali/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Editoriali</strong></a>.</em></p>
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zolotti

Zolotti

Stefania Zolotti

Direttrice responsabile di SenzaFiltro e giornalista con il debole per le relazioni e le persone. Studiosa e appassionata di geografie umane e di paesi. Con la laurea in giurisprudenza non ha mai intrapreso le classiche strade: l&#8217;unico ufficio legale in cui ha lavorato è stato quello di Altroconsumo a Milano dal 2001 al 2003, con una parentesi nella sede di Bolzano grazie al patentino di bilinguismo tedesco. Dal 2002 Collabora come freelance con la rivista Business People e dal 2023 con Artribune dove racconta storie italiane di teatri di periferia. &#8220;Sentimenti precisi&#8221; è il nome del progetto con cui dal 2021 gira l&#8217;Italia tenendo laboratori contro i blocchi della scrittura: lo fa per aziende, associazioni, scuole, singole persone e gruppi. Dal 2008 al 2017 Responsabile Comunicazione e Segretaria di direzione per una grande azienda pubblica del settore ambiente dove ha sviluppato progetti di green marketing e di educazione sostenibile. Dal 2012 contribuisce a creare e coordinare progetti per la business community FiordiRisorse, che è anche l&#8217;Associazione editrice di SenzaFiltro. Autrice del libro &#8220;Ti fai male&#8221; (2020), romanzo generazionale scritto inizialmente come ghostwriter. Ha lavorato per 20 anni come giornalista nel campo del vino e del cibo collaborando con le principali testate nazionali e pubblicando due libri: &#8220;Vino a doppio senso. Guida ironica per uomini e donne&#8221; (Gabrio Marinelli Editore, 2006) e &#8220;Il Bicchiere mezzo pieno. Liberarsi dagli esperti è il primo passo per bere bene&#8221; (Le Lettere, 2020). L&#8217;ultimo libro, di cui è curatrice, è &#8220;Coaching, maneggiare con cura&#8221; di Carlo Bisi (Edizioni FiordiRisorse, 2023). &#8212; MAIL DI REDAZIONE: stefania.z@fiordirisorse.eu

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Editoriale 115. Infortuni mentali

Ciò che teniamo in borsa, o che nascondiamo nei cassetti dell’ufficio, dice chi siamo ma anche come stiamo. Ne ho avuto conferma alcuni anni fa, quando la mia collega di stanza ebbe un brutto attacco di panico dopo aver sbattuto furiosamente il telefono contro un responsabile che sedeva al di là della parete. Un crollo [&hellip;]

Editoriale 115. Infortuni mentali - Informazione senza filtro

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<p>Ciò che teniamo in borsa, o che nascondiamo nei cassetti dell’ufficio, dice chi siamo ma anche come stiamo. Ne ho avuto conferma alcuni anni fa, quando la mia collega di stanza ebbe un brutto <strong>attacco di panico</strong> dopo aver sbattuto furiosamente il telefono contro un responsabile che sedeva al di là della parete. Un crollo psicofisico scatenato da ruggini professionali mai portate a galla: un attacco di panico da vera letteratura medica, non un attacco d’ansia; ce lo confermò lei stessa, più tardi, di soffrirne da più di un anno e che era seguita da uno psichiatra con cui faceva terapia di gruppo. “Gli ripeto spesso che odio venire al lavoro per come veniamo trattati”, aggiunse. </p>



<p>La <strong>scena madre</strong> fu lei che iniziò a sudare, la tachicardia in aumento, diceva di sentirsi svenire, morire, di stare male come se l’ufficio le si stringesse addosso, ci afferrava le mani; finché ci ritrovammo in cinque, da due che eravamo. Chi era entrato con lo Xanax in mano (uno ce l’aveva in gocce, l’altra in compresse), chi coi Fiori di Bach, chi addirittura con una boccetta di Lexotan; una collega si fece largo persino con un misuratore della pressione tascabile. Luoghi di lavoro che somigliano a cassette del pronto soccorso ma che nessuno sospetta finché non scoppia la rissa dei dolori individuali.&nbsp;</p>



<p>L’altro fattore che non dimentico è che a tirare fuori i propri rimedi furono <strong>uomini e donne, colleghi giovanissimi e un quasi pensionato</strong>; uno dei nostri capi ci stupì, uscendo dall’ufficio per allungare un conforto e farsi <em>normale </em>per un giorno. Una sedia in mezzo alla stanza, una donna in preda a un dolore mentale e cinque persone solo apparentemente più sane di lei: eccolo, il mio ricordo.</p>



<p><strong>Stiamo male</strong>.</p>



<p>La relazione di giugno scorso del Parlamento europeo &#8211; redatta dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali &#8211; non ci ha girato intorno nemmeno con le virgole: la prossima crisi sanitaria, e mondiale, sarà legata alla <strong>perdita di salute mentale nel mondo del lavoro</strong>.&nbsp;</p>



<p>La relazione si chiude con un invito alla Commissione europea e agli Stati membri che ha più le sembianze di un obbligo, anche se è scritta con le forme di uno stimolo: serve adottare al più presto <strong>piani di prevenzione</strong>, il senso è chiaro. Un po’ tremo, allora, se il senso è questo, perché ripenso alla vigliaccheria con cui la nostra politica ha finto di aggiornare un piano pandemico in vista di future crisi sanitarie (date per certe, in quanto cicliche), mentre nel frattempo ci chiudeva in casa per mesi dicendo di proteggerci.</p>



<p>A distanza di quasi tre anni dovremmo dircele a voce alta, certe verità.</p>



<p>Il Parlamento europeo, nella sua relazione, non trascura affatto il nucleo del problema: <strong>la salute mentale non è mai stata considerata all’altezza di quella fisica</strong>.&nbsp;</p>



<p>Nemmeno l’OMS si tira indietro e, a fine 2021, ha snocciolato l’allarme su più piani. Più di <strong>300 milioni di persone </strong>soffrono di <strong>disturbi mentali per colpa del lavoro</strong>: li chiama espressamente esaurimento, ansia, depressione, stress post-traumatico. Stringe il campo sull’Europa per segnalare che un lavoratore su quattro è convinto che la propria salute mentale risenta negativamente del lavoro. Affonda, infine, sui costi in progressivo aumento negli ultimi dieci anni a livello di PIL nazionali per rispondere alle conseguenze delle patologie mentali.&nbsp;</p>



<p><strong>Ma perché stiamo male quando lavoriamo?&nbsp;</strong></p>



<p>Provo a fare un elenco senza vincitori, complice l’onda lunga della pandemia.</p>



<p>Vita professionale e privata che si sono messe di colpo a convivere in casa, e non eravamo pronti.</p>



<p>Insofferenza nel sentirsi costretti a gestire il lavoro come un tempo da occupare<strong> </strong>più che come un senso da riempire. Cultura del lavoro ancora adolescenziale che vive di poteri, forme di controllo, assenza di relazioni, ignoranze emotive. Salari che non bilanciano lo sforzo e il sacrificio. Scarso interessamento alla persona. Muri di gomma contro il diritto alla disconnessione. Bullismi, mobbing, violenze psicologiche sottili, abusi, indifferenze, sessismi. Fragili politiche del lavoro per i giovani. Riunioni ingoiate una dietro l’altra senza il sapore delle caramelle. Attenzione zero all’emergenza della salute mentale nei percorsi formativi obbligatori o volontari: <strong>la salute, per le aziende, è un infortunio fisico oppure non vale</strong>, è una gamba che salta, è tagli o ferite più o meno gravi, è uno star male che si possa certificare con l’ipocrisia degli occhi e delle mani, altrimenti non conta. Dipendenza da algoritmi padroni che non hanno un colore, una faccia, un odore, eppure ci comandano a bacchetta. Solitudini e silenzi dei manager, dei capi, dei presidenti. Stanchezza mentale dilagante per carenza di desideri. Occasioni nulle di ascolto e di confronto reciproco dentro le organizzazioni aziendali. Progressioni di crescita e di carriera blindate. Ristagni. </p>



<p>Se continuiamo a evitare che alcuni <strong>sentimenti nobili </strong>entrino nei luoghi di lavoro perché inadeguati o inopportuni al contesto, non aspettiamoci di migliorare. Non faremo altro che mettere a covare i problemi sotto le scrivanie; una volta erano i tappeti.</p>



<p>Oggi, mentre aspettavo di essere ammessa a una riunione online, è partita a video la configurazione dell’app: <em>installazione, configurazione, verifica audio e video</em>, fin qui tutto ordinario. Finché non ho visto passare anche la scritta <em>preparazione delle sedie.</em> Ho tentennato un istante con me stessa. Mi sono toccata le mani, ero presente, ero sola, ne ero sicura. Non c’era nessuna sala riunioni, nessun collega, nessuno che stesse allestendo le sedie, ero solo in attesa di collegarmi da remoto con persone che avrei visto dai capelli al mezzo busto se l’inquadratura fosse andata bene. Eppure, dall’altra parte dello schermo, un’app stava cercando di portarmi nella sua finzione.</p>



<p>Stiamo male, ma <strong>stiamo anche vigili</strong>.</p>



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<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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<p><strong>In Italia le persone depresse sono circa tre milioni</strong>. Un numero enorme, anche se andrebbero distinte forme di depressione più gravi e meno gravi. Oggi nel nostro Paese circa il <strong>6% degli adulti fra i 18 e i 69</strong> anni soffre di sintomi depressivi, e in particolare i sintomi sono più frequenti tra le donne (che sono l’8% rispetto al 5% degli uomini), nelle persone fra i 50 e i 69 anni, tra le classi socialmente svantaggiate per difficoltà economiche, e tra chi soffre di patologie croniche (Fonte: sorveglianza epidemiologica “Passi”).</p>



<p>Visti questi numeri, in redazione eravamo convinti che l’<strong>aumento</strong> al ricorso di <strong>farmaci antidepressivi</strong> fosse imputabile alla costante di ansia e paura in cui viviamo da qualche anno.</p>



<p>E in effetti rispetto al 2019 un aumento c’è stato, ma non si può imputare del tutto alla pandemia, alla guerra e alla povertà che cresce. In realtà, come dimostra il rapporto Os-Med (osservatorio nazionale sull’impiego dei farmaci) redatto dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA),l’aumento degli psicofarmaci è un trend che <strong>va avanti da qualche anno</strong>.</p>



<p>I numeri potrebbero essere anche peggiori di quelli analizzati, perché nonostante oggi siano disponibili numerosi trattamenti efficaci, i <strong>disturbi depressivi</strong> sono ancora <strong>sottovalutati</strong> e <strong>poco riconosciuti</strong>, soprattutto da una certa fascia della popolazione. In sostanza c’è chi abusa dei farmaci e chi ancora rifiuta di assumerli a causa dallo stigma che li accompagna.</p>



<p>Sempre secondo il rapporto AIFA, nel 2021 il consumo giornaliero degli antidepressivi è aumentato del 2,4% rispetto al 2020, e con una variazione media annua del 1,9% dal 2014. In sostanza nel 2021 il consumo degli <strong>antidepressivi</strong> ha rappresentato il <strong>3,4% del consumo totale di farmaci</strong> in Italia, e il costo medio per la dose giornaliera è stato di 0,42 euro. In pratica gli antidepressivi costano poco al pubblico, ma le persone depresse rappresentano un costo altissimo per il sistema sanitario.</p>


<div class="wp-block-image">
<figure class="aligncenter size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-2.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-2.png" alt="" class="wp-image-52869" width="723" height="392" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong><em>Antidepressivi, andamento temporale 2014-2021 del consumo e del costo medio per giornata di terapia. Fonte Rapporto OS-Med 2021 </em></strong></figcaption></figure></div>


<p></p>



<p>Il rapporto AIFA compie anche una <strong>distinzione per Regioni</strong> rispetto all’uso di farmaci antidepressivi, e al primo posto ne mette una per me insospettabile, la <strong>Toscana</strong>, che ha un consumo quasi doppio rispetto alla Campania e alla Basilicata. Anche il <strong>Friuli</strong>, che è la regione con minor consumo nazionale, registra comunque un aumento nell’ultimo anno. In pratica tutte le Regioni rilevano degli aumenti di spesa e consumo rispetto al 2020. In generale le Regioni del Centro hanno un livello di utilizzo superiore di circa il 10% rispetto a quello del Nord, e del 33% rispetto al Sud.</p>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<h2 id="h-david-lazzari-in-molti-assumono-farmaci-perche-non-hanno-accesso-ad-aiuti-psicologici">David Lazzari: “In molti assumono farmaci perché non hanno accesso ad aiuti psicologici”</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Assodato il fatto che facciamo sempre più uso di farmaci antidepressivi e che la colpa non è solo della pandemia e della guerra, ho cercato di capirne le motivazioni con <strong>David Lazzari</strong>, presidente dell’ordine degli psicologi dal 2020. Abbiamo richiesto il suo intervento perché è importante comprendere che i farmaci, in caso di stato depressivo, aiutano, ma non sono una manna del cielo, e la consulenza di uno psicologo deve essere sempre più richiesta e frequente. Magari mutuabile. Perché la <strong>depressione</strong> non aumenta solo la sofferenza personale e la disabilità psicosociale, ma<strong> fa lievitare anche i costi sociosanitari</strong>.</p>



<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p><strong>Presidente, che cosa ha fatto aumentare il ricorso ai farmaci antidepressivi negli ultimi anni?</strong></p>



<p>L&#8217;aumento degli psicofarmaci è un trend che va avanti da tempo. C’è un uso spesso incontrollato o un vero e proprio abuso. Al di là dei casi necessari e appropriati, il problema è che molti pensano che ci sia una pillola magica che risolve tutti i problemi. Ma ci sono anche molte persone che prendono i farmaci perché non riescono ad avere un aiuto psicoterapico o psicologico.</p>



<p>&nbsp;<strong>Quanto sono aumentati i casi di ansia e depressioni, i disturbi del sonno e i disturbi alimentari?</strong></p>



<p>Sono aumentati i disturbi più strutturati, ma soprattutto le situazioni di disagio psicologico. Le situazioni più gravi per fortuna non hanno avuto per ora un incremento significativo, ma se non si interviene su questa marea crescente di malessere, soprattutto con azioni di prevenzione, promozione delle risorse e intercettazione precoce, ci ritroveremo delle ricadute molto negative sulla salute fisica e psichica delle persone. Nello specifico i problemi del sonno e dell’alimentazione sono spesso legati alla fase adolescenziale o allo stress nella vita adulta, e sono aumentati durante la pandemia. Ora bisognerà osservare l’andamento per capire meglio il quadro. In genere le ricerche ci consegnano una maggiore incidenza di problemi e disturbi negli adolescenti e nei giovani. Sembra che queste fasi della vita siano diventate ancor più problematiche e incerte.</p>



<p><strong>Quali sono le cause principali, secondo lei?</strong></p>



<p>I cambiamenti sociali hanno reso il mondo più veloce e più complesso, direi anche più competitivo. I riferimenti tradizionali sono venuti meno e questo ha creato un diffuso disorientamento. Dobbiamo dare ai ragazzi degli strumenti nuovi per capirsi, capire il contesto e orientarsi. La scuola deve aggiornare la sua missione e il contributo degli psicologi è necessario per lo sviluppo delle competenze di vita nei giovani, per aiutare i docenti nel loro lavoro e la scuola come organizzazione che promuove consapevolezza e benessere. Ma il problema del disagio psicologico riguarda comunque tutte le fasce d’età.&nbsp;</p>


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<figure class="aligncenter size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-3.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-3.png" alt="" class="wp-image-52875" width="719" height="319" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong><em>Distribuzione della prevalenza d&#8217;uso e del consumo di antidepressivi in regime di assistenza convenzionata.                                                                 Fonte Rapporto OS-Med 2021</em></strong></figcaption></figure></div>


<p></p>



<p><strong>Sono aumentate le persone che richiedono l’intervento degli psicologi?</strong></p>



<p>Abbiamo fatto un’indagine sulla comunità professionale che ci mostra un aumento del 40%. Questo è frutto non solo di un aumento dei problemi, ma anche – e per fortuna – di una diversa consapevolezza. Oggi c’è meno vergogna rispetto al passato, l&#8217;idea che chi ha i problemi è un debole è oggi meno diffusa, e sempre più persone vedono queste problematiche&nbsp;come parte della vita che meritano di essere affrontate.</p>



<p>&nbsp;<strong>La legge 15/2020 ha previsto un sostegno da 200 a 600 euro per terapie psicologiche, erogabile una sola volta. Ma la sfera sociale è in un momento di sofferenza psicoemotiva. Non sarebbe il caso di investire più risorse sanitarie nello psicologo di base?&nbsp;Si potrà arrivare secondo lei a un servizio mutuabile?</strong></p>



<p>Il bonus psicologico è una grande svolta culturale e sociale perché ha riconosciuto l&#8217;importanza di questi problemi e la necessità di una risposta&nbsp;pubblica. Ovviamente, come abbiamo sempre detto, serve una risposta articolata che metta le infrastrutture sociali – scuola, sanità, welfare – nella condizione di fare attività efficaci con l’uso appropriato di competenze psicologiche. Di certo lo psicologo di base è una figura necessaria, perché la medicina di famiglia intercetta tante situazioni di questo tipo e oggi non è nelle condizioni di dare una risposta.</p>



<p>&nbsp;<strong>Secondo lei abbiamo abbastanza psicologi in Italia per soddisfare le esigenze, nel caso il servizio diventasse mutuabile?</strong></p>



<p>Il nostro Paese ha normative avanzate sulla formazione di psicologi e psicoterapeuti, e al nostro ordine abbiamo oltre 100.000 iscritti. Quindi sì, c’è la concreta possibilità di rispondere a queste esigenze.&nbsp;</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 116, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-116/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Cavalli di battaglia</strong></a>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Sua Sanità PNRR</strong></a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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David Lazzari, presidente dell’ordine degli psicologi: “Lo psicologo di base contro l&#8217;uso di psicofarmaci”

<p>Non stiamo bene, e va sempre peggio.</p>
<p>In Italia, durante il lockdown, nove persone su dieci hanno sofferto di stress psicologico e una persona su due ha accusato sintomi depressivi. Il 2021 ha segnato un <strong>peggioramento negli indici di salute mentale</strong>, in particolare tra giovani e donne.</p>
<p>Non si tratta di percezione, ma di dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità, dall’ISTAT e da IPSOS. Tutti indizi che puntano verso la presenza di un malessere generale avvertito, ma ancora privo di un nome e di contorni definiti: <strong>sappiamo che è un male, ma non sappiamo ancora di soffrirne</strong>. Una tendenza che però potrebbe essere in via di cambiamento.</p>
<p>Abbiamo sentito in esclusiva per <em>SenzaFiltro</em> <strong>Stefania Fregosi</strong>, Healthcare Head IPSOS, per interpretare i dati che arrivano dal combinato disposto dei rapporti ufficiali.</p>
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<figure class="alignleft size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/foto-Stefania-Fregosi-002.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/foto-Stefania-Fregosi-002.jpg" alt="" class="wp-image-52729" width="356" height="474" /></a><figcaption class="wp-element-caption"> <strong>Stefania Fregosi</strong>, Healthcare Head IPSOS</figcaption></figure>
</div>
<p><strong>In base ai risultati globali di questo report, che cosa si evince sullo stato della salute mentale nel nostro Paese?</strong></p>
<p>In generale assistiamo a un processo di crescente attenzione e sensibilità al concetto di salute mentale. Gli italiani pensano sempre più spesso alla propria salute mentale, mostrando un trend crescente anche solo rispetto ad un anno fa. I target più sensibili a questo tema – perché i più colpiti da stress/ ansia/depressione – sono le donne e i giovani sotto i 35 anni. Nonostante l’opinione pubblica italiana sostenga che il benessere mentale e fisico siano ugualmente importanti, gli italiani pensano che il sistema sanitario oggi ancora non rifletta questa visione e non fornisca un egual trattamento, concentrandosi maggiormente sul benessere fisico.</p>
<p><strong>Dopo la pandemia quali sono le esperienze vissute dagli intervistati, specialmente nel corso dell’ultimo anno?</strong></p>
<p>Gli effetti dello stress sono i problemi di benessere mentale segnalati più frequentemente: un terzo degli italiani dichiara di avere sofferto di stress molte volte durante l’ultimo anno, fino a condizionare la propria vita quotidiana. Sempre un terzo degli italiani afferma che lo stress è stato tale da avere la sensazione di non riuscire più a gestire la situazione. Il 20% è stato depresso al punto da sentirsi triste o senza speranza tutti i giorni o più volte alla settimana. Infine, il 9% dichiara di avere pensato più volte al suicidio o all’autolesionismo, durante l’ultimo anno. Sono dati inquietanti che ci devono fare riflettere. Mettono in evidenza quanto il tema della salute mentale debba essere affrontato seriamente dal SSN e dalle istituzioni: ci sono forti sono attese da parte della popolazione.</p>
<p><strong>Su quale fascia d’età occorrerebbe prestare maggiore attenzione nell’ambito della salute mentale, a suo parere?</strong></p>
<p>Il benessere mentale è un tema da non sottovalutare soprattutto per le giovani generazioni, che sono state le più colpite dalla pandemia e che oggi risultano bisognose di comprensione, attenzione e rete assistenziale adeguata per rispondere al meglio al loro disagio. Inoltre, occorre lavorare al fine abbattere ulteriormente lo stigma e promuovere un concetto più ampio di benessere mentale come benessere emotivo, psicologico e sociale.</p>
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<h2 id="h-il-benessere-mentale-alla-prova-della-pandemia">Il benessere mentale alla prova della pandemia</h2>
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<p>Ma che cosa significa<strong> benessere mentale</strong>?</p>
<p>Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la salute mentale è parte integrante del benessere, e lo si deduce proprio dalla definizione di salute: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità”.</p>
<p>La stessa OMS descrive quella mentale come una <strong>componente essenziale della salute</strong>, definendola come lo stato di benessere che consente di realizzare le proprie abilità, di sostenere i livelli normali di stress della vita quotidiana per lavorare in modo produttivo e fornire un contributo alla propria comunità.</p>
<p>I numeri raccontano molto: l’Istituto Superiore della Sanità evidenzia come in Italia, durante il lockdown della primavera 2020, l’<strong>88,6% </strong>delle persone sopra i 16 anni ha sofferto di <strong>stress psicologico</strong>, e quasi il <strong>50%</strong> di <strong>sintomi di depressione</strong> <em>(Fonte: survey condotta su 5.008 persone attraverso il portale del progetto #PRESTOinsieme, nato da un’iniziativa congiunta ISS, Università di Padova e Prochild onlus, con il supporto tecnico della Zeta research Srl)</em>.</p>
<p>L’ISTAT il 26 luglio 2018 aveva pubblicato il report<em> La salute mentale nelle varie fasi della vita</em>, con i dati riferiti al triennio 2015-2017. Per certi aspetti una vita fa, considerando gli ultimi due anni che abbiamo vissuto. Esiste però il <strong>rapporto</strong> <strong>BES 2021</strong> (Benessere Equo e Sostenibile) che definisce proprio gli ultimi due anni appena trascorsi in termini di salute mentale: “I due anni della pandemia hanno messo a dura prova il benessere psicologico della popolazione. In particolare, nel 2021 si osserva un <strong>peggioramento</strong> nelle condizioni di <strong>benessere mentale</strong> specialmente tra i <strong>ragazzi di 14-19 anni</strong>.<em> </em>Così l’indice di salute mentale, pur nei limiti della sua misurazione sintetica, assume un rilievo particolare nei due anni di pandemia, per tentare di monitorare gli effetti sulla componente psicologica ed emotiva, maggiormente sottoposta ai considerevoli cambiamenti nella vita sociale e relazione, avvenuta in tale periodo”.</p>
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<h2 id="h-italia-nel-2021-indicatori-della-salute-mentale-in-calo-tra-i-14-e-i-19-anni">Italia, nel 2021 indicatori della salute mentale in calo tra i 14 e i 19 anni</h2>
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<p>Vediamo nel dettaglio i dati del rapporto.</p>
<p>L’<strong>indice di salute mentale </strong>fornisce una misura del disagio psicologico degli individui e comprende stati correlati all’ansia e alla depressione, basandosi sull’aggregazione dei punteggi totalizzati da ciascun individuo nel rispondere a cinque domande specifiche (Fonte: BES 2021).</p>
<p>Nel <strong>2021</strong> l’indice assume in <strong>Italia</strong> il valore di <strong>68,4</strong>, e risulta nel complesso stabile rispetto al 2019 e al 2020 (quando era rispettivamente pari a 68,4 e 68,8). Decresce invece tra le <strong>donne</strong>, mettendo in evidenza un <strong>peggioramento</strong> nella salute mentale, mentre aumenta leggermente tra gli uomini. Le condizioni di benessere mentale generalmente peggiorano al crescere dell’età, ma nel 2021 le differenze tra i più giovani e i più anziani diminuiscono, e nel 2021 si registra un <strong>deterioramento del benessere psicologico tra i ragazzi</strong>.</p>
<p>Così, dopo un miglioramento registrato nel 2020, nel secondo anno di pandemia l’indice di salute mentale cala decisamente nella fascia di 14-19 anni di entrambi i sessi, passando a un punteggio di 66,6 per le ragazze (-4,6 punti rispetto al 2020) e 74,1 per i ragazzi (-2,4 punti rispetto al 2020). Tra le donne si osserva un peggioramento della salute mentale anche nella classe di età 20-24 anni (-3,4 rispetto al 2019), mentre nelle altre si osserva una sostanziale stabilità.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine1.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="579" height="304" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine1.png" alt="" class="wp-image-52597" /></a></figure>
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<h2 id="h-i-paesi-che-pensano-di-piu-e-di-meno-alla-salute-mentale-secondo-ipsos-la-situazione-dell-italia">I Paesi che pensano di più (e di meno) alla salute mentale secondo IPSOS. La situazione dell’Italia</h2>
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<p>Lo scorso 10 ottobre IPSOS ha pubblicato il suo report <em>World mental health day 2022</em> in un panel di intervistati di 34 Paesi diversi.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine2.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="602" height="331" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine2.png" alt="" class="wp-image-52596" /></a></figure>
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<p>A livello globale è interessante il dato su come sia il <strong>Portogallo</strong> il primo Paese al mondo a pensare alla propria salute mentale, con l’82%, e come fanalino di coda invece c’è la <strong>Cina</strong>, che chiude la classifica dei 34 Paesi con una percentuale pari al 33%. È altresì interessante il passaggio in cui viene richiesto agli intervistati – a livello globale – quale tra i possibili problemi di salute elencati venga considerato il più preoccupante dai propri connazionali: la <strong>salute mentale</strong> nel 2022 risulta essere tra le maggiori preoccupazioni, <strong>seconda solo al COVID-19</strong>, superando (rispetto agli anni 2020-2021) anche il cancro.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine3.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="602" height="337" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Immagine3.jpg" alt="" class="wp-image-52595" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><em>Fonte: “World mental health day 2022”, Ipsos. Ottobre 2022</em></figcaption></figure>
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<p><strong>In Italia il 55% ci pensa spesso</strong> (+4% rispetto al 2021); di contro, nel nostro Paese si pensa più spesso alla <strong>salute fisica</strong> con il <strong>77%</strong> delle persone (+5% rispetto al 2021); anche se poi l’80% degli intervistati italiani crede che la salute mentale e quella fisica siano egualmente importanti. Secondo il report sono i <strong>giovani under 35</strong> e le <strong>donne</strong> a pensare di più alla propria salute mentale rispetto agli altri target demografici, rispettivamente con il 31 e il 27%.</p>
<p>Il report appena esaminato è stato pubblicato il 10 ottobre, data in cui si celebra la Giornata mondiale della salute mentale. Un tema di cui si discute ancora troppo poco, anche se il ministero della Salute, lo scorso 13 e 14 ottobre, ha organizzato a Roma il <em>G</em><em>lobal Mental Health Summit &#8211; Skills, rights, care.</em></p>
<p>Dunque, anche se poco, se ne parla. E proprio da qui occorre (ri)partire.</p>
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<p><strong><em>In copertina Foto di Hasty Words da Pixabay</em></strong></p>


dilieto

DiLieto

Norman Di Lieto

Ha due passioni: la Moda e il Giornalismo che sono diventati anche la sua attività professionale. Ha lavorato per Fratelli Rossetti, Loro Piana, Trussardi e Gucci. Si è laureato – lavorando a tempo pieno – alla Facoltà di Comunicazione in Relazioni Pubbliche e Pubblicità all’Università Iulm di Milano con una Tesi sulle Relazioni con i media nelle aziende della moda. Si è specializzato in Comunicazione per gli addetti stampa alla Scuola di Comunicazione Iulm di Milano. È stato cultore della materia in Comunicazione d’impresa all’Università di Modena e Reggio Emilia e all’Università E-campus di Novedrate e capo-redattore di Flipmagazine, giornale on line internazionale. Contributor in manuali di comunicazione d’impresa editi da Laterza e dal Sole 24Ore. Ha conseguito un Master in marketing dei beni di lusso alla Business School del Sole 24Ore. Ha seguito a Parigi dal 2012 al 2017 le Relazioni sociali del Gruppo Kering, player mondiale del Lusso. Nel 2017 è stato Addetto stampa per Open Corporation &#8211; progetto sulla trasparenza delle Aziende Multinazionali ideato da Filcams Cgil e cofinanziato dalla Commissione europea. Nel 2018 ha seguito come Consulente un nuovo Brand del Lusso viaggiando tra Milano e Pechino. Nello stesso anno ha ideato, insieme al suo Team, una Start-Up &#8211; selezionata tra le finaliste da Speed Mi Up &#8211; incubatore di Start-Up fondato da Università Bocconi e Camera di Commercio di Milano con il supporto del Comune di Milano. Dal 2019 si occupa di Ufficio stampa come freelance ed è moderatore di dibattiti pubblici. Tra il 2020 e il 2022 ha coordinato per SenzaFiltro, prima la rubrica Zona Franca per poi occuparsi dei mensili del giornale, fino alla fine del 2022. Ha collaborato con Massimo Fini. E&#8217; giornalista pubblicista e ha scritto un Romanzo: &#8220;Di Tanto Amore&#8221;.

Norman Di Lieto Archivi

Norman Di Lieto - Informazione senza filtro

#salute

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#salute - Informazione senza filtro

Gli indicatori della salute mentale hanno segnato un peggioramento più accentuato tra giovani e donne, nel 2021, ma gli italiani sono più consci del problema. L&#8217;intervista ad Stefania Fregosi, healthcare head IPSOS.

I dati IPSOS sulla salute mentale: “1 italiano su 10 ha pensato al suicidio nell’ultimo anno” - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Foto-di-Hasty-Words-da-Pixabay-.jpg


<p>La Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA), che da almeno dieci anni osserva il costante aumento degli accessi in ospedale di <strong>minori</strong> per cause legate a <strong>disturbi psichiatrici</strong> – tra il 5 e il 10% l’anno – rileva come tra il 2021 e il 2022 questo numero abbia superato i livelli pre-COVID.</p>



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<figure class="wp-block-image size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Druidi1.png"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Druidi1.png" alt="" class="wp-image-52785" /></a></figure>



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<p>Riducendo l’attenzione collettiva ai bisogni delle generazioni più giovani, la <strong>pandemia</strong> ha fatto da detonatore di un disagio che oggi si manifesta in gravi problemi di neurosviluppo e salute mentale; problemi che rischiano di diventare cronici e diffondersi su larga scala. A sottolinearlo è la ricerca <em>Pandemia, neurosviluppo e salute mentale</em> <em>di bambini e ragazzi</em> (diffuso da AGIA e ISS), che conferma da tutti i presidi di competenza l’<strong>incremento di disturbi </strong>del comportamento alimentare, tentati suicidi e suicidi, episodi di autolesionismo, alterazioni del ritmo sonno-veglia e ritiro sociale. Crescono anche le richieste d’aiuto per l’uso di sostanze psicoattive, cannabinoidi e alcool.</p>



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<h2 id="h-gioventu-rubata-le-illusioni-perdute-e-la-rimozione-della-morte">Gioventù rubata, le “illusioni perdute” e la rimozione della morte</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Noto psichiatra e psicoterapeuta, fondatore dell’istituto Minotauro (a cui si affiancano Fondazione e Cooperativa sociale), <strong>Gustavo Pietropolli Charmet</strong> nel suo saggio <em>Gioventù rubata &#8211; Che cosa la pandemia ha tolto agli adolescenti e come possiamo restituire il futuro ai nostri figli </em>(Bur) ha cercato di dipanare i fili che collegano i sintomi di cui soffrono og­gi gli adolescenti alle esperienze e ai traumi sperimentati negli ultimi due anni.</p>


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<figure class="alignleft size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/PietropolliCharmet2.jpg"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/PietropolliCharmet2-1024x649.jpg" alt="" class="wp-image-52753" width="521" height="330" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><em><strong>Gustavo Pietropolli Charmet</strong>, psichiatra e psicoterapeuta</em></figcaption></figure></div>


<p>“La pandemia ha finito per essere una <strong>grave sconfitta del mondo educativo</strong>”, scrive l’autore, “nel corso della quale gli adulti si sono dimenticati di proteggere e tutelare gli adolescenti, abbando­nandoli ai loro fantasmi”. Il progressivo prevalere, negli ultimi decenni, della famiglia affettiva sulla famiglia etica, fondata sulla trasmissione di valori morali, norme e regole condivise da rispettare, spesso scandita da divieti e all’occorrenza punizioni, ha portato all’affermazione di una “<strong>cultura narcisistica</strong>”, spiega a <em>SenzaFiltro</em> Gustavo Pietropolli Charmet. “Una cultura che rimuove la dimensione della sconfitta, della solitudine e della morte”.</p>



<p>È invece importante confrontarsi con il <strong>tema della morte</strong>, che resta invece un tabù nel modello educativo attuale, ancora più assente nella relazione adulti-minori nei giorni più bui della pandemia. “Ai ragazzi serviva una spiegazio­ne credibile dei motivi per i quali il virus aveva costretto tutti a cambiare abitudini e a fare molte rinunce. Bisogna rifondare la rappresentazione di cosa è la vita, che è fatta anche di morte, di momenti di successo e disastro personale”.</p>



<p>Per gli <strong>adolescenti</strong> la pandemia ha preso i contorni di un autentico disastro: un combinato disposto di restrizioni, coprifuochi, limitazioni alla libertà e alla socialità, crescente sfiducia nei confronti del mondo adulto e delle sue istituzioni, che li ha lasciati soli e disorientati a elaborare il caos. Per Pietropolli Charmet l’origine di questa ondata di sofferenza – e anche di violenza, se si pensa al fenomeno della baby gang – è la <strong>grande disillusione dei giovani</strong> nei confronti delle loro aspettative di realizzazione e benessere.</p>



<p>“Nella mente di alcuni adolescenti, soprattutto di quelli più fragili, potrebbe essersi avvera­ta la domanda ‘<strong>ma allora non era vero niente?</strong>’. Le promesse legate all’affermazione personale, al riconoscimento sociale e all’agiatezza futura garantite dalla cultura narcisistica si sono dissolte con l’arrivo sulla scena del virus. La pandemia ha messo in discussione tutti i valori e le sicurezze ricevute”.</p>



<p>Il <strong>lockdown</strong> – l’essere stati chiusi dentro casa, perdendo i propri riti e rituali fuori – e le <strong>difficoltà della scuola</strong> hanno aggravato il malessere. “La scuola che traballa sconquassa il sentimento di identità del giovane studente e lo lascia desolato, privo di difese”, carente rispetto al percorso di diventare grande, afferma lo psicoterapeuta.</p>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<h2 id="h-disagio-a-scuola-l-impatto-del-covid-19-in-ambito-didattico">Disagio a scuola: l’impatto del COVID-19 in ambito didattico</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>L’effetto della chiusura delle scuole e dell’esperienza della <strong>DaD</strong> è stato dirompente, soprattutto sui ragazzi più fragili e con background migratorio. Sempre la ricerca <em>Pandemia, neurosviluppo e salute mentale</em> <em>di bambini e ragazzi </em>segnala l’insorgenza di <strong>disturbi</strong> dell’apprendimento, dell’attenzione e del linguaggio, disturbi della condotta e della regolazione cognitiva ed emotiva, così come fobie scolastiche, stati ansiosi e depressivi, fino a casi di abbandono scolastico.</p>


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<figure class="alignleft size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/MilenaPiscozzo-scaled.jpeg"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/MilenaPiscozzo-1024x681.jpeg" alt="" class="wp-image-52758" width="559" height="371" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong><em>Milena Piscozzo, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Riccardo Massa” di Milano</em></strong></figcaption></figure></div>


<p>“La pandemia ha acuito alcune situazioni di fatica dei nostri ragazzi”, conferma <strong>Milena Piscozzo</strong>, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Riccardo Massa” di Milano, che testimonia un aumento di casi di <strong>ritiro sociale</strong> degli studenti. “La mancanza o limitazione della relazione con i pari determinata dal COVID-19 ha impattato meno sui bambini e più su adolescenti e soprattutto preadolescenti, che vivono il rapporto con il gruppo come un elemento centrale, considerando anche che la scuola – come già abbiamo avuto modo di osservare negli anni precedenti la pandemia – è quasi l’unico contesto in cui i ragazzi esperiscono ancora comportamenti sociali. Fuori prevale la piazza virtuale”.</p>



<p>Si avverte oggi la fatica da parte di alcuni studenti di <strong>gestire conflitti e confronti con i coetanei</strong>. “Come scuola cerchiamo di favorire la socialità – così come l’inclusione – non tanto nel tempo della ricreazione, quanto nell’attività didattica vera e propria. Sto lavorando con i miei docenti a metodologie di <em>cooperative learning</em>, o apprendimento cooperativo, che permetta ai ragazzi di partecipare attivamente al loro percorso di crescita sotto la guida dell’insegnante, superando la lezione frontale, non positiva in questo momento storico”.</p>



<p>La pandemia, aggiunge Milena Piscozzo, ha permesso di rivedere il modo di fare scuola e gestire la motivazione degli studenti; le criticità della DaD hanno portato i docenti ad attivarsi su altre metodologie. Per <strong>Stefano Vicari</strong>, responsabile Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza nell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, gli insegnanti devono soprattutto essere “<strong>educatori alle relazioni interpersonali</strong>”. Lo stesso Gustavo Pietropolli Charmet nel suo saggio invoca per l’insegnamento “una più esplicita intenzione educativa”, rimarcando inoltre il ruolo della consulenza psicologica nelle scuole.</p>



<p>“Lo <strong>psicologo scolastico</strong>, a maggior ragione dopo la pandemia, è una figura di riferimento fondamentale all’interno degli istituti, in grado di aiutare gli adolescenti in difficoltà e fornire ai docenti strumenti per gestire situazioni delicate”, conclude Milena Piscozzo.</p>



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<h2 id="h-adolescenti-e-futuro-manca-la-voglia-di-progettualita">Adolescenti e futuro: manca la voglia di progettualità</h2>



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<p>I ragazzi italiani giudicano in modo negativo gli effetti prodotti dagli anni del <strong>COVID-19</strong> sulla loro <strong>preparazione scolastica</strong>. È uno dei dati che emergono dall’indagine annuale sugli stili di vita degli adolescenti italiani, realizzata da 25 anni dall’associazione no-profit Laboratorio Adolescenza e dall’Istituto di ricerca IARD su un campione nazionale rappresentativo di oltre 5.700 studenti dai 13 ai 19 anni.</p>



<p>Per il 70% la formazione è stata abbastanza o molto penalizzata dalla pandemia. La percentuale sale ancora e supera il 75% nel caso degli studenti delle scuole superiori, senza differenze significative tra licei, scuole tecniche o professionali.</p>



<p>Il COVID-19 ha “sabotato” la <strong>progettualità</strong> dei giovani. A preoccupare di più, infatti, è l’incertezza rispetto al futuro. Il 52,7% del campione guarda al domani definendosi “incerto” o “preoccupato”.</p>



<p>“Cala la percentuale degli studenti che programma di iscriversi all’università: il 63% rispetto al 76,8% del 2018. In linea con il generalizzato crollo delle immatricolazioni degli atenei italiani nell’ultimo anno accademico”, spiega <strong>Maurizio Tucci</strong>, presidente di Laboratorio Adolescenza. “In questa reticenza a investire sul proprio futuro pesano anche la difficoltà a trovare lavoro dopo la laurea e il costo degli studi universitari, che pesa sempre di più sui bilanci famigliari”.</p>



<p>I questionari sono stati somministrati a partire da marzo 2022. “Il <strong>pessimismo</strong> espresso dai giovani, già duramente colpiti a livello psicologico, è stato amplificato dalla <strong>guerra in Ucraina</strong>”.</p>



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<h2 id="h-come-affrontare-il-disagio-psichico-degli-adolescenti">Come affrontare il disagio psichico degli adolescenti</h2>



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<p>A oggi purtroppo in Italia c’è una <strong>scarsa cultura sulla salute mentale</strong>: occorrono maggiori risorse per la cura e la prevenzione. Genitori, insegnanti e medici sono chiamati a cogliere il prima possibile eventuali segni di disagio negli adolescenti. Conoscerli meglio è un punto di partenza fondamentale.</p>



<p>“C’è una difficoltà strutturale del mondo adulto a entrare in contatto con gli adolescenti, se non tramite cliché”, commenta Maurizio Tucci, che nel suo saggio <em>Adolescenza non luogo</em> (I libri di Emil, 2022) traccia un parallelo tra l’età di transito per definizione e i non luoghi così come definiti dall’antropologo Marc Augé.</p>



<p>“<strong>Gli adulti considerano i ragazzi tutti uguali</strong>. Non c’è la volontà, la capacità e l’interesse a cambiare approccio e vederli come <strong>individui singoli</strong>, e non solo nelle vesti di studenti. La scuola, lo sappiamo, è una parte fondamentale della loro vita, ma non esaurisce la loro identità. Il COVID-19 non ha fatto altro che perorare la mia riflessione: i provvedimenti emessi nelle varie fasi dell’emergenza hanno assimilato gli adolescenti di volta in volta ai bambini o agli adulti, senza farne mai portatori di istanze proprie.”</p>



<p>Per ristabilire la ripresa evolutiva dei ragazzi in crisi serve “un grande sforzo educativo comune realizzato attraverso un processo di <strong>integrazione di tutte le risorse del territorio</strong>, dalle scuole ai servizi”, afferma Gustavo Pietropolli Charmet. La necessaria alleanza fra le generazioni passa dalla sincerità degli adulti a trattare temi come la morte e la sconfitta e la capacità di <strong>coinvolgere gli adolescenti nella risoluzione dei problemi</strong> – il COVID-19, ad esempio – e nella “<strong>costruzione del domani</strong>”.</p>



<p>Ai giovani, conclude lo psicoterapeuta, spetta un riconoscimento per il loro sacrificio in termini di risorse, riforme, e la “promessa che, se si dovessero ripetere ancora attacchi alla nostra orga­nizzazione sociale, si terrà conto anche di loro e della loro salute”.</p>



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<p><strong><em>In copertina foto di natureaddict da Pixabay </em></strong></p>


Generazione COVID, i giovani traditi dal sistema educativo

<p><strong>In Italia le persone depresse sono circa tre milioni</strong>. Un numero enorme, anche se andrebbero distinte forme di depressione più gravi e meno gravi. Oggi nel nostro Paese circa il <strong>6% degli adulti fra i 18 e i 69</strong> anni soffre di sintomi depressivi, e in particolare i sintomi sono più frequenti tra le donne (che sono l’8% rispetto al 5% degli uomini), nelle persone fra i 50 e i 69 anni, tra le classi socialmente svantaggiate per difficoltà economiche, e tra chi soffre di patologie croniche (Fonte: sorveglianza epidemiologica “Passi”).</p>
<p>Visti questi numeri, in redazione eravamo convinti che l’<strong>aumento</strong> al ricorso di <strong>farmaci antidepressivi</strong> fosse imputabile alla costante di ansia e paura in cui viviamo da qualche anno.</p>
<p>E in effetti rispetto al 2019 un aumento c’è stato, ma non si può imputare del tutto alla pandemia, alla guerra e alla povertà che cresce. In realtà, come dimostra il rapporto Os-Med (osservatorio nazionale sull’impiego dei farmaci) redatto dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA),l’aumento degli psicofarmaci è un trend che <strong>va avanti da qualche anno</strong>.</p>
<p>I numeri potrebbero essere anche peggiori di quelli analizzati, perché nonostante oggi siano disponibili numerosi trattamenti efficaci, i <strong>disturbi depressivi</strong> sono ancora <strong>sottovalutati</strong> e <strong>poco riconosciuti</strong>, soprattutto da una certa fascia della popolazione. In sostanza c’è chi abusa dei farmaci e chi ancora rifiuta di assumerli a causa dallo stigma che li accompagna.</p>
<p>Sempre secondo il rapporto AIFA, nel 2021 il consumo giornaliero degli antidepressivi è aumentato del 2,4% rispetto al 2020, e con una variazione media annua del 1,9% dal 2014. In sostanza nel 2021 il consumo degli <strong>antidepressivi</strong> ha rappresentato il <strong>3,4% del consumo totale di farmaci</strong> in Italia, e il costo medio per la dose giornaliera è stato di 0,42 euro. In pratica gli antidepressivi costano poco al pubblico, ma le persone depresse rappresentano un costo altissimo per il sistema sanitario.</p>
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<figure class="aligncenter size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-2.png"><img loading="lazy" decoding="async" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-2.png" alt="" class="wp-image-52869" width="723" height="392" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong><em>Antidepressivi, andamento temporale 2014-2021 del consumo e del costo medio per giornata di terapia. Fonte Rapporto OS-Med 2021 </em></strong></figcaption></figure>
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<p>Il rapporto AIFA compie anche una <strong>distinzione per Regioni</strong> rispetto all’uso di farmaci antidepressivi, e al primo posto ne mette una per me insospettabile, la <strong>Toscana</strong>, che ha un consumo quasi doppio rispetto alla Campania e alla Basilicata. Anche il <strong>Friuli</strong>, che è la regione con minor consumo nazionale, registra comunque un aumento nell’ultimo anno. In pratica tutte le Regioni rilevano degli aumenti di spesa e consumo rispetto al 2020. In generale le Regioni del Centro hanno un livello di utilizzo superiore di circa il 10% rispetto a quello del Nord, e del 33% rispetto al Sud.</p>
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<h2 id="h-david-lazzari-in-molti-assumono-farmaci-perche-non-hanno-accesso-ad-aiuti-psicologici">David Lazzari: “In molti assumono farmaci perché non hanno accesso ad aiuti psicologici”</h2>
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<p>Assodato il fatto che facciamo sempre più uso di farmaci antidepressivi e che la colpa non è solo della pandemia e della guerra, ho cercato di capirne le motivazioni con <strong>David Lazzari</strong>, presidente dell’ordine degli psicologi dal 2020. Abbiamo richiesto il suo intervento perché è importante comprendere che i farmaci, in caso di stato depressivo, aiutano, ma non sono una manna del cielo, e la consulenza di uno psicologo deve essere sempre più richiesta e frequente. Magari mutuabile. Perché la <strong>depressione</strong> non aumenta solo la sofferenza personale e la disabilità psicosociale, ma<strong> fa lievitare anche i costi sociosanitari</strong>.</p>
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<p><strong>Presidente, che cosa ha fatto aumentare il ricorso ai farmaci antidepressivi negli ultimi anni?</strong></p>
<p>L&#8217;aumento degli psicofarmaci è un trend che va avanti da tempo. C’è un uso spesso incontrollato o un vero e proprio abuso. Al di là dei casi necessari e appropriati, il problema è che molti pensano che ci sia una pillola magica che risolve tutti i problemi. Ma ci sono anche molte persone che prendono i farmaci perché non riescono ad avere un aiuto psicoterapico o psicologico.</p>
<p>&nbsp;<strong>Quanto sono aumentati i casi di ansia e depressioni, i disturbi del sonno e i disturbi alimentari?</strong></p>
<p>Sono aumentati i disturbi più strutturati, ma soprattutto le situazioni di disagio psicologico. Le situazioni più gravi per fortuna non hanno avuto per ora un incremento significativo, ma se non si interviene su questa marea crescente di malessere, soprattutto con azioni di prevenzione, promozione delle risorse e intercettazione precoce, ci ritroveremo delle ricadute molto negative sulla salute fisica e psichica delle persone. Nello specifico i problemi del sonno e dell’alimentazione sono spesso legati alla fase adolescenziale o allo stress nella vita adulta, e sono aumentati durante la pandemia. Ora bisognerà osservare l’andamento per capire meglio il quadro. In genere le ricerche ci consegnano una maggiore incidenza di problemi e disturbi negli adolescenti e nei giovani. Sembra che queste fasi della vita siano diventate ancor più problematiche e incerte.</p>
<p><strong>Quali sono le cause principali, secondo lei?</strong></p>
<p>I cambiamenti sociali hanno reso il mondo più veloce e più complesso, direi anche più competitivo. I riferimenti tradizionali sono venuti meno e questo ha creato un diffuso disorientamento. Dobbiamo dare ai ragazzi degli strumenti nuovi per capirsi, capire il contesto e orientarsi. La scuola deve aggiornare la sua missione e il contributo degli psicologi è necessario per lo sviluppo delle competenze di vita nei giovani, per aiutare i docenti nel loro lavoro e la scuola come organizzazione che promuove consapevolezza e benessere. Ma il problema del disagio psicologico riguarda comunque tutte le fasce d’età.&nbsp;</p>
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<figure class="aligncenter size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-3.png"><img loading="lazy" decoding="async" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-3.png" alt="" class="wp-image-52875" width="719" height="319" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong><em>Distribuzione della prevalenza d&#8217;uso e del consumo di antidepressivi in regime di assistenza convenzionata.                                                                 Fonte Rapporto OS-Med 2021</em></strong></figcaption></figure>
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<p><strong>Sono aumentate le persone che richiedono l’intervento degli psicologi?</strong></p>
<p>Abbiamo fatto un’indagine sulla comunità professionale che ci mostra un aumento del 40%. Questo è frutto non solo di un aumento dei problemi, ma anche – e per fortuna – di una diversa consapevolezza. Oggi c’è meno vergogna rispetto al passato, l&#8217;idea che chi ha i problemi è un debole è oggi meno diffusa, e sempre più persone vedono queste problematiche&nbsp;come parte della vita che meritano di essere affrontate.</p>
<p>&nbsp;<strong>La legge 15/2020 ha previsto un sostegno da 200 a 600 euro per terapie psicologiche, erogabile una sola volta. Ma la sfera sociale è in un momento di sofferenza psicoemotiva. Non sarebbe il caso di investire più risorse sanitarie nello psicologo di base?&nbsp;Si potrà arrivare secondo lei a un servizio mutuabile?</strong></p>
<p>Il bonus psicologico è una grande svolta culturale e sociale perché ha riconosciuto l&#8217;importanza di questi problemi e la necessità di una risposta&nbsp;pubblica. Ovviamente, come abbiamo sempre detto, serve una risposta articolata che metta le infrastrutture sociali – scuola, sanità, welfare – nella condizione di fare attività efficaci con l’uso appropriato di competenze psicologiche. Di certo lo psicologo di base è una figura necessaria, perché la medicina di famiglia intercetta tante situazioni di questo tipo e oggi non è nelle condizioni di dare una risposta.</p>
<p>&nbsp;<strong>Secondo lei abbiamo abbastanza psicologi in Italia per soddisfare le esigenze, nel caso il servizio diventasse mutuabile?</strong></p>
<p>Il nostro Paese ha normative avanzate sulla formazione di psicologi e psicoterapeuti, e al nostro ordine abbiamo oltre 100.000 iscritti. Quindi sì, c’è la concreta possibilità di rispondere a queste esigenze.&nbsp;</p>
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Mariani

Lara Mariani

Giornalista per indole, fotografa per passione, ama vedere la realtà da alternativi punti di vista e non crede nei confini netti, né geografici né sociali. Dopo la laurea in Scienze Politiche e un master in comunicazione ha lavorato 10 anni per una casa editrice bolognese. Oggi, oltre a essere responsabile di redazione di SenzaFiltro collabora con l’ufficio comunicazione del Cefa, una ong che aiuta le comunità più povere del mondo a raggiungere l’autosufficienza alimentare. Inoltre, collabora con TerzoTropico e Tempo e Diaframma, associazioni culturali che realizzano reportage, mostre e volumi fotografici. È autrice del volume “I portici di Bologna, patrimonio di cultura e identità”, Minerva edizioni. &#8212; MAIL DI REDAZIONE: lara.m@fiordirisorse.eu

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L&#8217;utilizzo di psicofarmaci è un fenomeno in crescita costante da diversi anni, e si è acuito dopo la pandemia. È il sintomo di una sofferenza diffusa e di una cultura della salute mentale ancora insufficiente. Come le risposte del Servizio sanitario nazionale.

David Lazzari, presidente dell’ordine degli psicologi: “Lo psicologo di base contro l&#8217;uso di psicofarmaci” - Informazione senza filtro

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<p>“Prima di parlare della <strong>salute mentale dei migranti</strong>, e se vuole dei disturbi da stress post-traumatico provocati dalle torture che subiscono nei centri di reclusione libici o nei viaggi in mare sempre in bilico tra la vita e la morte, vorrei fare una premessa che considero essenziale per comprendere ciò che sta accadendo, tenuto conto dei tanti luoghi comuni che spesso vengono utilizzati per analizzare un fenomeno che lascerà un segno nella storia dell’uomo.”</p>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile" style="grid-template-columns:43% auto"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="853" height="723" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Marco-Mazzetti-copia_1.webp" alt="" class="wp-image-52804 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p><strong>Marco Mazzetti</strong>, presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, ha 64 anni, e nella sua vita professionale si è sempre occupato del fenomeno della <strong>migrazione</strong>, analizzato come evento epocale e non contingente. Nasce come pediatra, poi si occupa di psichiatria.</p>



<p>“La medicina”, ci spiega, “non può essere sganciata dalla realtà sociale nella quale viviamo”. E così per anni lavora come medico cooperante in Africa per poi mettere mani e piedi nella piaga della povertà in Italia, collaborando attivamente con la Caritas.</p>
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<p><strong>Dalle sue prime battute mi pare che il suo non sia il linguaggio di un tecnico, ma piuttosto uno sguardo ragionato al fenomeno drammatico che proprio in questi giorni sta mettendo in crisi le diplomazie europee. Che cosa pensa di quello che sta accadendo?</strong></p>



<p>Guardi, io parto da questo presupposto assai radicale: il fenomeno migratorio o lo gestiamo o lo subiamo. La storia non la si può fermare. Non soltanto perché l’homo sapiens è migrante per natura, ma perché – se vogliamo arrivare ai nostri giorni – la questione chiave è che migrare fa parte dei diritti naturali degli esseri umani, proprio come quello di liberarsi dalla povertà e trovare di che vivere. È la povertà a dover essere combattuta, non la migrazione. Oggi ci troviamo in una fase storica molto complessa: esplosione demografica e confini nazionali chiusi ci condurranno a una limitazione dei diritti naturali, di cui lo <em>ius migrandi, </em>il diritto a migrare, è una parte essenziale? Forse è davvero così, dato che in molti luoghi del pianeta non è garantito neanche il diritto a nutrirsi e ad avere cure mediche.</p>



<p><strong>Non mi pare però che la politica in Italia sia sensibile a questa lungimiranza. L’idea dei respingimenti o dei blocchi navali annunciati dal governo Meloni credo che vadano nella direzione opposta a quello che lei definisce lo <em>ius migrandi. </em>O sbaglio?</strong></p>



<p>No, non sbaglia. Nel 2002 venne approvata, da un governo di destra, la legge Bossi-Fini, che tra l’altro aboliva il permesso di soggiorno per ricerca lavoro, obbligava alla registrazione delle impronte digitali per il permesso di soggiorno e creava condizioni difficili e preoccupanti per far valere il diritto d’asilo, tra cui il principio del respingimento (soprattutto in Libia). Ma va ricordato che se la cattiva legge Bossi-Fini l’ha fatta la destra, la sinistra l’ha conservata intatta per gli undici anni e mezzo complessivi in cui è stata al governo. In questi stessi anni si è discusso di agevolare la cittadinanza ai bambini figli di immigrati cresciuti e scolarizzati in Italia, ma nulla è stato fatto, né dalle destre né dalle sinistre, e si sono finanziati centri di detenzione in Libia in cui vengono trattenuti potenziali richiedenti asilo in Italia in condizioni inumane. Possiamo dire che con le nostre tasse finanziamo i torturatori libici, i quali producono i profughi vittime di violenza che poi ci troviamo a curare: una situazione davvero paradossale. Ecco che torniamo al tema originario della salute mentale.</p>



<p><strong>Perché si parla poco della salute mentale degli emigranti?</strong></p>



<p>Perché sui grandi numeri questo non è un problema. Gli immigrati godono, nel loro complesso, di una buona salute mentale, statisticamente un poco migliore di quella della popolazione italiana. Del resto, se così non fosse, non affronterebbero un’avventura impegnativa come la migrazione. Certo, c’è una piccola minoranza tra loro, come le dicevo; quella che arriva attraverso viaggi pericolosi (mentre la stragrande maggioranza degli immigrati viene nel nostro Paese in aereo o in autobus) e che affronta condizioni particolarmente traumatiche. In particolare coloro che passano attraverso la Libia subiscono spesso, nei centri illegali di detenzione, torture e violenze che possono determinare l’insorgere di disturbi da stress post-traumatico. In modo analogo, chi affronta viaggi che mettono a rischio la sua vita può assistere alla morte di famigliari e amici durante il percorso migratorio. L’epidemiologia delle migrazioni in Italia parla chiaro: nonostante le voci su presunte importazioni di malattie esotiche, gli immigrati non portano malattie. Le indagini fatte su questo argomento dimostrano che essi partono sani e sani arrivano da noi; questo è vero sia per quanto riguarda la salute fisica che quella mentale. Si ammalano poi nel nostro Paese a causa delle condizioni di vita che trovano, ad esempio quelle di lavoro; in questo senso i dati sull’infortunistica parlano chiaro. Lo stesso vale per la salute mentale, per cui il fattore di rischio fondamentale sono le pericolose condizioni di viaggio che la piccola minoranza che arriva con gli sbarchi si trova ad affrontare.</p>



<p><strong>Qual è a suo parere il peccato originale dei governi europei sul tema dell’immigrazione?</strong></p>



<p>In molti casi, tra cui purtroppo rientra l’Italia, è l’incapacità a gestire e a governare i flussi migratori, l’incapacità di attuare una politica di integrazione. Quella che chiamiamo classe politica si è dimostrata particolarmente scadente e disinteressata ai diritti dei migranti, negli ultimi vent’anni. Lo stesso termine “classe politica”, che è invalso da qualche tempo, indica la percezione dei detentori del potere politico come una classe sociale a sé, separata dal resto della popolazione. Alcuni governi non capiscono che con la crisi demografica che investe l’Europa noi abbiamo bisogno dell’immigrazione. L’ultimo tentativo di proporre in Italia una politica di integrazione risale al 1998 con la legge Turco-Napolitano. Poi sono arrivate le suggestioni leghiste, e quel saggio tentativo è stato sotterrato dalla propaganda che ancora oggi domina la scena italiana. Rudolf Virchow, patologo, antropologo e politico tedesco, già nell’Ottocento sosteneva che la medicina dev’essere considerata una scienza sociale, e la politica una medicina su larga scala. L’epidemiologia, ad esempio, ci ha dimostrato che il miglioramento delle condizioni abitative (acqua corrente in casa, buona illuminazione e arieggiamento), cioè l’effetto di azioni politiche, ha avuto un impatto più importante degli antibiotici nel ridurre i tassi di tubercolosi nella popolazione generale. Tornando all’attualità, i governi italiani avrebbero dovuto guardare con più attenzione alla politica intelligente in materia di immigrazione messa in atto dalla Germania. Anche in Germania c’è un serio problema demografico, ma loro lo hanno affrontato con una politica di integrazione, scegliendo e formando le professionalità che gli offrono i flussi migratori. Per fare questo però è necessario pianificare il mercato del lavoro in relazione ai flussi migratori. Fino a quando si pensa soltanto ai respingimenti non si va molto lontano.</p>



<p><strong>Lei pensa che una politica di integrazione in Italia sia possibile?</strong></p>



<p>Intanto credo che i processi di integrazione in Italia non siano all’anno zero. Forse non c’è ancora la percezione di questo fenomeno nella popolazione generale, ma se si guardano con attenzione i dati economici si scopre che molto è cambiato: l’imprenditoria immigrata è particolarmente di successo in numerosi settori dell’economia (edilizia, imprese di pulizie, ristorazione eccetera). Così come l’integrazione dei figli degli immigrati, che cominciano ad affollare le nostre università. Per non dire di quanto gli immigrati sostengano in modo fondamentale il nostro mercato del lavoro e il nostro sistema previdenziale. Siamo in presenza di fenomeni economici sani, promettenti e in grande crescita. Lo ripeto, verso i fenomeni migratori non abbiamo alternative: o li subiamo o li gestiamo. Quello che è certo e che non possiamo evitarli.</p>



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<p><strong><em>In copertina foto di Tania Dimas da Pixabay</em></strong></p>


I migranti arrivano sani e perdono la salute in Italia

<p>La Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA), che da almeno dieci anni osserva il costante aumento degli accessi in ospedale di <strong>minori</strong> per cause legate a <strong>disturbi psichiatrici</strong> – tra il 5 e il 10% l’anno – rileva come tra il 2021 e il 2022 questo numero abbia superato i livelli pre-COVID.</p>
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<figure class="wp-block-image size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Druidi1.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Druidi1.png" alt="" class="wp-image-52785" /></a></figure>
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<p>Riducendo l’attenzione collettiva ai bisogni delle generazioni più giovani, la <strong>pandemia</strong> ha fatto da detonatore di un disagio che oggi si manifesta in gravi problemi di neurosviluppo e salute mentale; problemi che rischiano di diventare cronici e diffondersi su larga scala. A sottolinearlo è la ricerca <em>Pandemia, neurosviluppo e salute mentale</em> <em>di bambini e ragazzi</em> (diffuso da AGIA e ISS), che conferma da tutti i presidi di competenza l’<strong>incremento di disturbi </strong>del comportamento alimentare, tentati suicidi e suicidi, episodi di autolesionismo, alterazioni del ritmo sonno-veglia e ritiro sociale. Crescono anche le richieste d’aiuto per l’uso di sostanze psicoattive, cannabinoidi e alcool.</p>
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<h2 id="h-gioventu-rubata-le-illusioni-perdute-e-la-rimozione-della-morte">Gioventù rubata, le “illusioni perdute” e la rimozione della morte</h2>
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<p>Noto psichiatra e psicoterapeuta, fondatore dell’istituto Minotauro (a cui si affiancano Fondazione e Cooperativa sociale), <strong>Gustavo Pietropolli Charmet</strong> nel suo saggio <em>Gioventù rubata &#8211; Che cosa la pandemia ha tolto agli adolescenti e come possiamo restituire il futuro ai nostri figli </em>(Bur) ha cercato di dipanare i fili che collegano i sintomi di cui soffrono og­gi gli adolescenti alle esperienze e ai traumi sperimentati negli ultimi due anni.</p>
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<figure class="alignleft size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/PietropolliCharmet2.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/PietropolliCharmet2-1024x649.jpg" alt="" class="wp-image-52753" width="521" height="330" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><em><strong>Gustavo Pietropolli Charmet</strong>, psichiatra e psicoterapeuta</em></figcaption></figure>
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<p>“La pandemia ha finito per essere una <strong>grave sconfitta del mondo educativo</strong>”, scrive l’autore, “nel corso della quale gli adulti si sono dimenticati di proteggere e tutelare gli adolescenti, abbando­nandoli ai loro fantasmi”. Il progressivo prevalere, negli ultimi decenni, della famiglia affettiva sulla famiglia etica, fondata sulla trasmissione di valori morali, norme e regole condivise da rispettare, spesso scandita da divieti e all’occorrenza punizioni, ha portato all’affermazione di una “<strong>cultura narcisistica</strong>”, spiega a <em>SenzaFiltro</em> Gustavo Pietropolli Charmet. “Una cultura che rimuove la dimensione della sconfitta, della solitudine e della morte”.</p>
<p>È invece importante confrontarsi con il <strong>tema della morte</strong>, che resta invece un tabù nel modello educativo attuale, ancora più assente nella relazione adulti-minori nei giorni più bui della pandemia. “Ai ragazzi serviva una spiegazio­ne credibile dei motivi per i quali il virus aveva costretto tutti a cambiare abitudini e a fare molte rinunce. Bisogna rifondare la rappresentazione di cosa è la vita, che è fatta anche di morte, di momenti di successo e disastro personale”.</p>
<p>Per gli <strong>adolescenti</strong> la pandemia ha preso i contorni di un autentico disastro: un combinato disposto di restrizioni, coprifuochi, limitazioni alla libertà e alla socialità, crescente sfiducia nei confronti del mondo adulto e delle sue istituzioni, che li ha lasciati soli e disorientati a elaborare il caos. Per Pietropolli Charmet l’origine di questa ondata di sofferenza – e anche di violenza, se si pensa al fenomeno della baby gang – è la <strong>grande disillusione dei giovani</strong> nei confronti delle loro aspettative di realizzazione e benessere.</p>
<p>“Nella mente di alcuni adolescenti, soprattutto di quelli più fragili, potrebbe essersi avvera­ta la domanda ‘<strong>ma allora non era vero niente?</strong>’. Le promesse legate all’affermazione personale, al riconoscimento sociale e all’agiatezza futura garantite dalla cultura narcisistica si sono dissolte con l’arrivo sulla scena del virus. La pandemia ha messo in discussione tutti i valori e le sicurezze ricevute”.</p>
<p>Il <strong>lockdown</strong> – l’essere stati chiusi dentro casa, perdendo i propri riti e rituali fuori – e le <strong>difficoltà della scuola</strong> hanno aggravato il malessere. “La scuola che traballa sconquassa il sentimento di identità del giovane studente e lo lascia desolato, privo di difese”, carente rispetto al percorso di diventare grande, afferma lo psicoterapeuta.</p>
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<h2 id="h-disagio-a-scuola-l-impatto-del-covid-19-in-ambito-didattico">Disagio a scuola: l’impatto del COVID-19 in ambito didattico</h2>
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<p>L’effetto della chiusura delle scuole e dell’esperienza della <strong>DaD</strong> è stato dirompente, soprattutto sui ragazzi più fragili e con background migratorio. Sempre la ricerca <em>Pandemia, neurosviluppo e salute mentale</em> <em>di bambini e ragazzi </em>segnala l’insorgenza di <strong>disturbi</strong> dell’apprendimento, dell’attenzione e del linguaggio, disturbi della condotta e della regolazione cognitiva ed emotiva, così come fobie scolastiche, stati ansiosi e depressivi, fino a casi di abbandono scolastico.</p>
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<figure class="alignleft size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/MilenaPiscozzo-scaled.jpeg"><img loading="lazy" decoding="async" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/MilenaPiscozzo-1024x681.jpeg" alt="" class="wp-image-52758" width="559" height="371" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong><em>Milena Piscozzo, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Riccardo Massa” di Milano</em></strong></figcaption></figure>
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<p>“La pandemia ha acuito alcune situazioni di fatica dei nostri ragazzi”, conferma <strong>Milena Piscozzo</strong>, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Riccardo Massa” di Milano, che testimonia un aumento di casi di <strong>ritiro sociale</strong> degli studenti. “La mancanza o limitazione della relazione con i pari determinata dal COVID-19 ha impattato meno sui bambini e più su adolescenti e soprattutto preadolescenti, che vivono il rapporto con il gruppo come un elemento centrale, considerando anche che la scuola – come già abbiamo avuto modo di osservare negli anni precedenti la pandemia – è quasi l’unico contesto in cui i ragazzi esperiscono ancora comportamenti sociali. Fuori prevale la piazza virtuale”.</p>
<p>Si avverte oggi la fatica da parte di alcuni studenti di <strong>gestire conflitti e confronti con i coetanei</strong>. “Come scuola cerchiamo di favorire la socialità – così come l’inclusione – non tanto nel tempo della ricreazione, quanto nell’attività didattica vera e propria. Sto lavorando con i miei docenti a metodologie di <em>cooperative learning</em>, o apprendimento cooperativo, che permetta ai ragazzi di partecipare attivamente al loro percorso di crescita sotto la guida dell’insegnante, superando la lezione frontale, non positiva in questo momento storico”.</p>
<p>La pandemia, aggiunge Milena Piscozzo, ha permesso di rivedere il modo di fare scuola e gestire la motivazione degli studenti; le criticità della DaD hanno portato i docenti ad attivarsi su altre metodologie. Per <strong>Stefano Vicari</strong>, responsabile Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza nell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, gli insegnanti devono soprattutto essere “<strong>educatori alle relazioni interpersonali</strong>”. Lo stesso Gustavo Pietropolli Charmet nel suo saggio invoca per l’insegnamento “una più esplicita intenzione educativa”, rimarcando inoltre il ruolo della consulenza psicologica nelle scuole.</p>
<p>“Lo <strong>psicologo scolastico</strong>, a maggior ragione dopo la pandemia, è una figura di riferimento fondamentale all’interno degli istituti, in grado di aiutare gli adolescenti in difficoltà e fornire ai docenti strumenti per gestire situazioni delicate”, conclude Milena Piscozzo.</p>
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<h2 id="h-adolescenti-e-futuro-manca-la-voglia-di-progettualita">Adolescenti e futuro: manca la voglia di progettualità</h2>
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<p>I ragazzi italiani giudicano in modo negativo gli effetti prodotti dagli anni del <strong>COVID-19</strong> sulla loro <strong>preparazione scolastica</strong>. È uno dei dati che emergono dall’indagine annuale sugli stili di vita degli adolescenti italiani, realizzata da 25 anni dall’associazione no-profit Laboratorio Adolescenza e dall’Istituto di ricerca IARD su un campione nazionale rappresentativo di oltre 5.700 studenti dai 13 ai 19 anni.</p>
<p>Per il 70% la formazione è stata abbastanza o molto penalizzata dalla pandemia. La percentuale sale ancora e supera il 75% nel caso degli studenti delle scuole superiori, senza differenze significative tra licei, scuole tecniche o professionali.</p>
<p>Il COVID-19 ha “sabotato” la <strong>progettualità</strong> dei giovani. A preoccupare di più, infatti, è l’incertezza rispetto al futuro. Il 52,7% del campione guarda al domani definendosi “incerto” o “preoccupato”.</p>
<p>“Cala la percentuale degli studenti che programma di iscriversi all’università: il 63% rispetto al 76,8% del 2018. In linea con il generalizzato crollo delle immatricolazioni degli atenei italiani nell’ultimo anno accademico”, spiega <strong>Maurizio Tucci</strong>, presidente di Laboratorio Adolescenza. “In questa reticenza a investire sul proprio futuro pesano anche la difficoltà a trovare lavoro dopo la laurea e il costo degli studi universitari, che pesa sempre di più sui bilanci famigliari”.</p>
<p>I questionari sono stati somministrati a partire da marzo 2022. “Il <strong>pessimismo</strong> espresso dai giovani, già duramente colpiti a livello psicologico, è stato amplificato dalla <strong>guerra in Ucraina</strong>”.</p>
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<h2 id="h-come-affrontare-il-disagio-psichico-degli-adolescenti">Come affrontare il disagio psichico degli adolescenti</h2>
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<p>A oggi purtroppo in Italia c’è una <strong>scarsa cultura sulla salute mentale</strong>: occorrono maggiori risorse per la cura e la prevenzione. Genitori, insegnanti e medici sono chiamati a cogliere il prima possibile eventuali segni di disagio negli adolescenti. Conoscerli meglio è un punto di partenza fondamentale.</p>
<p>“C’è una difficoltà strutturale del mondo adulto a entrare in contatto con gli adolescenti, se non tramite cliché”, commenta Maurizio Tucci, che nel suo saggio <em>Adolescenza non luogo</em> (I libri di Emil, 2022) traccia un parallelo tra l’età di transito per definizione e i non luoghi così come definiti dall’antropologo Marc Augé.</p>
<p>“<strong>Gli adulti considerano i ragazzi tutti uguali</strong>. Non c’è la volontà, la capacità e l’interesse a cambiare approccio e vederli come <strong>individui singoli</strong>, e non solo nelle vesti di studenti. La scuola, lo sappiamo, è una parte fondamentale della loro vita, ma non esaurisce la loro identità. Il COVID-19 non ha fatto altro che perorare la mia riflessione: i provvedimenti emessi nelle varie fasi dell’emergenza hanno assimilato gli adolescenti di volta in volta ai bambini o agli adulti, senza farne mai portatori di istanze proprie.”</p>
<p>Per ristabilire la ripresa evolutiva dei ragazzi in crisi serve “un grande sforzo educativo comune realizzato attraverso un processo di <strong>integrazione di tutte le risorse del territorio</strong>, dalle scuole ai servizi”, afferma Gustavo Pietropolli Charmet. La necessaria alleanza fra le generazioni passa dalla sincerità degli adulti a trattare temi come la morte e la sconfitta e la capacità di <strong>coinvolgere gli adolescenti nella risoluzione dei problemi</strong> – il COVID-19, ad esempio – e nella “<strong>costruzione del domani</strong>”.</p>
<p>Ai giovani, conclude lo psicoterapeuta, spetta un riconoscimento per il loro sacrificio in termini di risorse, riforme, e la “promessa che, se si dovessero ripetere ancora attacchi alla nostra orga­nizzazione sociale, si terrà conto anche di loro e della loro salute”.</p>
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<p><strong><em>In copertina foto di natureaddict da Pixabay </em></strong></p>


druidi

Druidi

Francesca Druidi

Giornalista professionista, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione lavora presso realtà editoriali bolognesi e non, in redazione e come collaboratrice esterna. L’articolo di cui va più orgogliosa è l’intervista ai progettisti del mega grattacielo Burj Khalifa di Dubai, che hanno sfidato il cielo e la natura per imporre nuovi standard architettonici. Appassionata da sempre di serie tv, animazione e cinema &#8211; macchina dei sogni e al contempo specchio del reale &#8211; frequenta quando può festival cinematografici e ne scrive (www.whipart). Libri, viaggi ed enogastronomia sono i suoi viatici per la felicità.

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Aumenta il disagio psichico degli adolescenti dopo la pandemia: gli educatori li hanno lasciati soli ad affrontare il tema della morte. Ne parliamo, tra gli altri, con lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet.

Generazione COVID, i giovani traditi dal sistema educativo - Informazione senza filtro

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<p>Fragili, umorali, sensibili al limite del patologico. È lo stereotipo che accompagna ogni <strong>donna</strong>, quello che sul <strong>posto di lavoro</strong> diventa il pretesto per svilire il ruolo delle lavoratrici, metterle in una condizione di subalternità psicologica e farne il capro espiatorio di ridimensionamenti aziendali o meschine rivalse.</p>



<p>Partiamo dai rilevamenti scientifici, quelli diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità. Quasi <strong>una donna su quattro</strong> (24%) rischia di soffrire di un <strong>disagio psichico</strong> nel corso della vita, e le donne hanno una probabilità quasi tre volte maggiore rispetto agli uomini di sviluppare un disturbo mentale, in particolare <strong>depressione</strong> e <strong>ansia</strong>. Inoltre, esistono disturbi psichici esclusivamente femminili o quasi, come quelli della <strong>sfera alimentare</strong>, dove il rapporto donna-uomo arriva a essere di 9 a 1.</p>



<p>Le ragioni sono da ricercarsi in fattori sociali e ambientali, oltre che biologici; le donne devono conciliare troppe cose, spesso troppe di più rispetto ai maschi. È il <strong>carico di cura</strong> di cui si parla sempre quando si affronta la questione femminile, soprattutto in Italia: cura dei figli e dei genitori in assenza di servizi per l’infanzia e per gli anziani, cura della casa. E, quando hanno la fortuna di averlo, cura del lavoro. È vero, la biologia ci dice che sono più sensibili a depressione, ansia e insonnia, ma il fattore ambientale ha un ruolo centrale. L’essere più svantaggiate sul lavoro, con stipendi più bassi, meno possibilità di carriera e più probabilità di essere discriminate e licenziate le sottopone a una pressione costante, in una condizione di stress perpetuo.</p>



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<h2 id="h-discriminazione-e-mobbing-sono-le-donne-le-vittime-perfette">Discriminazione e mobbing, sono le donne le vittime perfette?</h2>



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<p>A dare man forte a questa <strong>visione</strong> “<strong>di genere</strong>” <strong>dello stress da lavoro</strong> concorre una recente ricerca, svolta nel Regno Unito da studiosi italiani e inglesi, che ha dimostrato il nesso causale tra qualità del lavoro e salute mentale dei lavoratori, soprattutto per le donne.</p>



<p>Lo studio, pubblicato sulla rivista&nbsp;<em>Labour Economics</em> e condotto dai docenti di Economia politica&nbsp;Michele Belloni&nbsp;dell’Università di Torino,&nbsp;Elena Meschi&nbsp;della Bicocca di Milano e da&nbsp;Ludovico Carrino,&nbsp;ricercatore&nbsp;dell’Ateneo di Trieste e&nbsp;del King’s College di Londra, ha mostrato come il rischio di sviluppare <strong>stress</strong> o <strong>ansia</strong> sia collegato alle <strong>condizioni lavorative</strong>. In particolare a richieste elevate, ridotta autonomia decisionale, scarsa valutazione delle competenze, assenza di supporto sociale, squilibrio tra impegno e retribuzione, ingiustizia percepita relativamente all’imparzialità e rispetto con cui i dipendenti sono trattati dai superiori.</p>



<p>Inoltre la ricerca ha messo in evidenza che sono le <strong>donne</strong> a pagare il prezzo più alto, in quanto <strong>la loro salute mentale è più sensibile</strong> a variazioni nella <strong>qualità del lavoro</strong>, ma anche – sarebbe da aggiungere – in quanto più soggette a questo tipo di fenomeni.</p>



<p>Svalutazione, isolamento, umiliazioni, disparità di trattamento sono infatti tutti elementi che suoneranno familiari a chi, per qualunque motivo, si sia imbattuto in storie di discriminazione e mobbing. Proprio come quella che stiamo per raccontare.</p>



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<h2 id="h-hai-fatto-un-elvirata-quando-il-mobbing-chiama-per-nome">“Hai fatto un’elvirata”: quando il mobbing chiama per nome</h2>



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<p>Milano, settembre 2014. <strong>Elvira</strong> è assunta in una rivista con contratto a tempo determinato. Da subito le assegnano la responsabilità di intere sezioni del giornale, i colleghi e il direttore mostrano di apprezzare molto il suo lavoro, e man mano che i contratti vengono rinnovati aumentano le responsabilità e l’impegno richiesti: nessun orario, zero vita privata e una crescente ansia da prestazione, perché è l&#8217;ultima arrivata, ha il contratto periodicamente in scadenza e un direttore che stravolge il giornale in continuazione, per cui lei cerca di essere sempre pronta a adeguarsi alle richieste.</p>



<p>Poi, però, dopo circa un anno <strong>il clima cambia</strong>. Senza capirne la ragione, nel giro di qualche settimana il lavoro di Elvira diventa insoddisfacente, prima per il direttore, poi a ruota anche per i colleghi: “In questo pezzo non si capisce un cazzo, è scritto in un italiano approssimativo”, “sei lenta, lenta”. E poi urla, insulti, minacce.</p>



<p>Il copione, da qui in poi, è da manuale: Elvira è progressivamente <strong>demansionata</strong>, ogni volta che scrive un articolo viene passato a un collega che lo riscrive di sana pianta, resta ore a fissare lo schermo del computer senza nulla da fare. “Una volta fui convocata nell’ufficio dei grafici. Avevo lasciato da impaginare alcune foto per una rubrica e il grafico ancora non le aveva messe in pagina. Davanti a tutti, <strong>il direttore iniziò a urlarmi contro frasi aggressive</strong>, <strong>sprezzanti</strong>, <strong>irripetibili</strong>. La violenza di quella sfuriata, il suo viso paonazzo vicino al mio, gli occhi folli di rabbia mi portarono sull’orlo delle lacrime. Io, una donna di più di quarantadue anni, stavo per scoppiare a piangere davanti all’intero ufficio. Non dimenticherò mai l&#8217;umiliazione, la vergogna, la rabbia di quel lungo momento. Decisi che con me avevano chiuso. Non sapevo ancora come e quando, ma sapevo che dovevo andare via di lì”.</p>



<p>E poi c&#8217;è l’<strong>isolamento</strong>, perché la solidarietà tra colleghi non esiste più, diventi un paria, e perché anche chi ti vuole bene fatica a entrare nei tuoi panni. “Noi puoi piangere per questo, è solo lavoro”, dicevano suo padre e suo marito. Già, come spiegarlo a chi non c’è mai passato? Come spiegare l’angoscia quando ogni errore commesso da chiunque diventa una “elvirata”, il proprio nome trasformato in sinonimo di incompetenza?</p>



<p>Così, anche Elvira entra nella spirale psicologica della <strong>depressione</strong>. La prima cosa a sparire è il <strong>sonno</strong>; le poche ore di riposo sono popolate da sogni orrendi, e ogni mattina alzarsi dal letto diventa più difficile. E poi le <strong>crisi d’ansia</strong>, la <strong>bulimia</strong>, le <strong>emicranie devastanti</strong>, la <strong>tachicardia</strong>, con quella sensazione di morte che il cuore voglia balzare fuori dal petto. Poi, però, Elvira rimane incinta, e per se stessa e il suo bambino capisce che è il momento di andare via. Il bambino non si salverà, troppo stress, dirà il medico. Ma lei, bene o male, sì.</p>



<p>“Ancora oggi, che sono passati sei anni, a volte sogno quell’ambiente e quelle situazioni”, dice. “E mi sveglio col cuore a mille, senza respiro”. Nonostante il tempo trascorso, la riconquista della fiducia nelle sue capacità e il riconoscimento di colleghi e superiori coi quali lavora oggi, quel senso di vergogna e di inferiorità, quella ritrosia ad avanzare proposte per il timore di dire banalità, non la abbandonano ancora del tutto.</p>



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<h2 id="h-fenomenologia-e-sintomi-dello-stress-da-lavoro-nelle-donne">Fenomenologia e sintomi dello stress da lavoro nelle donne</h2>



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<p>A introdurre implicitamente il concetto di “<strong>mobbing di genere</strong>” è lo stesso legislatore. Il d. lgs. 81/2008, il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, prevede infatti l&#8217;obbligo di valutare tutti i pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, fra cui quelli collegati allo stress lavoro correlato&#8230; alle differenze di genere”.</p>



<p>“Nel confronti del genere femminile il mobbing assume manifestazioni specifiche”, spiega la dottoressa <strong>Giovanna Castellini</strong>, psicologa presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano. “Quando si parla di mobbing di genere, le molestie sessuali sono la prima cosa alla quale si pensa, ma non sono certo l’unica o la più ricorrente. Le <strong>forme di mobbing più frequenti</strong> nei confronti delle donne riguardano la <strong>maternità</strong> e la <strong>gestione dei figli</strong> e si esplicano, per esempio, nell’ostacolare la conciliazione lavoro-famiglia o nell’emarginare e demansionare la lavoratrice che torna dopo la maternità, fino a spingerla al licenziamento. Oltre al fatto, noto, che le lavoratrici sono in genere pagate meno degli uomini e che di rado raggiungono posti di comando”.</p>



<p>Ma il mobbing interessa particolarmente le donne soprattutto in termini di <strong>virulenza e durata delle violenze</strong>, perché di questo si tratta, né più né meno. “Nella mia esperienza posso dire che, quando si parla di mobbing, la prevalenza delle donne non è significativa tanto da un punto di vista numerico, quanto per quel che riguarda l’intensità e la durata delle vessazioni, e quindi le loro <strong>conseguenze psicofisiche</strong>”, dice ancora Giovanna Castellini.</p>



<p>“Le lavoratrici tendono a resistere più a lungo alle angherie, perché devono sempre dimostrare più dei colleghi maschi e anche perché sanno che per loro è più difficile riciclarsi se perdono il posto. Il mobbing tende sempre a <strong>distruggere il senso di sé del lavoratore</strong>, a maggior ragione se indirizzato contro una donna, perché in questo caso colpisce non solo il profilo professionale, ma anche personale: allusioni al vestiario, alle abitudini sessuali, alla fisicità, alle condizioni personali, sono tipiche del mobbing di genere.”</p>



<p>E allora immaginiamola questa lavoratrice, demansionata, svilita professionalmente e denigrata come donna, costretta a tenere insieme famiglia e lavoro, che stringe i denti oggi, domani, il giorno dopo, per settimane, mesi, anni. Alla fine esplode, perché è umana, non perché è debole.</p>



<p>“Comincia con piccoli segnali con i quali il corpo somatizza il malessere psicologico: <strong>disturbi del sonno, emicranie, gastriti</strong>”, spiega la dottoressa Castellani. “Poi <strong>alterazioni dell’alimentazione e dell’umore</strong>. Tutto questo cresce, si somma, fino a che esplode in <strong>ansia</strong>, <strong>depressione</strong>, <strong>esaurimento</strong> <strong>nervoso</strong>, a volte <strong>pensieri suicidari</strong>. La salute mentale viene compromessa alla radice, e spesso la ripresa richiede anni di analisi e terapia farmacologica”.</p>



<p>Talvolta, purtroppo, va a finire anche peggio: la malattia che sta mandando in frantumi l’equilibrio psichico fa tabula rasa delle difese immunitarie, rendendo fragile il corpo.</p>



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<h2 id="h-l-ipotesi-di-correlazione-tra-stress-psicologico-e-cancro">L’ipotesi di correlazione tra stress psicologico e cancro</h2>



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<p>Sulla relazione tra stress, depressione, disagio psicologico in generale e insorgenza di <strong>tumori</strong> la comunità scientifica tende a escludere un nesso di causalità diretta. Tuttavia, secondo uno studio pubblicato sul <em>British Medical Journal</em> e guidato da&nbsp;David Batty&nbsp;del Dipartimento di epidemiologia e salute pubblica dell’University College di Londra,&nbsp;lo <strong>stress psicologico</strong> può essere <strong>predittivo di mortalità per alcuni tipi di cancro</strong>.</p>



<p>Secondo il ricercatore inglese, l’esposizione ricorrente a&nbsp;stress emotivi&nbsp;potrebbe diminuire la funzione delle cellule natural killer, e quindi ridurre il controllo di quelle tumorali e favorire l’insorgere di neoplasie. “I risultati della ricerca mostrano che le persone che vivono uno stato di&nbsp;disagio psicologico&nbsp;sono anche quelle che hanno registrato più alti tassi di mortalità per cancro all’intestino, alla prostata, al pancreas, all’esofago e per leucemia”, dice Batty. “Abbiamo dunque la conferma che una&nbsp;cattiva&nbsp;salute mentale può avere una certa capacità predittiva per alcune&nbsp;malattie fisiche. Siamo molto lontani dal sapere come si manifesti questa relazione, ma <strong>non possiamo negarla</strong>”.</p>



<p>Se, dunque, ancora non si può provare una correlazione biochimica tra disturbo mentale e malattie organiche, è riconosciuto che la depressione, l’ansia, la fragilità psichica derivanti da discriminazione e mobbing creino un <strong>ambiente favorevole all’insorgenza</strong> <strong>di patologie</strong> anche gravissime. E questo non solo perché determinano un indebolimento delle difese immunitarie e dell’intero organismo, ma anche perché portano a <strong>trascurare la propria salute</strong>, adottando stili di vita pericolosi e saltando visite ed esami che permetterebbero l’individuazione precoce di eventuali anomalie.</p>



<p>Una ricerca che risuona in maniera inquietante con la realtà, in una delle testimonianze che abbiamo raccolto: quella di Sara.</p>



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<h2 id="h-la-storia-di-sara-dal-mobbing-al-tumore-al-seno">La storia di Sara, dal mobbing al tumore al seno</h2>



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<p>Anche <strong>Sara</strong> è stata mobbizzata, e anche lei si è salvata solo lasciando il lavoro, dopo un anno e mezzo di “resistenza” in un ambiente che, dal suo racconto, assomiglia a un girone dantesco, tra colleghi ignavi e superiori iracondi.</p>



<p>Dopo circa quindici anni di anzianità in un’agenzia editoriale romana, Sara viene trasferita in un’altra sezione dell’azienda. Le mansioni sono quelle in cui ha maturato tutta la sua esperienza professionale: redigere testi, tenere i rapporti con gli autori, coordinarsi con l’ufficio grafico. Inizialmente il suo lavoro è apprezzato, ma ben presto l’asticella delle richieste si alza sempre di più, in termini di disponibilità a orari che si dilatano progressivamente, di gestione autonoma di una <strong>mole di lavoro che cresce in modo esponenziale </strong>e di <strong>flessibilità</strong> rispetto a richieste che cambiano di continuo.</p>



<p>Sara è una perfezionista, e più le si chiede, più lei cerca di dare. Solo che con il tempo il suo dare risulta sempre più inadeguato, insufficiente, e così viene demansionata, ridotta a fare una semplice revisione formale del lavoro altrui, a dover rispondere del proprio operato non solo al suo diretto superiore, ma anche a colleghi che hanno meno anzianità aziendale di lei. Non viene neppure più convocata alle riunioni di pianificazione del lavoro, alle quali partecipano invece tutti coloro che lavorano nel suo ufficio. Fino al punto che le sue giornate si riducono letteralmente a controllare le sue e-mail e aspettare, spesso inutilmente e per tutto il giorno, che qualcuno le dia qualcosa da fare.</p>



<p>Tuttavia, questo forzato far niente non le risparmia gli <strong>attacchi personali</strong>, la <strong>denigrazione</strong>, l’<strong>isolamento</strong>. “Ricordo che la collega che aveva la scrivania davanti alla mia aveva preso l’abitudine di rivolgere verso di me il deodorante da tavolo che aveva sulla sua postazione. Un modo silenzioso ma eloquente per dirmi che puzzavo. Ovviamente non puzzavo, ma iniziai a essere ossessionata da quell’idea e a lavarmi in continuazione. Un altro esempio del trattamento che mi veniva riservato? Una volta una collega, l’unica con la quale avessi legato lì dentro, mi disse che era stata caldamente sollecitata a non farsi vedere in mia compagnia. Un avvertimento anche per lei”.</p>



<p>Ed è così che, anche per Sara, inizia un <strong>malessere psicologico profondo</strong>: attacchi di panico, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione. Arriva a pesare meno di quaranta chili, fino a <strong>rinunciare al lavoro</strong>, pur di porre fine al calvario. Ma non basta, perché quando ormai è fuori dall’ambiente che l’aveva fatta ammalare, ma ancora dentro alle conseguenti difficoltà psicologiche, <strong>a Sara viene diagnosticato un tumore al seno</strong>. La perizia dello psichiatra e medico legale che l’aiuterà nella sua causa contro l’azienda certificherà poi una relazione temporale tra la neoplasia e il quadro psicopatologico.</p>



<p>Ora Sara è guarita, da tutti i punti di vista. Ed è una donna nuova.</p>



<p>In questo quadro diventa più che mai urgente garantire <strong>condizioni di lavoro eque per le donne</strong>, che favoriscano la conciliazione di vita e di lavoro senza discriminazioni e colpevolizzazioni.</p>



<p>Perché da un ambiente di lavoro “a misura di donna”, più flessibile, gentile, accogliente e rispettoso, trarrebbero beneficio anche i colleghi maschi. Di questo si può stare sicuri.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/discriminazioni/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Discriminazioni</a></strong>.</em></p>



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<p><em>Photo credits: qds.it</em></p>


Discriminazioni sul lavoro, quelle che le donne non dicono

<p>“Prima di parlare della <strong>salute mentale dei migranti</strong>, e se vuole dei disturbi da stress post-traumatico provocati dalle torture che subiscono nei centri di reclusione libici o nei viaggi in mare sempre in bilico tra la vita e la morte, vorrei fare una premessa che considero essenziale per comprendere ciò che sta accadendo, tenuto conto dei tanti luoghi comuni che spesso vengono utilizzati per analizzare un fenomeno che lascerà un segno nella storia dell’uomo.”</p>
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<figure class="wp-block-media-text__media"><img loading="lazy" decoding="async" width="853" height="723" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Marco-Mazzetti-copia_1.webp" alt="" class="wp-image-52804 size-full" /></figure>
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<p><strong>Marco Mazzetti</strong>, presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, ha 64 anni, e nella sua vita professionale si è sempre occupato del fenomeno della <strong>migrazione</strong>, analizzato come evento epocale e non contingente. Nasce come pediatra, poi si occupa di psichiatria.</p>
<p>“La medicina”, ci spiega, “non può essere sganciata dalla realtà sociale nella quale viviamo”. E così per anni lavora come medico cooperante in Africa per poi mettere mani e piedi nella piaga della povertà in Italia, collaborando attivamente con la Caritas.</p>
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<p><strong>Dalle sue prime battute mi pare che il suo non sia il linguaggio di un tecnico, ma piuttosto uno sguardo ragionato al fenomeno drammatico che proprio in questi giorni sta mettendo in crisi le diplomazie europee. Che cosa pensa di quello che sta accadendo?</strong></p>
<p>Guardi, io parto da questo presupposto assai radicale: il fenomeno migratorio o lo gestiamo o lo subiamo. La storia non la si può fermare. Non soltanto perché l’homo sapiens è migrante per natura, ma perché – se vogliamo arrivare ai nostri giorni – la questione chiave è che migrare fa parte dei diritti naturali degli esseri umani, proprio come quello di liberarsi dalla povertà e trovare di che vivere. È la povertà a dover essere combattuta, non la migrazione. Oggi ci troviamo in una fase storica molto complessa: esplosione demografica e confini nazionali chiusi ci condurranno a una limitazione dei diritti naturali, di cui lo <em>ius migrandi, </em>il diritto a migrare, è una parte essenziale? Forse è davvero così, dato che in molti luoghi del pianeta non è garantito neanche il diritto a nutrirsi e ad avere cure mediche.</p>
<p><strong>Non mi pare però che la politica in Italia sia sensibile a questa lungimiranza. L’idea dei respingimenti o dei blocchi navali annunciati dal governo Meloni credo che vadano nella direzione opposta a quello che lei definisce lo <em>ius migrandi. </em>O sbaglio?</strong></p>
<p>No, non sbaglia. Nel 2002 venne approvata, da un governo di destra, la legge Bossi-Fini, che tra l’altro aboliva il permesso di soggiorno per ricerca lavoro, obbligava alla registrazione delle impronte digitali per il permesso di soggiorno e creava condizioni difficili e preoccupanti per far valere il diritto d’asilo, tra cui il principio del respingimento (soprattutto in Libia). Ma va ricordato che se la cattiva legge Bossi-Fini l’ha fatta la destra, la sinistra l’ha conservata intatta per gli undici anni e mezzo complessivi in cui è stata al governo. In questi stessi anni si è discusso di agevolare la cittadinanza ai bambini figli di immigrati cresciuti e scolarizzati in Italia, ma nulla è stato fatto, né dalle destre né dalle sinistre, e si sono finanziati centri di detenzione in Libia in cui vengono trattenuti potenziali richiedenti asilo in Italia in condizioni inumane. Possiamo dire che con le nostre tasse finanziamo i torturatori libici, i quali producono i profughi vittime di violenza che poi ci troviamo a curare: una situazione davvero paradossale. Ecco che torniamo al tema originario della salute mentale.</p>
<p><strong>Perché si parla poco della salute mentale degli emigranti?</strong></p>
<p>Perché sui grandi numeri questo non è un problema. Gli immigrati godono, nel loro complesso, di una buona salute mentale, statisticamente un poco migliore di quella della popolazione italiana. Del resto, se così non fosse, non affronterebbero un’avventura impegnativa come la migrazione. Certo, c’è una piccola minoranza tra loro, come le dicevo; quella che arriva attraverso viaggi pericolosi (mentre la stragrande maggioranza degli immigrati viene nel nostro Paese in aereo o in autobus) e che affronta condizioni particolarmente traumatiche. In particolare coloro che passano attraverso la Libia subiscono spesso, nei centri illegali di detenzione, torture e violenze che possono determinare l’insorgere di disturbi da stress post-traumatico. In modo analogo, chi affronta viaggi che mettono a rischio la sua vita può assistere alla morte di famigliari e amici durante il percorso migratorio. L’epidemiologia delle migrazioni in Italia parla chiaro: nonostante le voci su presunte importazioni di malattie esotiche, gli immigrati non portano malattie. Le indagini fatte su questo argomento dimostrano che essi partono sani e sani arrivano da noi; questo è vero sia per quanto riguarda la salute fisica che quella mentale. Si ammalano poi nel nostro Paese a causa delle condizioni di vita che trovano, ad esempio quelle di lavoro; in questo senso i dati sull’infortunistica parlano chiaro. Lo stesso vale per la salute mentale, per cui il fattore di rischio fondamentale sono le pericolose condizioni di viaggio che la piccola minoranza che arriva con gli sbarchi si trova ad affrontare.</p>
<p><strong>Qual è a suo parere il peccato originale dei governi europei sul tema dell’immigrazione?</strong></p>
<p>In molti casi, tra cui purtroppo rientra l’Italia, è l’incapacità a gestire e a governare i flussi migratori, l’incapacità di attuare una politica di integrazione. Quella che chiamiamo classe politica si è dimostrata particolarmente scadente e disinteressata ai diritti dei migranti, negli ultimi vent’anni. Lo stesso termine “classe politica”, che è invalso da qualche tempo, indica la percezione dei detentori del potere politico come una classe sociale a sé, separata dal resto della popolazione. Alcuni governi non capiscono che con la crisi demografica che investe l’Europa noi abbiamo bisogno dell’immigrazione. L’ultimo tentativo di proporre in Italia una politica di integrazione risale al 1998 con la legge Turco-Napolitano. Poi sono arrivate le suggestioni leghiste, e quel saggio tentativo è stato sotterrato dalla propaganda che ancora oggi domina la scena italiana. Rudolf Virchow, patologo, antropologo e politico tedesco, già nell’Ottocento sosteneva che la medicina dev’essere considerata una scienza sociale, e la politica una medicina su larga scala. L’epidemiologia, ad esempio, ci ha dimostrato che il miglioramento delle condizioni abitative (acqua corrente in casa, buona illuminazione e arieggiamento), cioè l’effetto di azioni politiche, ha avuto un impatto più importante degli antibiotici nel ridurre i tassi di tubercolosi nella popolazione generale. Tornando all’attualità, i governi italiani avrebbero dovuto guardare con più attenzione alla politica intelligente in materia di immigrazione messa in atto dalla Germania. Anche in Germania c’è un serio problema demografico, ma loro lo hanno affrontato con una politica di integrazione, scegliendo e formando le professionalità che gli offrono i flussi migratori. Per fare questo però è necessario pianificare il mercato del lavoro in relazione ai flussi migratori. Fino a quando si pensa soltanto ai respingimenti non si va molto lontano.</p>
<p><strong>Lei pensa che una politica di integrazione in Italia sia possibile?</strong></p>
<p>Intanto credo che i processi di integrazione in Italia non siano all’anno zero. Forse non c’è ancora la percezione di questo fenomeno nella popolazione generale, ma se si guardano con attenzione i dati economici si scopre che molto è cambiato: l’imprenditoria immigrata è particolarmente di successo in numerosi settori dell’economia (edilizia, imprese di pulizie, ristorazione eccetera). Così come l’integrazione dei figli degli immigrati, che cominciano ad affollare le nostre università. Per non dire di quanto gli immigrati sostengano in modo fondamentale il nostro mercato del lavoro e il nostro sistema previdenziale. Siamo in presenza di fenomeni economici sani, promettenti e in grande crescita. Lo ripeto, verso i fenomeni migratori non abbiamo alternative: o li subiamo o li gestiamo. Quello che è certo e che non possiamo evitarli.</p>
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<p><strong><em>In copertina foto di Tania Dimas da Pixabay</em></strong></p>


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Perini

Bruno Perini

E&#8217; nato a Milano il 21 novembre del 1950. Laureato in Lettere e Filosofia nel 1977 all’Università Statale di Milano con una tesi su Marx e l’economia volgare è diventato giornalista professionista nel 1987. Giornalista economico finanziario e politico giudiziario, ha lavorato per circa trent’anni al quotidiano il manifesto dove ha curato la cronaca finanziaria e dal 1992 al 2000 la cronaca giudiziaria durante l’inchiesta Mani Pulite. Per 6 anni ha lavorato all’agenzia di Stampa Asca come cronista giudiziario e per due anni ha lavorato al settimanale della Rcs Il Mondo. Ha lavorato per circa 6 anni al mensile Prima Comunicazione e per due anni ha lavorato nel gruppo Sole 24 ore dove scriveva articoli sul quotidiano e contemporaneamente conduceva la rassegna stampa di Radio 24 e una trasmissione con gli ascoltatori sui temi di attualità. Per due anni ha lavorato in un’agenzia di ufficio stampa dove teneva corsi di giornalismo per coloro che tenevano i rapporti con i clienti. Da circa 5 anni collabora con Senza Filtro sui temi del lavoro e cura la rubrica &#8220;8000 battute sul lavoro&#8221;. E’ appassionato di musica rock, di letteratura, di gialli e del gioco del biliardo. Nel 2004 ha scritto un giallo dal titolo “Richiamo di sangue”, nel 2010 una biografia di Adriano Celentano “Memorie di zio Adriano” e nel 2013 un Giallo dal titolo “le figlie del diavolo”.

Bruno Perini Archivi

Bruno Perini - Informazione senza filtro

Intervistiamo Marco Mazzetti, presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni: &#8220;Finanziamo i torturatori libici per curare le loro vittime. I flussi migratori si subiscono o si gestiscono, non si possono evitare&#8221;.

I migranti arrivano sani e perdono la salute in Italia - Informazione senza filtro

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<p>Dopo la pandemia la <strong>salute mentale</strong> è un tema sempre più sentito e discusso. E, come rileva l’ultima indagine sugli stili di vita degli adolescenti, i giovani oggi non stigmatizzano la malattia mentale come spesso accadeva con le generazioni precedenti, ma riescono ad affrontarla con maggiore consapevolezza.</p>



<p>È in questo scenario che matura il successo della miniserie prodotta da Picomedia per Netflix, <strong><em>Tutto chiede salvezza</em></strong>, liberamente tratta dall’omonimo romanzo autobiografico del poeta e scrittore <strong>Daniele Mencarelli</strong> (Premio Strega Giovani 2020). Mencarelli è autore della sceneggiatura insieme a Daniela Gambaro, Francesco Cenni e al regista Francesco Bruni (sceneggiatore storico di Paolo Virzì, dietro alla macchina da presa di <em>Scialla!</em>, <em>Tutto quello che vuoi</em> e <em>Cosa sarà</em>).</p>



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<h2 id="h-tutto-chiede-salvezza-un-inaspettato-viaggio-di-formazione-in-forma-di-serie"><em>Tutto chiede </em>salvezza, un inaspettato viaggio di formazione in forma di serie</h2>



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<p>Il protagonista è <strong>Daniele</strong> (Federico Cesari), ventenne che ha mollato l’università e vende condizionatori. In un’afosa estate romana l’incontro con un amico d’infanzia, irrimediabilmente regredito a livello mentale a causa di un incidente stradale, fa esplodere la sua già accentuata <strong>fatica esistenziale</strong>. Si sballa con gli amici, assume alcol e stupefacenti che lo portano ad avere una crisi psicotica.</p>



<p>Daniele si sveglia il giorno dopo in un reparto psichiatrico nel quale sarà costretto in regime di <strong>trattamento sanitario obbligatorio</strong> (TSO), senza ricordare nulla di quanto gli è successo. Reagisce dapprima con ostilità e insofferenza al ricovero coatto, per poi accettare di farsi aiutare ad affrontare la condizione che gli fa avvertire in maniera così intensa e dolorosa il peso del mondo.</p>



<p>Nei <strong>sette episodi</strong> della miniserie – uno per ogni giorno di TSO, da domenica a sabato – prende così forma il viaggio di Daniele: una <strong>ricerca di senso</strong> della propria esistenza; una ricerca interiore tra ricordi, flashback e rimossi che abbraccia un fondamentale cambio di sguardo nel vivere la quotidianità del reparto e i rapporti con i medici, gli infermieri, e soprattutto i suoi compagni di stanza.</p>



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<h2 id="h-fratelli-offerti-dalla-vita-trovati-sulla-stessa-barca">Fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca</h2>



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<p>“Sono i <strong>cinque pazzi</strong> con cui ho condiviso la stanza e questa settimana della mia vita. Con loro non ho avuto possibilità di mentire, di recitare la parte del perfetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile alla loro. Con loro ho parlato di malattia, di Dio e di morte, del tempo e della bellezza, senza dovermi sentire giudicato, analizzato”, spiega Daniele Mencarelli.</p>



<p>La loro rappresentazione è l’aspetto più riuscito della serie, perché i personaggi restituiscono <strong>un’umanità che va oltre la patologia psichiatrica</strong> di cui soffrono. <strong>Gianluca</strong> (Vincenzo Crea), affetto da disturbo bipolare e rifiutato dai genitori per i suoi atteggiamenti femminili e l’omosessualità, e <strong>Mario</strong> (Andrea Pennacchi), maestro elementare saggio e conciliante – “eroe tragico che salva ma non è in grado di salvarsi”, come spiega Mencarelli – diventano per il protagonista vere e proprie figure di riferimento.</p>



<p>Poi ci sono <strong>Giorgio</strong> (Lorenzo Renzi), fisicità imponente e un lutto mai elaborato; <strong>Madonnina</strong> (Vincenzo Nemolato), con le sue invocazioni religiose e una pericolosa attrazione per il fuoco; e infine <strong>Alessandro</strong> (Alessandro Pacioni), vittima di uno stato catatonico e accudito dal padre (Massimo Bonetti). Con tutti loro Daniele forma <strong>una comunità basata sulla compassione</strong>, la condivisione di risate e lacrime, del carico dei rispettivi demoni, al di fuori delle logiche di una società esterna che pretende infallibilità e “normalità”.</p>



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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/TCS_102_Unit_00070RC.jpeg"><img width="1024" height="576" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/TCS_102_Unit_00070RC-1024x576.jpeg" alt="" class="wp-image-52917" /></a></figure></div>


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<h2 id="h-dare-voce-al-disagio-umano-dalla-pagina-scritta-allo-schermo">Dare voce al disagio umano, dalla pagina scritta allo schermo</h2>



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<p>Rispetto al <strong>romanzo</strong> di Mencarelli due sono le principali <strong>differenze</strong>: la storia dagli anni Novanta si sposta al presente, e si sviluppa la storia d’amore tra Daniele e il personaggio di <strong>Nina</strong> (Fotinì Peluso), ex compagna di liceo ora attrice e influencer, che nasconde dietro l’aggressività una profonda solitudine e fragilità: tenta il suicidio, e per questo è ricoverata nel reparto femminile. La sua relazione con il protagonista diviene l’elemento sentimentale della storia che alleggerisce la narrazione ed evidenzia l’innegabile impatto dei social media sul disagio psichico contemporaneo.</p>



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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/tutto-chiede-salvezza-netflix-serie-tv-federico-cesari-fotini-peluso.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/tutto-chiede-salvezza-netflix-serie-tv-federico-cesari-fotini-peluso-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-52916" /></a></figure></div>


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<p>Girata in larga parte all’Ospedale Militare Lungodegenza di Anzio, <em>Tutto chiede salvezza</em> ha un’<strong>impostazione teatrale </strong>molto forte, esaltata dalla dinamica interno/esterno, dalla qualità della scrittura dei dialoghi e dalla convincente recitazione di tutto il cast, formato da volti giovani (Federico Cesari, Fotinì Peluso, Vincenzo Crea) e interpreti affermati (Andrea Pennacchi, Ricky Memphis nel ruolo dell’infermiere Pino, Filippo Nigro in quello del dottor Mancino, Carolina Crescentini nei panni della madre di Nina).</p>



<p>Gli si perdonano l’<strong>ingenuità</strong> di alcune scelte narrative e la <strong>forzatura di una sottotrama amorosa</strong>, che non aggiunge poi così tanto al messaggio di fondo: la salvezza passa dalla <strong>capacità di chiedere aiuto</strong>, dall’accettazione delle proprie e altrui fragilità, e dalla costruzione della consapevolezza di sé.</p>



<p>“Lascia il tuo sguardo libero, non farti raccontare il mondo da nessuno”, dice Mario a Daniele, che trova nella scrittura lo strumento per gestire dolore ed emozioni. Con il suo connubio efficace di dramma e commedia, di incontro tra tragedia e speranza, <em>Tutto chiede salvezza </em>riesce nell’intento di <strong>rendere universale una storia personale</strong>. Perché racconta di anime e di corpi, non solo quelle dei pazienti, travolti dalla complessità della vita e bisognosi di salvezza. Per questo il pubblico, non solo quello adolescente, vi si sta riconoscendo.</p>



<p><strong>Non vi sono pazzi e sani</strong>. Del resto, la lezione di Basaglia era “visto da vicino nessuno è normale”.</p>



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&#8220;Tutto chiede salvezza&#8221;, anche nelle serie. Netflix racconta il disagio psichico

<p>Vivono in un limbo. Non studiano, non lavorano, non hanno nessun tipo di formazione. In preda ad un malessere esistenziale, non riescono a trovare il proprio posto nel mondo e fare qualcosa di concreto per loro stessi. Vengono definiti <strong>NEET </strong>– Not in Education, Employment or Training – e sono tutti quei giovani la cui età è compresa <strong>tra i 15 e i 35 anni</strong> che letteralmente “non fanno nulla”.</p>
<p>I numeri in <strong>Italia</strong> parlano chiaro: si stima che sono <strong>poco più di tre milioni</strong> con un tasso maggiore per quello che riguarda le donne, circa 1,7 milioni. L’incidenza superiore è al Sud Italia, dove la percentuale è più alta rispetto al Centro e al Nord.</p>
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<h2 id="h-chi-sono-i-neet-giovani-nel-limbo-la-neuropsichiatra-olivia-ninotti-condizione-sociale-in-peggioramento">Chi sono i NEET, giovani nel limbo. La neuropsichiatra Olivia Ninotti: “Condizione sociale in peggioramento”</h2>
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<p>I NEET sono quella fetta di società che oscilla tra il non avere una collocazione all’interno del tessuto sociale e cercare di barcamenarsi tra due o più lavori per sbarcare il lunario. Ma può, la società, rinunciare a una parte di questa generazione? Di fatto la fotografia psicoemotiva dei giovani tra i 15 e i 35 anni, oggi, soprattutto a ridosso della pandemia, ne mostra il grande disagio.</p>
<p>“Questo problema, però, c’era anche prima dell’emergenza sanitaria”, sottolinea <strong>Olivia Ninotti</strong>, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, direttore sanitario presso AIAS di Milano Onlus. “Sono <strong>dieci anni circa</strong> che ci troviamo di fronte a una parte di giovani, definiti con l’acronimo NEET, che non riescono a fare, oppure fanno, tante cose senza realizzare qualcosa di giusto per loro. <strong>La pandemia ha acuito</strong> questo disagio per dei motivi ben specifici. La chiusura forzata dei lockdown, la paura del contagio, l’utilizzo esagerato dell’online per comunicare, tutto questo ha fatto in modo che quella parte di ragazzi con delle difficoltà relazionali, scolastiche, lavorative, trovassero il proprio nido all’interno delle mura domestiche, mura dove rinchiudersi”.</p>
<p>Giovani che hanno sviluppato <strong>disturbi</strong> del comportamento alimentare in parità di genere, ansia, depressione, autolesionismo; nei casi più gravi si pensa al suicidio. “Uscire da questa situazione è complicato”, continua la neuropsichiatra, “perché sono ragazzi che <strong>si rendono conto</strong> che c’è una fetta di loro coetanei che ce la fa, a differenza loro. Questo li porta a una condizione di <strong>immobilismo</strong>, si sentono ancora più inefficienti rispetto ai pari o rispetto ai modelli che la società propone in termini di prestazione e competizione. Per questo motivo fanno ancora più fatica. Senza considerare che ci troviamo di fronte a una <strong>condizione sociale in peggioramento</strong>, e noi che lavoriamo a stretto contatto con questa fascia di persone abbiamo la percezione in maniera chiara”.</p>
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<h2 id="h-stritolati-dalle-richieste-della-societa-con-una-differenza-di-genere">Stritolati dalle richieste della società. Con una differenza di genere</h2>
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<p>La nostra società sta cambiando in senso prestazionale e narcisistico. Quello che viene richiesto ai giovani – ma non solo – è <strong>performance</strong>, <strong>velocità</strong> e <strong>competenze specialistiche</strong>, ma non tutti riescono a inserirsi in questa corsa.</p>
<p>“Per arginare questo problema e provare a prevenire la sua manifestazione, la società e le politiche pubbliche dovrebbero <strong>rallentare</strong> nelle richieste e dovrebbero <strong>smettere di proporre ed esaltare modelli di competizione</strong>. Dovrebbero investire molto di più sulla creazione dei servizi aggregativi sia per la famiglia che per i giovani. Si punta così tanto all’individualismo per cui chi ce la fa, avendo anche le risorse economiche e psicologiche, riesce, ma questo rappresenta il 10% rispetto al tutto il resto”.</p>
<p>Alla fine quello che ne risente è l’aspetto psicoemotivo. La Commissione europea, nel rapporto per la richiesta <strong>di bonus psicologico</strong>, ha sottolineato come su 300.000 domande prese in carico, il 43,55% proviene da giovani tra i 18 ed i 35 anni, mentre i minori, al di sotto dei 18 anni che hanno chiesto aiuto, sono il 16,62%. Il <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/bonus-psicologo-una-tantum/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">bonus psicologico</a>, però, per come è stato strutturato, non rappresenta la soluzione a tutto, anzi, “è una goccia nel mare”, spiega<strong> </strong>Olivia Ninotti.</p>
<p>“Le terapie psicologiche sono a lungo termine, nel senso che in poche sedute non si possono risolvere i disagi emotivi. L’altro problema è la mancanza di servizi pubblici che dovrebbero rispondere a questo bisogno di presa in carico psicologica, ma se il pubblico non risponde si ricorre al privato, che ha un costo, e qui il bonus riesce a coprire solo una parte di questo bisogno. Anche perché stanno aumentando le sindromi ansiose/depressive – slatentizzate durante la pandemia – soprattutto tra i giovani, un malessere esistenziale che si traduce nel ‘non so quale sia il mio posto’, ‘non riesco a combinare niente’. In realtà sotto c’è proprio un vuoto che porta a non riconoscersi e quindi ad inserirsi nella società in maniera funzionale e adattativa.”</p>
<p>Un fenomeno, quello dei NEET, caratterizzato anche dalla <strong>diseguaglianza di genere</strong>: si stima che le donne siano in numero maggiore rispetto agli uomini, il 56% rispetto al 44%. “Questo perché al <strong>genere femminile</strong>, nella società occidentale, sono richieste tre cose: <strong>bellezza</strong>, <strong>prestazione</strong> e <strong>intelligenza</strong>”, continua la neuropsichiatra. “Ciò implica un ulteriore carico alle giovani donne, molto spesso tagliate fuori dal mercato del lavoro. Diseguaglianza di genere, ma non solo: anche <strong>territoriale</strong>. In Italia, se si dovesse accendere il focus sulle Regioni che funzionano meglio rispetto alle altre, ma sono pur sempre in affanno, vediamo come le stesse si trovano al Nord, quindi Lombardia, Piemonte, Veneto; segue l’Emilia-Romagna. Nel resto, poi, c’è il baratro”.</p>
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<h2 id="h-come-si-disinnesca-il-fenomeno-dei-neet-le-societa-che-non-accolgono-il-gruppo-diventano-inefficienti">Come si disinnesca il fenomeno dei NEET: “Le società che non accolgono il gruppo diventano inefficienti”</h2>
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<p>Di fatto, se si dovesse guardare al futuro, si dovrebbe stilare una vera e propria strategia per uscire da questo status quo, che immobilizza una parte importante di popolazione.</p>
<p>“Bisognerebbe cambiare le cose da un punto di vista di <strong>prevenzione</strong> e <strong>salute mentale</strong>, a livello non solo sanitario ma anche sociale, per sostenere i giovani e le loro famiglie; altrimenti il rischio è di andare verso un futuro un po’ distopico, dove vige un <strong>individualismo assoluto</strong> e un malessere sociale altissimo, che poi sfocerebbe nella criminalità, nei suicidi e in tante altre forme disfunzionali, perché è bene ricordare che <strong>le società che non accolgono il gruppo diventano società inefficienti</strong>”, conclude la dottoressa Olivia Ninotti.</p>
<p>Una situazione di emarginazione e alienazione dalla vita che dovrebbe essere arginata a partire dalla <strong>scuola</strong>. Inoltre ci vorrebbero delle <strong>politiche</strong> incentrate in maniera specifica su questi problemi, pronte a mettere in campo quelle misure efficaci per fermare il problema e non farlo dilagare. I giovani dovrebbero avere la possibilità di sviluppare i propri talenti e di portarli avanti. Ma tutto questo ad oggi non è possibile, o meglio lo sarebbe nella misura in cui ci si facesse davvero carico della situazione, mettendola a fuoco, non solo spendendo parole di mera circostanza.</p>
<p>Investire sui giovani significa investire sul futuro di una comunità, di un Paese. Non si può pensare di lasciare indietro una parte importante della società, soprattutto nell’epoca del progresso.</p>
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<p><em>Photo credits: Marco Wolff via Pixabay</em></p>


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Francescapaola Iannaccone

Giornalista alla ricerca del tempo perduto. Ha iniziando muovendo i primi passi tra la cronaca e la politica, prestando la penna al servizio di diverse testate della sua città, Avellino; poi la svolta giel&#8217;ha data la collaborazione con Panorama dove ha imparato l&#8217;ossatura del mestiere. In seguito ha collaborato con l&#8217;Espresso, il Corriere del Mezzogiorno, il Dubbio. Attualmente cura una rubrica domenicale, Le Chicche, sul Quotidiano del Sud- l&#8217;Altra voce dell&#8217;Italia, dove scrive anche di approfondimenti. Curiosa di tutto, fagocita informazioni e con la prova del nove ne deduce esperienza. Appassionata di medicina, storia e politica internazionale, questo ha influenzato, dopo gli studi classici, la preferenza del suo percorso universitario: Scienze politiche è stata una scelta vincente. Ama la filosofia di Socrate, l’Idiota di Fëdor Dostoevskij, tutti i libri di Tolstoj, la Livella di Totò e tra un caffè e un cornetto ama leggere Topolino.

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I NEET non sono rimasti indietro, ce li ha lasciati la società

Uno sguardo nel limbo dove i giovani stanno immobili senza studio, formazione o lavoro: oggi sono più di tre milioni, con accentuate differenze geografiche e di genere. L&#8217;opinione della neuropsichiatra Olivia Ninotti.

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<p>C’è un vero e proprio guscio di stereotipi che da tempo avvolge il tema importante e allo stesso tempo poco trattato del rapporto tra <strong>disturbo bipolare</strong> e<strong> lavoro</strong>. Stereotipi che se non vengono scardinati possono tramutarsi in pregiudizi.</p>
<p>Il disturbo bipolare è definito come una patologia psichiatrica complessa caratterizzata, come esplicita il nome, da due polarità, rappresentate da un lato da episodi depressivi e dall’altro da episodi maniacali o ipomaniacali. Ciclicità e ricorrenza si configurano come ulteriori caratteristiche del disturbo, che si distingue in tipo I, riguardante in egual modo sia gli uomini che le donne, e in tipo II, con una maggior incidenza per il genere femminile.</p>
<p>Sono però le storie in carne e ossa a restituirci il prisma di sfaccettature sul tema <strong>malattia mentale</strong> e <strong>inclusione lavorativa</strong>; diritto quest’ultimo messo a repentaglio proprio dal corteo di pregiudizi con cui ancora oggi abbiamo a che fare.</p>
<p>Ci addentriamo nell’argomento confrontandoci con <strong>Giulia Righi</strong>, autrice dell’interessante blog <em>BipolarInformati</em>, che nasce proprio con l’obiettivo di informare e sensibilizzare sul disturbo bipolare, coinvolgendo anche la questione lavoro. Un’informazione che diventa a sua volta una forma di riscatto importante.</p>
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<h2 id="h-giulia-righi-e-il-disturbo-bipolare-quando-una-diagnosi-errata-rovina-il-lavoro-e-la-vita">Giulia Righi e il disturbo bipolare, quando una diagnosi errata rovina il lavoro (e la vita)</h2>
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<p>Con Giulia decidiamo di affrontare il tema senza lasciare spazio alle reticenze. Mi risponde con voce limpida, determinata a scoperchiare alcuni stereotipi riguardanti il tema. Giulia, infatti, conosce bene il disturbo bipolare, poiché lo vive in prima persona: “Ho avuto la <strong>diagnosi molto tardi </strong>e questo ha influito anche sull’attività professionale”, racconta. “Nel tempo ho abbandonato e anche cambiato diversi lavori prima di arrivare alla situazione di stabilità attuale”.</p>
<p>A pesare è anche un’altra questione: “Vengo da una situazione spiacevole di&nbsp;<strong>diagnosi errata</strong>: il medico diceva che avevo una depressione quando in realtà non era così. Questo ha influito sulla tempestività delle cure, e di riflesso sulla mia vita lavorativa. Svolgevo infatti una mansione di commerciale estero che prevedeva trasferte e anche lunghi viaggi in auto, i quali richiedevano a loro volta energia e concentrazione. La <strong>terapia farmacologica errata</strong> e la partenza mi hanno fatta stare molto male, con tanto di <strong>ricovero</strong>”.</p>
<p>La diagnosi errata determina ripercussioni negative sulla sua vita professionale e sulla sua possibilità di mantenersi. Inizia un periodo lungo e difficile, ma poi, grazie a una diagnosi corretta che si affianca a terapie mirate, Giulia riesce a riprendere in mano le redini della propria vita e a conquistare un <strong>riscatto</strong> importante. Grazie alla sua abilità di traduttrice e alla sua tenace volontà di informare per essere di aiuto anche ad altre persone, nasce l’idea del <strong>blog</strong>, che si affianca a un nuovo percorso lavorativo.</p>
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<h2 id="h-sei-inaffidabile-e-tutti-gli-altri-stereotipi-che-separano-il-disturbo-bipolare-dal-lavoro">“Sei inaffidabile” e tutti gli altri stereotipi che separano il disturbo bipolare dal lavoro</h2>
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<p>Ci immergiamo sempre più nella questione&nbsp;<strong>lavoro</strong> e chiedo a Giulia quale sia lo&nbsp;<strong>stereotipo</strong>&nbsp;<strong>più difficile</strong> da scardinare, che porta a giudicare le persone con disturbo bipolare incompatibili con l’attività lavorativa quando in realtà non è così. “Sicuramente la&nbsp;<strong>non affidabilità</strong><strong>”,</strong> risponde Giulia senza dubbi. “C’è questa tendenza a credere che chi è bipolare non abbia senso di responsabilità e sia inaffidabile, che cambi subito idea o non riesca a portare a termine i propri compiti. La realtà invece dimostra che, con una <strong>terapia mirata</strong> in corso, un percorso lavorativo è gestibile e realizzabile”.</p>
<p>C’è inoltre un altro aspetto che mette KO questo luogo comune: “Spesso sono per prime le persone con disturbo bipolare a cercare mansioni lavorative che si concilino meglio con le loro esigenze e che non abbiano <strong>ritmi stressanti</strong>”, afferma Giulia. “I <strong>farmaci</strong> possono inoltre influire sull’<strong>attività mnemonica</strong>, e anche in questi casi esserne consapevoli può aiutare a organizzarsi meglio”. Consigli di certo utili per ogni contesto lavorativo.</p>
<p>Partendo dalle esigenze di chi convive con questa condizione, che se curata in modo adeguato si concilia con l’attività lavorativa, quali sono invece gli <strong>elementi</strong> che nel contesto lavorativo vanno <strong>sempre evitati a priori</strong> per chi convive con il disturbo bipolare, pur gestito bene grazie a terapie di vario tipo?</p>
<p>“Senza dubbio lo&nbsp;<strong>stress elevato</strong>&nbsp;che può riguardare il sovraccarico di scadenze o responsabilità e il ritmo dei turni. Ci sono inoltre <strong>lavori a rischio</strong> che credo proprio siano inconciliabili con questo disturbo. Al momento io lavoro a tempo pieno come receptionist in un contesto che si concilia molto bene con le mie esigenze. All’inizio però, visto che venivo da un periodo abbastanza lungo di standby lavorativo, proprio per questioni di salute, ho chiesto un part-time di sei mesi, e questo mi ha permesso di ricalibrarmi gradualmente sui ritmi”. E sottolinea: “Bisogna fare molta attenzione ai contesti di lavoro che sovraccaricano e spremono fino all’osso, perché possono&nbsp;<strong>peggiorare</strong>&nbsp;il disturbo o creare delle&nbsp;<strong>ricadute</strong>: a me in passato è accaduto così”.</p>
<p>Luoghi di lavoro che la salute mentale la tutelano, altri che invece la minano o addirittura la compromettono: uno spaccato che anche in Italia esiste, e che non si può negare.</p>
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<h2 id="h-quel-timore-di-perdere-il-lavoro-i-diritti-violati-di-chi-soffre-di-disturbo-bipolare">Quel timore di perdere il lavoro: i diritti violati di chi soffre di disturbo bipolare</h2>
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<p>Tocchiamo un’altra questione cardine, che è quella dell’<strong>invalidità</strong>: se riconosciuta dalla commissione medica, anche il disturbo bipolare prevede questo aspetto, e in tal caso i lavoratori e le lavoratrici rientrano tra i destinatari della <strong>Legge 68/99</strong>. La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità contiene tra gli altri l’articolo 2, che riguarda i cosiddetti <strong>accomodamenti ragionevoli</strong>, ossia “le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali”.</p>
<p>Chiedo a Giulia quali siano gli accomodamenti ragionevoli che secondo lei andrebbero attivati per promuovere al meglio l’inclusione lavorativa delle persone con disturbo bipolare. “Credo che sarebbe importante avere una figura come quella di uno <strong>psicologo all’interno delle imprese</strong>, e anche la figura di qualcuno che si occupi di<strong> sensibilizzare</strong> su questi temi, per <strong>prevenire i pregiudizi</strong> e informare meglio su che cosa realmente sia il disturbo bipolare. Posso confermare, avendone conosciute, che tante persone con disturbo bipolare hanno paura di rivelare ai colleghi la loro situazione, sia per timore dello <strong>stigma,</strong> sia in alcuni casi addirittura perché temono di <strong>perdere il lavoro</strong>”. E aggiunge: “Un altro aspetto importante è l’<strong>organizzazione degli orari</strong>, dando la possibilità di part-time, e per le mansioni che possono prevederlo anche lo <strong>smart working</strong>”.</p>
<p>Chiedo a Giulia: senti rappresentati i tuoi <strong>diritti</strong>? “No, purtroppo. Adesso si comincia a parlarne un po’ di più, ma ci sono ancora persone ai margini, e il problema non riguarda solo la questione lavoro. Io ho avuto la fortuna di avere la mia famiglia che mi è restata accanto, non a tutti succede, ci sono persone di diversa età che vengono rifiutate del tutto persino dai genitori. Molti dei miei amici sono spariti nel nulla, e senza rapporti sociali e lavoro si rischia l’<strong>emarginazione</strong>. Serve tanta informazione per prevenire la paura, e servono maggiori tutele per noi”.</p>
<p>Giulia ci tiene ad aggiungere un invito che suona come un appello: “A chi convive questo disturbo vorrei dire di <strong>avere più</strong>&nbsp;<strong>coraggio</strong>, di <strong>parlarne</strong>, perché la malattia mentale non è una colpa, è una malattia come le altre, e con le giuste cure ci si può convivere”.</p>
<p>Il lavoro è un segmento focale della società che implica tanti aspetti importanti della nostra vita, tra cui l’autonomia, l’autodeterminazione e la realizzazione. Una ferita su questo fronte determina effetti su tanti altri, come abbiamo raccontato. Lo stesso mondo del lavoro, se procede per stereotipi, può infatti <strong>perdere</strong> <strong>talenti </strong>e contributi importanti da parte di persone le cui capacità vanno ben al di là di una diagnosi, come dimostrato da tante storie e percorsi. </p>
<p>Spezzare gli stereotipi diventa allora una missione da concretizzare in collettivo. Una missione dove anche il lavoro, con le persone che lo costituiscono, dimostra di avere un ruolo fondamentale, che intreccia<strong> inclusione</strong> e <strong>valorizzazione</strong>, attraverso il riconoscimento di chi siamo e di quanto valiamo, senza il paraocchi di timori o etichette. Con il diritto di avere la nostra opportunità.</p>
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<p><em>Photo credits: grupposandonato.it</em></p>


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Bellingeri

Sara Bellingeri

Scrive fin da quando ha acchiappato in mano la sua prima matita e da allora la passione di raccontare e incontrare le storie non è mai sbiadita. Dal 2005 lavora come giornalista e responsabile ufficio stampa occupandosi soprattutto di diritti, ambiente, inclusione lavorativa, sanità e disabilità. Nel curriculum una laurea in Antropologia Filosofica, un master in comunicazione di eventi e tre libri. In testa la costante voglia di partire anche se il viaggio più emozionante glielo fanno fare ogni giorno i suoi bambini. “Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato”. La frase di Tennyson rappresenta al meglio il suo modo di vivere la vita, il lavoro e le esperienze.

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Disturbo bipolare e lavori che fanno il doppio gioco

Stereotipi e pregiudizi che allontanano dal lavoro chi convive con questa patologia psichiatrica raccontati da Giulia Righi, ideatrice del blog BipolarInformati.

Disturbo bipolare e lavori che fanno il doppio gioco - Informazione senza filtro

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<p>Fragili, umorali, sensibili al limite del patologico. È lo stereotipo che accompagna ogni <strong>donna</strong>, quello che sul <strong>posto di lavoro</strong> diventa il pretesto per svilire il ruolo delle lavoratrici, metterle in una condizione di subalternità psicologica e farne il capro espiatorio di ridimensionamenti aziendali o meschine rivalse.</p>
<p>Partiamo dai rilevamenti scientifici, quelli diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità. Quasi <strong>una donna su quattro</strong> (24%) rischia di soffrire di un <strong>disagio psichico</strong> nel corso della vita, e le donne hanno una probabilità quasi tre volte maggiore rispetto agli uomini di sviluppare un disturbo mentale, in particolare <strong>depressione</strong> e <strong>ansia</strong>. Inoltre, esistono disturbi psichici esclusivamente femminili o quasi, come quelli della <strong>sfera alimentare</strong>, dove il rapporto donna-uomo arriva a essere di 9 a 1.</p>
<p>Le ragioni sono da ricercarsi in fattori sociali e ambientali, oltre che biologici; le donne devono conciliare troppe cose, spesso troppe di più rispetto ai maschi. È il <strong>carico di cura</strong> di cui si parla sempre quando si affronta la questione femminile, soprattutto in Italia: cura dei figli e dei genitori in assenza di servizi per l’infanzia e per gli anziani, cura della casa. E, quando hanno la fortuna di averlo, cura del lavoro. È vero, la biologia ci dice che sono più sensibili a depressione, ansia e insonnia, ma il fattore ambientale ha un ruolo centrale. L’essere più svantaggiate sul lavoro, con stipendi più bassi, meno possibilità di carriera e più probabilità di essere discriminate e licenziate le sottopone a una pressione costante, in una condizione di stress perpetuo.</p>
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<h2 id="h-discriminazione-e-mobbing-sono-le-donne-le-vittime-perfette">Discriminazione e mobbing, sono le donne le vittime perfette?</h2>
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<p>A dare man forte a questa <strong>visione</strong> “<strong>di genere</strong>” <strong>dello stress da lavoro</strong> concorre una recente ricerca, svolta nel Regno Unito da studiosi italiani e inglesi, che ha dimostrato il nesso causale tra qualità del lavoro e salute mentale dei lavoratori, soprattutto per le donne.</p>
<p>Lo studio, pubblicato sulla rivista&nbsp;<em>Labour Economics</em> e condotto dai docenti di Economia politica&nbsp;Michele Belloni&nbsp;dell’Università di Torino,&nbsp;Elena Meschi&nbsp;della Bicocca di Milano e da&nbsp;Ludovico Carrino,&nbsp;ricercatore&nbsp;dell’Ateneo di Trieste e&nbsp;del King’s College di Londra, ha mostrato come il rischio di sviluppare <strong>stress</strong> o <strong>ansia</strong> sia collegato alle <strong>condizioni lavorative</strong>. In particolare a richieste elevate, ridotta autonomia decisionale, scarsa valutazione delle competenze, assenza di supporto sociale, squilibrio tra impegno e retribuzione, ingiustizia percepita relativamente all’imparzialità e rispetto con cui i dipendenti sono trattati dai superiori.</p>
<p>Inoltre la ricerca ha messo in evidenza che sono le <strong>donne</strong> a pagare il prezzo più alto, in quanto <strong>la loro salute mentale è più sensibile</strong> a variazioni nella <strong>qualità del lavoro</strong>, ma anche – sarebbe da aggiungere – in quanto più soggette a questo tipo di fenomeni.</p>
<p>Svalutazione, isolamento, umiliazioni, disparità di trattamento sono infatti tutti elementi che suoneranno familiari a chi, per qualunque motivo, si sia imbattuto in storie di discriminazione e mobbing. Proprio come quella che stiamo per raccontare.</p>
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<h2 id="h-hai-fatto-un-elvirata-quando-il-mobbing-chiama-per-nome">“Hai fatto un’elvirata”: quando il mobbing chiama per nome</h2>
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<p>Milano, settembre 2014. <strong>Elvira</strong> è assunta in una rivista con contratto a tempo determinato. Da subito le assegnano la responsabilità di intere sezioni del giornale, i colleghi e il direttore mostrano di apprezzare molto il suo lavoro, e man mano che i contratti vengono rinnovati aumentano le responsabilità e l’impegno richiesti: nessun orario, zero vita privata e una crescente ansia da prestazione, perché è l&#8217;ultima arrivata, ha il contratto periodicamente in scadenza e un direttore che stravolge il giornale in continuazione, per cui lei cerca di essere sempre pronta a adeguarsi alle richieste.</p>
<p>Poi, però, dopo circa un anno <strong>il clima cambia</strong>. Senza capirne la ragione, nel giro di qualche settimana il lavoro di Elvira diventa insoddisfacente, prima per il direttore, poi a ruota anche per i colleghi: “In questo pezzo non si capisce un cazzo, è scritto in un italiano approssimativo”, “sei lenta, lenta”. E poi urla, insulti, minacce.</p>
<p>Il copione, da qui in poi, è da manuale: Elvira è progressivamente <strong>demansionata</strong>, ogni volta che scrive un articolo viene passato a un collega che lo riscrive di sana pianta, resta ore a fissare lo schermo del computer senza nulla da fare. “Una volta fui convocata nell’ufficio dei grafici. Avevo lasciato da impaginare alcune foto per una rubrica e il grafico ancora non le aveva messe in pagina. Davanti a tutti, <strong>il direttore iniziò a urlarmi contro frasi aggressive</strong>, <strong>sprezzanti</strong>, <strong>irripetibili</strong>. La violenza di quella sfuriata, il suo viso paonazzo vicino al mio, gli occhi folli di rabbia mi portarono sull’orlo delle lacrime. Io, una donna di più di quarantadue anni, stavo per scoppiare a piangere davanti all’intero ufficio. Non dimenticherò mai l&#8217;umiliazione, la vergogna, la rabbia di quel lungo momento. Decisi che con me avevano chiuso. Non sapevo ancora come e quando, ma sapevo che dovevo andare via di lì”.</p>
<p>E poi c&#8217;è l’<strong>isolamento</strong>, perché la solidarietà tra colleghi non esiste più, diventi un paria, e perché anche chi ti vuole bene fatica a entrare nei tuoi panni. “Noi puoi piangere per questo, è solo lavoro”, dicevano suo padre e suo marito. Già, come spiegarlo a chi non c’è mai passato? Come spiegare l’angoscia quando ogni errore commesso da chiunque diventa una “elvirata”, il proprio nome trasformato in sinonimo di incompetenza?</p>
<p>Così, anche Elvira entra nella spirale psicologica della <strong>depressione</strong>. La prima cosa a sparire è il <strong>sonno</strong>; le poche ore di riposo sono popolate da sogni orrendi, e ogni mattina alzarsi dal letto diventa più difficile. E poi le <strong>crisi d’ansia</strong>, la <strong>bulimia</strong>, le <strong>emicranie devastanti</strong>, la <strong>tachicardia</strong>, con quella sensazione di morte che il cuore voglia balzare fuori dal petto. Poi, però, Elvira rimane incinta, e per se stessa e il suo bambino capisce che è il momento di andare via. Il bambino non si salverà, troppo stress, dirà il medico. Ma lei, bene o male, sì.</p>
<p>“Ancora oggi, che sono passati sei anni, a volte sogno quell’ambiente e quelle situazioni”, dice. “E mi sveglio col cuore a mille, senza respiro”. Nonostante il tempo trascorso, la riconquista della fiducia nelle sue capacità e il riconoscimento di colleghi e superiori coi quali lavora oggi, quel senso di vergogna e di inferiorità, quella ritrosia ad avanzare proposte per il timore di dire banalità, non la abbandonano ancora del tutto.</p>
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<h2 id="h-fenomenologia-e-sintomi-dello-stress-da-lavoro-nelle-donne">Fenomenologia e sintomi dello stress da lavoro nelle donne</h2>
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<p>A introdurre implicitamente il concetto di “<strong>mobbing di genere</strong>” è lo stesso legislatore. Il d. lgs. 81/2008, il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, prevede infatti l&#8217;obbligo di valutare tutti i pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, fra cui quelli collegati allo stress lavoro correlato&#8230; alle differenze di genere”.</p>
<p>“Nel confronti del genere femminile il mobbing assume manifestazioni specifiche”, spiega la dottoressa <strong>Giovanna Castellini</strong>, psicologa presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano. “Quando si parla di mobbing di genere, le molestie sessuali sono la prima cosa alla quale si pensa, ma non sono certo l’unica o la più ricorrente. Le <strong>forme di mobbing più frequenti</strong> nei confronti delle donne riguardano la <strong>maternità</strong> e la <strong>gestione dei figli</strong> e si esplicano, per esempio, nell’ostacolare la conciliazione lavoro-famiglia o nell’emarginare e demansionare la lavoratrice che torna dopo la maternità, fino a spingerla al licenziamento. Oltre al fatto, noto, che le lavoratrici sono in genere pagate meno degli uomini e che di rado raggiungono posti di comando”.</p>
<p>Ma il mobbing interessa particolarmente le donne soprattutto in termini di <strong>virulenza e durata delle violenze</strong>, perché di questo si tratta, né più né meno. “Nella mia esperienza posso dire che, quando si parla di mobbing, la prevalenza delle donne non è significativa tanto da un punto di vista numerico, quanto per quel che riguarda l’intensità e la durata delle vessazioni, e quindi le loro <strong>conseguenze psicofisiche</strong>”, dice ancora Giovanna Castellini.</p>
<p>“Le lavoratrici tendono a resistere più a lungo alle angherie, perché devono sempre dimostrare più dei colleghi maschi e anche perché sanno che per loro è più difficile riciclarsi se perdono il posto. Il mobbing tende sempre a <strong>distruggere il senso di sé del lavoratore</strong>, a maggior ragione se indirizzato contro una donna, perché in questo caso colpisce non solo il profilo professionale, ma anche personale: allusioni al vestiario, alle abitudini sessuali, alla fisicità, alle condizioni personali, sono tipiche del mobbing di genere.”</p>
<p>E allora immaginiamola questa lavoratrice, demansionata, svilita professionalmente e denigrata come donna, costretta a tenere insieme famiglia e lavoro, che stringe i denti oggi, domani, il giorno dopo, per settimane, mesi, anni. Alla fine esplode, perché è umana, non perché è debole.</p>
<p>“Comincia con piccoli segnali con i quali il corpo somatizza il malessere psicologico: <strong>disturbi del sonno, emicranie, gastriti</strong>”, spiega la dottoressa Castellani. “Poi <strong>alterazioni dell’alimentazione e dell’umore</strong>. Tutto questo cresce, si somma, fino a che esplode in <strong>ansia</strong>, <strong>depressione</strong>, <strong>esaurimento</strong> <strong>nervoso</strong>, a volte <strong>pensieri suicidari</strong>. La salute mentale viene compromessa alla radice, e spesso la ripresa richiede anni di analisi e terapia farmacologica”.</p>
<p>Talvolta, purtroppo, va a finire anche peggio: la malattia che sta mandando in frantumi l’equilibrio psichico fa tabula rasa delle difese immunitarie, rendendo fragile il corpo.</p>
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<h2 id="h-l-ipotesi-di-correlazione-tra-stress-psicologico-e-cancro">L’ipotesi di correlazione tra stress psicologico e cancro</h2>
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<p>Sulla relazione tra stress, depressione, disagio psicologico in generale e insorgenza di <strong>tumori</strong> la comunità scientifica tende a escludere un nesso di causalità diretta. Tuttavia, secondo uno studio pubblicato sul <em>British Medical Journal</em> e guidato da&nbsp;David Batty&nbsp;del Dipartimento di epidemiologia e salute pubblica dell’University College di Londra,&nbsp;lo <strong>stress psicologico</strong> può essere <strong>predittivo di mortalità per alcuni tipi di cancro</strong>.</p>
<p>Secondo il ricercatore inglese, l’esposizione ricorrente a&nbsp;stress emotivi&nbsp;potrebbe diminuire la funzione delle cellule natural killer, e quindi ridurre il controllo di quelle tumorali e favorire l’insorgere di neoplasie. “I risultati della ricerca mostrano che le persone che vivono uno stato di&nbsp;disagio psicologico&nbsp;sono anche quelle che hanno registrato più alti tassi di mortalità per cancro all’intestino, alla prostata, al pancreas, all’esofago e per leucemia”, dice Batty. “Abbiamo dunque la conferma che una&nbsp;cattiva&nbsp;salute mentale può avere una certa capacità predittiva per alcune&nbsp;malattie fisiche. Siamo molto lontani dal sapere come si manifesti questa relazione, ma <strong>non possiamo negarla</strong>”.</p>
<p>Se, dunque, ancora non si può provare una correlazione biochimica tra disturbo mentale e malattie organiche, è riconosciuto che la depressione, l’ansia, la fragilità psichica derivanti da discriminazione e mobbing creino un <strong>ambiente favorevole all’insorgenza</strong> <strong>di patologie</strong> anche gravissime. E questo non solo perché determinano un indebolimento delle difese immunitarie e dell’intero organismo, ma anche perché portano a <strong>trascurare la propria salute</strong>, adottando stili di vita pericolosi e saltando visite ed esami che permetterebbero l’individuazione precoce di eventuali anomalie.</p>
<p>Una ricerca che risuona in maniera inquietante con la realtà, in una delle testimonianze che abbiamo raccolto: quella di Sara.</p>
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<h2 id="h-la-storia-di-sara-dal-mobbing-al-tumore-al-seno">La storia di Sara, dal mobbing al tumore al seno</h2>
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<p>Anche <strong>Sara</strong> è stata mobbizzata, e anche lei si è salvata solo lasciando il lavoro, dopo un anno e mezzo di “resistenza” in un ambiente che, dal suo racconto, assomiglia a un girone dantesco, tra colleghi ignavi e superiori iracondi.</p>
<p>Dopo circa quindici anni di anzianità in un’agenzia editoriale romana, Sara viene trasferita in un’altra sezione dell’azienda. Le mansioni sono quelle in cui ha maturato tutta la sua esperienza professionale: redigere testi, tenere i rapporti con gli autori, coordinarsi con l’ufficio grafico. Inizialmente il suo lavoro è apprezzato, ma ben presto l’asticella delle richieste si alza sempre di più, in termini di disponibilità a orari che si dilatano progressivamente, di gestione autonoma di una <strong>mole di lavoro che cresce in modo esponenziale </strong>e di <strong>flessibilità</strong> rispetto a richieste che cambiano di continuo.</p>
<p>Sara è una perfezionista, e più le si chiede, più lei cerca di dare. Solo che con il tempo il suo dare risulta sempre più inadeguato, insufficiente, e così viene demansionata, ridotta a fare una semplice revisione formale del lavoro altrui, a dover rispondere del proprio operato non solo al suo diretto superiore, ma anche a colleghi che hanno meno anzianità aziendale di lei. Non viene neppure più convocata alle riunioni di pianificazione del lavoro, alle quali partecipano invece tutti coloro che lavorano nel suo ufficio. Fino al punto che le sue giornate si riducono letteralmente a controllare le sue e-mail e aspettare, spesso inutilmente e per tutto il giorno, che qualcuno le dia qualcosa da fare.</p>
<p>Tuttavia, questo forzato far niente non le risparmia gli <strong>attacchi personali</strong>, la <strong>denigrazione</strong>, l’<strong>isolamento</strong>. “Ricordo che la collega che aveva la scrivania davanti alla mia aveva preso l’abitudine di rivolgere verso di me il deodorante da tavolo che aveva sulla sua postazione. Un modo silenzioso ma eloquente per dirmi che puzzavo. Ovviamente non puzzavo, ma iniziai a essere ossessionata da quell’idea e a lavarmi in continuazione. Un altro esempio del trattamento che mi veniva riservato? Una volta una collega, l’unica con la quale avessi legato lì dentro, mi disse che era stata caldamente sollecitata a non farsi vedere in mia compagnia. Un avvertimento anche per lei”.</p>
<p>Ed è così che, anche per Sara, inizia un <strong>malessere psicologico profondo</strong>: attacchi di panico, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione. Arriva a pesare meno di quaranta chili, fino a <strong>rinunciare al lavoro</strong>, pur di porre fine al calvario. Ma non basta, perché quando ormai è fuori dall’ambiente che l’aveva fatta ammalare, ma ancora dentro alle conseguenti difficoltà psicologiche, <strong>a Sara viene diagnosticato un tumore al seno</strong>. La perizia dello psichiatra e medico legale che l’aiuterà nella sua causa contro l’azienda certificherà poi una relazione temporale tra la neoplasia e il quadro psicopatologico.</p>
<p>Ora Sara è guarita, da tutti i punti di vista. Ed è una donna nuova.</p>
<p>In questo quadro diventa più che mai urgente garantire <strong>condizioni di lavoro eque per le donne</strong>, che favoriscano la conciliazione di vita e di lavoro senza discriminazioni e colpevolizzazioni.</p>
<p>Perché da un ambiente di lavoro “a misura di donna”, più flessibile, gentile, accogliente e rispettoso, trarrebbero beneficio anche i colleghi maschi. Di questo si può stare sicuri.</p>
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<p><em>Photo credits: qds.it</em></p>


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Barbara Benini

Giornalista professionista dal 2002, per quindici anni ha vissuto in treno tra Milano e Bologna, scrivendo per quotidiani e riviste nazionali e locali, con frequenti intermezzi da addetto stampa. Poi l&#8217;arrivo di un cucciolo l&#8217;ha portata a essere (più o meno) stanziale sotto le Due Torri e ora fa la giornalista-mamma. Le piacciono le persone, ama ascoltare e raccontare le loro storie. Ha a lungo scritto di sanità e cronaca ma, soprattutto, di tematiche sociali, lavoro e politica, che sono gli interessi che coltiva da quando, a dieci anni, ha iniziato a leggere ogni giornale le capitasse tra le mani. Il tempo libero lo trascorre con le persone che ama o leggendo un libro e, quando può, va alla scoperta di piatti tipici in giro per il mondo. Sono senza filtro perché cerco sempre di vedere e raccontare la realtà per quello che è &#8212; MAIL DI REDAZIONE: barbara.b@fiordirisorse.eu Città di origine: Milano Città d&#8217;adozione: Bologna Cosa ho studiato: Lettere Il mio lavoro: Giornalista e addetto stampa Per SenzaFiltro scrivo di: Lavoro, diritti, sociale Film preferito: “Novecento” di Bernardo Bertolucci Disco preferito: Tutti i dischi di Guccini Libro preferito: “Delitto e castigo” di Fëdor Dostoevskij, “I miserabili” di Victor Hugo

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Ammalarsi di mobbing è possibile, una lezione che le professioniste intervistate in questo articolo conoscono fin troppo bene. I sintomi e le estreme conseguenze dello stress lavorativo derivato dalle discriminazioni di genere.

Discriminazioni sul lavoro, quelle che le donne non dicono - Informazione senza filtro

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<p>Vivono in un limbo. Non studiano, non lavorano, non hanno nessun tipo di formazione. In preda ad un malessere esistenziale, non riescono a trovare il proprio posto nel mondo e fare qualcosa di concreto per loro stessi. Vengono definiti <strong>NEET </strong>– Not in Education, Employment or Training – e sono tutti quei giovani la cui età è compresa <strong>tra i 15 e i 35 anni</strong> che letteralmente “non fanno nulla”.</p>



<p>I numeri in <strong>Italia</strong> parlano chiaro: si stima che sono <strong>poco più di tre milioni</strong> con un tasso maggiore per quello che riguarda le donne, circa 1,7 milioni. L’incidenza superiore è al Sud Italia, dove la percentuale è più alta rispetto al Centro e al Nord.</p>



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<h2 id="h-chi-sono-i-neet-giovani-nel-limbo-la-neuropsichiatra-olivia-ninotti-condizione-sociale-in-peggioramento">Chi sono i NEET, giovani nel limbo. La neuropsichiatra Olivia Ninotti: “Condizione sociale in peggioramento”</h2>



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<p>I NEET sono quella fetta di società che oscilla tra il non avere una collocazione all’interno del tessuto sociale e cercare di barcamenarsi tra due o più lavori per sbarcare il lunario. Ma può, la società, rinunciare a una parte di questa generazione? Di fatto la fotografia psicoemotiva dei giovani tra i 15 e i 35 anni, oggi, soprattutto a ridosso della pandemia, ne mostra il grande disagio.</p>



<p>“Questo problema, però, c’era anche prima dell’emergenza sanitaria”, sottolinea <strong>Olivia Ninotti</strong>, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, direttore sanitario presso AIAS di Milano Onlus. “Sono <strong>dieci anni circa</strong> che ci troviamo di fronte a una parte di giovani, definiti con l’acronimo NEET, che non riescono a fare, oppure fanno, tante cose senza realizzare qualcosa di giusto per loro. <strong>La pandemia ha acuito</strong> questo disagio per dei motivi ben specifici. La chiusura forzata dei lockdown, la paura del contagio, l’utilizzo esagerato dell’online per comunicare, tutto questo ha fatto in modo che quella parte di ragazzi con delle difficoltà relazionali, scolastiche, lavorative, trovassero il proprio nido all’interno delle mura domestiche, mura dove rinchiudersi”.</p>



<p>Giovani che hanno sviluppato <strong>disturbi</strong> del comportamento alimentare in parità di genere, ansia, depressione, autolesionismo; nei casi più gravi si pensa al suicidio. “Uscire da questa situazione è complicato”, continua la neuropsichiatra, “perché sono ragazzi che <strong>si rendono conto</strong> che c’è una fetta di loro coetanei che ce la fa, a differenza loro. Questo li porta a una condizione di <strong>immobilismo</strong>, si sentono ancora più inefficienti rispetto ai pari o rispetto ai modelli che la società propone in termini di prestazione e competizione. Per questo motivo fanno ancora più fatica. Senza considerare che ci troviamo di fronte a una <strong>condizione sociale in peggioramento</strong>, e noi che lavoriamo a stretto contatto con questa fascia di persone abbiamo la percezione in maniera chiara”.</p>



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<h2 id="h-stritolati-dalle-richieste-della-societa-con-una-differenza-di-genere">Stritolati dalle richieste della società. Con una differenza di genere</h2>



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<p>La nostra società sta cambiando in senso prestazionale e narcisistico. Quello che viene richiesto ai giovani – ma non solo – è <strong>performance</strong>, <strong>velocità</strong> e <strong>competenze specialistiche</strong>, ma non tutti riescono a inserirsi in questa corsa.</p>



<p>“Per arginare questo problema e provare a prevenire la sua manifestazione, la società e le politiche pubbliche dovrebbero <strong>rallentare</strong> nelle richieste e dovrebbero <strong>smettere di proporre ed esaltare modelli di competizione</strong>. Dovrebbero investire molto di più sulla creazione dei servizi aggregativi sia per la famiglia che per i giovani. Si punta così tanto all’individualismo per cui chi ce la fa, avendo anche le risorse economiche e psicologiche, riesce, ma questo rappresenta il 10% rispetto al tutto il resto”.</p>



<p>Alla fine quello che ne risente è l’aspetto psicoemotivo. La Commissione europea, nel rapporto per la richiesta <strong>di bonus psicologico</strong>, ha sottolineato come su 300.000 domande prese in carico, il 43,55% proviene da giovani tra i 18 ed i 35 anni, mentre i minori, al di sotto dei 18 anni che hanno chiesto aiuto, sono il 16,62%. Il <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/bonus-psicologo-una-tantum/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">bonus psicologico</a>, però, per come è stato strutturato, non rappresenta la soluzione a tutto, anzi, “è una goccia nel mare”, spiega<strong> </strong>Olivia Ninotti.</p>



<p>“Le terapie psicologiche sono a lungo termine, nel senso che in poche sedute non si possono risolvere i disagi emotivi. L’altro problema è la mancanza di servizi pubblici che dovrebbero rispondere a questo bisogno di presa in carico psicologica, ma se il pubblico non risponde si ricorre al privato, che ha un costo, e qui il bonus riesce a coprire solo una parte di questo bisogno. Anche perché stanno aumentando le sindromi ansiose/depressive – slatentizzate durante la pandemia – soprattutto tra i giovani, un malessere esistenziale che si traduce nel ‘non so quale sia il mio posto’, ‘non riesco a combinare niente’. In realtà sotto c’è proprio un vuoto che porta a non riconoscersi e quindi ad inserirsi nella società in maniera funzionale e adattativa.”</p>



<p>Un fenomeno, quello dei NEET, caratterizzato anche dalla <strong>diseguaglianza di genere</strong>: si stima che le donne siano in numero maggiore rispetto agli uomini, il 56% rispetto al 44%. “Questo perché al <strong>genere femminile</strong>, nella società occidentale, sono richieste tre cose: <strong>bellezza</strong>, <strong>prestazione</strong> e <strong>intelligenza</strong>”, continua la neuropsichiatra. “Ciò implica un ulteriore carico alle giovani donne, molto spesso tagliate fuori dal mercato del lavoro. Diseguaglianza di genere, ma non solo: anche <strong>territoriale</strong>. In Italia, se si dovesse accendere il focus sulle Regioni che funzionano meglio rispetto alle altre, ma sono pur sempre in affanno, vediamo come le stesse si trovano al Nord, quindi Lombardia, Piemonte, Veneto; segue l’Emilia-Romagna. Nel resto, poi, c’è il baratro”.</p>



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<h2 id="h-come-si-disinnesca-il-fenomeno-dei-neet-le-societa-che-non-accolgono-il-gruppo-diventano-inefficienti">Come si disinnesca il fenomeno dei NEET: “Le società che non accolgono il gruppo diventano inefficienti”</h2>



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<p>Di fatto, se si dovesse guardare al futuro, si dovrebbe stilare una vera e propria strategia per uscire da questo status quo, che immobilizza una parte importante di popolazione.</p>



<p>“Bisognerebbe cambiare le cose da un punto di vista di <strong>prevenzione</strong> e <strong>salute mentale</strong>, a livello non solo sanitario ma anche sociale, per sostenere i giovani e le loro famiglie; altrimenti il rischio è di andare verso un futuro un po’ distopico, dove vige un <strong>individualismo assoluto</strong> e un malessere sociale altissimo, che poi sfocerebbe nella criminalità, nei suicidi e in tante altre forme disfunzionali, perché è bene ricordare che <strong>le società che non accolgono il gruppo diventano società inefficienti</strong>”, conclude la dottoressa Olivia Ninotti.</p>



<p>Una situazione di emarginazione e alienazione dalla vita che dovrebbe essere arginata a partire dalla <strong>scuola</strong>. Inoltre ci vorrebbero delle <strong>politiche</strong> incentrate in maniera specifica su questi problemi, pronte a mettere in campo quelle misure efficaci per fermare il problema e non farlo dilagare. I giovani dovrebbero avere la possibilità di sviluppare i propri talenti e di portarli avanti. Ma tutto questo ad oggi non è possibile, o meglio lo sarebbe nella misura in cui ci si facesse davvero carico della situazione, mettendola a fuoco, non solo spendendo parole di mera circostanza.</p>



<p>Investire sui giovani significa investire sul futuro di una comunità, di un Paese. Non si può pensare di lasciare indietro una parte importante della società, soprattutto nell’epoca del progresso.</p>



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<p><em>Photo credits: Marco Wolff via Pixabay</em></p>



<p>Lo puoi immaginare così: seduto davanti al televisore con indosso una felpa o una maglia comoda, il sonoro indistinto e le immagini indifferenti, la casa silenziata dal sonno di chi la abita. In testa tante domande, varianti di una sola: <strong>sono un fallito?</strong></p>



<p>È l’esemplificazione della condizione emotiva vissuta da migliaia di <strong>imprenditori e liberi professionisti</strong>, uomini o donne che siano, abituati a vivere per il proprio lavoro. Lo stesso che definisce la loro identità, anche rispetto alla famiglia e alla comunità.</p>



<p>“I più fragili tra loro, soprattutto se uomini, assumono <strong>il fallimento dell’impresa come fallimento personale</strong>, perdono fiducia e stima in se stessi, tendono a isolarsi per orgoglio, perdono lucidità e fanno tanta fatica a chiedere aiuto”. È la via crucis percorsa da tanti tra quelli che si rivolgono alla Fondazione antiusura Buon Samaritano di Foggia, in cerca di un aiuto economico utile a superare la crisi della loro piccola o piccolissima azienda, e che incrociano la dottoressa <strong>Annamaria Petito</strong>, docente di Psicologia clinica all’Università di Foggia e consulente della stessa Fondazione.</p>



<p>Chi ci arriva, chi riesce a superare “lo <strong>stigma sociale</strong>” del fallimento, che “grava particolarmente sugli <strong>imprenditori più anziani</strong>” e con una maggiore visibilità sociale, a parere di Annamaria Petito compie un enorme passo in avanti: “Comprende di aver bisogno di aiuto per salvare se stesso, di aver bisogno di aiuto per contrastare il malessere e nutrire l’autostima”.</p>



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<h2 id="h-i-suicidi-per-motivazioni-economiche-e-i-due-tipi-di-imprenditori-in-fallimento">I suicidi per motivazioni economiche e i due tipi di imprenditori in fallimento</h2>



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<p>Purtroppo, a farlo è una minoranza a fronte di una <strong>silenziosa e sofferente maggioranza</strong> in cui c’è anche chi non riesce a sfuggire al gorgo della depressione e delle sue conseguenze estreme. Lo confermano i dati, ancora in fase di elaborazione, raccolti dall’Osservatorio Suicidi per motivazioni economiche, attivato dieci anni fa dall’Università privata Link Campus University di Roma, e anticipati a <em>SenzaFiltro</em> dal suo direttore, <strong>Nicola Ferrigni</strong>, professore associato di Sociologia generale: “Con la ripresa post lockdown, i <strong>suicidi per motivazioni economiche</strong> sono <strong>aumentati del 15%</strong> e sono ancora gli imprenditori le vittime più numerose di questo fenomeno”, che pure si sta diffondendo in misura preoccupante tra quanti perdono il lavoro.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiBari1.png"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiBari1.png" alt="" class="wp-image-52777" /></a></figure></div>


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<p>È bene precisare che la motivazione economica è minoritaria (mediamente il 5% nell’ultimo decennio) tra quelle che annualmente provocano una media di 4.000 suicidi in Italia; è altrettanto indubbio che se ne rileva l’incremento in presenza di crisi sistemiche come quella provocata prima dalla pandemia e poi dagli effetti della speculazione energetica, enfatizzate dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina.</p>



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<p>A parere di Ferrigni, si possono individuare due macrocategorie di vittime tra chi gestisce un’impresa: l’<strong>imprenditore altruistico </strong>e l’<strong>imprenditore rabbioso</strong>. Il primo “non riesce a far fronte agli impegni assunti con i dipendenti e i fornitori”, si grava anche delle loro difficoltà, di cui assume la totale responsabilità, e “vive il fallimento come una vergogna così profonda da essere insopportabile”. L’altro “interpreta il suicidio come estremo gesto di denuncia” di fattori distorsivi del sistema economico, su cui non ha alcun potere e che hanno provocato il fallimento della sua azienda, com’è il caso di chi “vanta importanti crediti dalla pubblica amministrazione, non riesce a riscuoterli e non può utilizzarli per fronteggiare la crisi”.</p>



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<h2 id="h-ma-quale-crisi-gli-imprenditori-non-credono-agli-allarmi-della-stampa">Ma quale crisi. Gli imprenditori non credono agli allarmi della stampa</h2>



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<p>La depressione profonda, all’origine della scelta di togliersi la vita, “non è un malessere che ho riscontrato e riscontro nella mia attività”, afferma <strong>Stefano Bianchi</strong>, direttore di CONFAPI Emilia. “Anzi, i piccoli imprenditori con i quali parlo sono molto determinati a superare anche questa fase critica”.</p>



<p>A suo dire, le emozioni prevalenti sono <strong>incertezza</strong> e <strong>frustrazione</strong>. La prima ha segnato soprattutto la fase acuta della pandemia, ed era conseguenza del “non sapere quando sarebbe finita, quando si sarebbe potuto riprendere a lavorare” con un minimo di serenità e una prospettiva più lunga del bollettino settimanale o delle fasi stagionali. La frustrazione è quella che si vive oggi: “Il fatturato aziendale è aumentato, in molti casi anche oltre i livelli del 2019”, riprende Bianchi. “Gli ordini arrivano, gli occupati aumentano, però non si può programmare nulla, neanche a medio termine”, a causa dell’instabilità e delle speculazioni.</p>



<p>Le analisi e le esperienze di Nicola Ferrigni e Stefano Bianchi convergono su una valutazione: gli <strong>imprenditori</strong> <strong>non si fanno influenzare dai continui allarmi</strong> diffusi a mezzo <strong>stampa</strong>. “Qualcuno ha aperto le procedure di cassintegrazione o ha attivato forme di tutela finanziaria basandosi sull’esperienza negativa di qualche collega – testimonia il direttore di CONFAPI Emilia – ma poi non ha utilizzato né l’una né l’altra”, perché nella realtà non si sono prodotti gli effetti negativi temuti.</p>



<p>“Gli allarmi sono più funzionali all’<strong>orientamento delle scelte politiche </strong>che a quelle delle decisioni aziendali”, aggiunge il docente di Sociologia generale, che poi annota: “Parlare poco o per nulla dei suicidi economici, però, è un errore”. O può essere una scelta, effetto degli eccessi allarmistici che hanno segnato le cronache nel biennio 2008-2010, quando a scatenare la depressione fu la crisi finanziaria sistemica e la gran parte degli organi d’informazione smarrì la capacità di distinguere tra le motivazioni che spingono una persona a togliersi la vita, e diffuse la percezione che non passasse giorno senza il suicidio di un ‘fallito’.</p>



<p>Tra gli imprenditori il cui equilibrio emotivo è stato destabilizzato dalle crisi, i “più <strong>giovani</strong> hanno una <strong>maggiore consapevolezza</strong>” della distinzione tra ciò che si è e ciò che si fa, riprende Annamaria Petito; quindi, “si sentono meno soli, sono più disponibili a farsi aiutare, anche per rimettersi in gioco”, e riescono ad analizzare più compiutamente il fallimento.</p>



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<h2 id="h-quasi-fallita-colpevolizzata-ma-non-depressa-la-giovane-imprenditrice-a-due-anni-dalla-chiusura">“Quasi fallita, colpevolizzata, ma non depressa”. La giovane imprenditrice a due anni dalla chiusura</h2>



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<p><strong>Silvana</strong>, nome di fantasia scelto per una giovane imprenditrice che ha deciso di vivere a Milano e di farne la base per la sua piccola impresa nel settore della moda, ci sta provando, a ripartire, eppure non riesce a fare a meno di avvertire il peso – anche personale – del fallimento: “L’azienda non l’ho chiusa, però sento di non essere stata capace di sviluppare imprenditorialmente la mia idea”.</p>



<p>Con alle spalle studi e stage nel settore del design, otto anni fa decise di avviare la produzione di accessori capaci di “valorizzare la mia creatività e l’abilità di piccoli artigiani che ho individuato e selezionato con cura, anche sulla base dei materiali utilizzati”. Una piccola impresa orientata alla sostenibilità ambientale e alla responsabilità produttiva, costruita “senza chiedere un euro in prestito alle banche o un sostegno pubblico”, che dalla pandemia è stata affossata: “I negozi che vendevano i miei prodotti prima hanno chiuso e poi non hanno pagato le forniture; per ottenere quanto mi dovevano ho dovuto fare ricorso ai solleciti a mezzo avvocato e ho perso i clienti”.</p>



<p>L’esplorazione dell’e-commerce non ha prodotto i frutti sperati, perché è diventato “lo sbocco di tantissimi, dai più piccoli ai più grandi, con l’effetto di far crescere i costi di gestione”, e così anche “l’attesa rivalutazione del Made in Italy artigianale” è diventata una chimera per chi non ha grandi risorse da investire in promozione.</p>



<p>Nei due anni che abbiamo alle spalle, Silvana ha dovuto fare i conti con “un <strong>contesto economico e burocratico non inclusivo e non accogliente</strong> verso chi vuole produrre rispettando i fornitori, i lavoratori, i clienti e la comunità”. Nei momenti più difficili “<strong>mi sono colpevolizzata o mi hanno colpevolizzata</strong>, ad esempio chi mi ha detto che ho sbagliato a non chiedere prestiti per avviarmi; ma ho reagito, perché credo di aver fatto tutto ciò che potevo fare”.</p>



<p>È la ragione per cui “non sono depressa”, piuttosto “mi sento a scadenza: la mia azienda è attiva, però non vende; opero sui social e qualcuno mi riconosce, ma non acquista. Quando sono partita mi dicevano: ‘Supera i primi due anni di attività e vedrai che andrà bene’; ora sono io a dirmi: se tra due anni non sei ripartita, liquida tutto. Quella è la mia scadenza”.</p>



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Falliti e depressi: suicidi economici e imprenditori che non reggono la crisi

<p>Dopo la pandemia la <strong>salute mentale</strong> è un tema sempre più sentito e discusso. E, come rileva l’ultima indagine sugli stili di vita degli adolescenti, i giovani oggi non stigmatizzano la malattia mentale come spesso accadeva con le generazioni precedenti, ma riescono ad affrontarla con maggiore consapevolezza.</p>
<p>È in questo scenario che matura il successo della miniserie prodotta da Picomedia per Netflix, <strong><em>Tutto chiede salvezza</em></strong>, liberamente tratta dall’omonimo romanzo autobiografico del poeta e scrittore <strong>Daniele Mencarelli</strong> (Premio Strega Giovani 2020). Mencarelli è autore della sceneggiatura insieme a Daniela Gambaro, Francesco Cenni e al regista Francesco Bruni (sceneggiatore storico di Paolo Virzì, dietro alla macchina da presa di <em>Scialla!</em>, <em>Tutto quello che vuoi</em> e <em>Cosa sarà</em>).</p>
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<h2 id="h-tutto-chiede-salvezza-un-inaspettato-viaggio-di-formazione-in-forma-di-serie"><em>Tutto chiede </em>salvezza, un inaspettato viaggio di formazione in forma di serie</h2>
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<p>Il protagonista è <strong>Daniele</strong> (Federico Cesari), ventenne che ha mollato l’università e vende condizionatori. In un’afosa estate romana l’incontro con un amico d’infanzia, irrimediabilmente regredito a livello mentale a causa di un incidente stradale, fa esplodere la sua già accentuata <strong>fatica esistenziale</strong>. Si sballa con gli amici, assume alcol e stupefacenti che lo portano ad avere una crisi psicotica.</p>
<p>Daniele si sveglia il giorno dopo in un reparto psichiatrico nel quale sarà costretto in regime di <strong>trattamento sanitario obbligatorio</strong> (TSO), senza ricordare nulla di quanto gli è successo. Reagisce dapprima con ostilità e insofferenza al ricovero coatto, per poi accettare di farsi aiutare ad affrontare la condizione che gli fa avvertire in maniera così intensa e dolorosa il peso del mondo.</p>
<p>Nei <strong>sette episodi</strong> della miniserie – uno per ogni giorno di TSO, da domenica a sabato – prende così forma il viaggio di Daniele: una <strong>ricerca di senso</strong> della propria esistenza; una ricerca interiore tra ricordi, flashback e rimossi che abbraccia un fondamentale cambio di sguardo nel vivere la quotidianità del reparto e i rapporti con i medici, gli infermieri, e soprattutto i suoi compagni di stanza.</p>
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<h2 id="h-fratelli-offerti-dalla-vita-trovati-sulla-stessa-barca">Fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca</h2>
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<p>“Sono i <strong>cinque pazzi</strong> con cui ho condiviso la stanza e questa settimana della mia vita. Con loro non ho avuto possibilità di mentire, di recitare la parte del perfetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile alla loro. Con loro ho parlato di malattia, di Dio e di morte, del tempo e della bellezza, senza dovermi sentire giudicato, analizzato”, spiega Daniele Mencarelli.</p>
<p>La loro rappresentazione è l’aspetto più riuscito della serie, perché i personaggi restituiscono <strong>un’umanità che va oltre la patologia psichiatrica</strong> di cui soffrono. <strong>Gianluca</strong> (Vincenzo Crea), affetto da disturbo bipolare e rifiutato dai genitori per i suoi atteggiamenti femminili e l’omosessualità, e <strong>Mario</strong> (Andrea Pennacchi), maestro elementare saggio e conciliante – “eroe tragico che salva ma non è in grado di salvarsi”, come spiega Mencarelli – diventano per il protagonista vere e proprie figure di riferimento.</p>
<p>Poi ci sono <strong>Giorgio</strong> (Lorenzo Renzi), fisicità imponente e un lutto mai elaborato; <strong>Madonnina</strong> (Vincenzo Nemolato), con le sue invocazioni religiose e una pericolosa attrazione per il fuoco; e infine <strong>Alessandro</strong> (Alessandro Pacioni), vittima di uno stato catatonico e accudito dal padre (Massimo Bonetti). Con tutti loro Daniele forma <strong>una comunità basata sulla compassione</strong>, la condivisione di risate e lacrime, del carico dei rispettivi demoni, al di fuori delle logiche di una società esterna che pretende infallibilità e “normalità”.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/TCS_102_Unit_00070RC.jpeg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="576" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/TCS_102_Unit_00070RC-1024x576.jpeg" alt="" class="wp-image-52917" /></a></figure>
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<h2 id="h-dare-voce-al-disagio-umano-dalla-pagina-scritta-allo-schermo">Dare voce al disagio umano, dalla pagina scritta allo schermo</h2>
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<p>Rispetto al <strong>romanzo</strong> di Mencarelli due sono le principali <strong>differenze</strong>: la storia dagli anni Novanta si sposta al presente, e si sviluppa la storia d’amore tra Daniele e il personaggio di <strong>Nina</strong> (Fotinì Peluso), ex compagna di liceo ora attrice e influencer, che nasconde dietro l’aggressività una profonda solitudine e fragilità: tenta il suicidio, e per questo è ricoverata nel reparto femminile. La sua relazione con il protagonista diviene l’elemento sentimentale della storia che alleggerisce la narrazione ed evidenzia l’innegabile impatto dei social media sul disagio psichico contemporaneo.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/tutto-chiede-salvezza-netflix-serie-tv-federico-cesari-fotini-peluso.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/tutto-chiede-salvezza-netflix-serie-tv-federico-cesari-fotini-peluso-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-52916" /></a></figure>
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<p>Girata in larga parte all’Ospedale Militare Lungodegenza di Anzio, <em>Tutto chiede salvezza</em> ha un’<strong>impostazione teatrale </strong>molto forte, esaltata dalla dinamica interno/esterno, dalla qualità della scrittura dei dialoghi e dalla convincente recitazione di tutto il cast, formato da volti giovani (Federico Cesari, Fotinì Peluso, Vincenzo Crea) e interpreti affermati (Andrea Pennacchi, Ricky Memphis nel ruolo dell’infermiere Pino, Filippo Nigro in quello del dottor Mancino, Carolina Crescentini nei panni della madre di Nina).</p>
<p>Gli si perdonano l’<strong>ingenuità</strong> di alcune scelte narrative e la <strong>forzatura di una sottotrama amorosa</strong>, che non aggiunge poi così tanto al messaggio di fondo: la salvezza passa dalla <strong>capacità di chiedere aiuto</strong>, dall’accettazione delle proprie e altrui fragilità, e dalla costruzione della consapevolezza di sé.</p>
<p>“Lascia il tuo sguardo libero, non farti raccontare il mondo da nessuno”, dice Mario a Daniele, che trova nella scrittura lo strumento per gestire dolore ed emozioni. Con il suo connubio efficace di dramma e commedia, di incontro tra tragedia e speranza, <em>Tutto chiede salvezza </em>riesce nell’intento di <strong>rendere universale una storia personale</strong>. Perché racconta di anime e di corpi, non solo quelle dei pazienti, travolti dalla complessità della vita e bisognosi di salvezza. Per questo il pubblico, non solo quello adolescente, vi si sta riconoscendo.</p>
<p><strong>Non vi sono pazzi e sani</strong>. Del resto, la lezione di Basaglia era “visto da vicino nessuno è normale”.</p>
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#spettacolo

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#spettacolo - Informazione senza filtro

L’adattamento Netflix dello struggente romanzo di Daniele Mencarelli è una parabola di formazione e uno sguardo empatico sulla malattia mentale.

&#8220;Tutto chiede salvezza&#8221;, anche nelle serie. Netflix racconta il disagio psichico - Informazione senza filtro

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<p>“<strong>Per la salute mentale è rilevante la condizione lavorativa</strong>: inattivi e disoccupati tra i 35-64 anni riferiscono più spesso disturbi di depressione o ansia cronica grave (10,8% e 8,9%) rispetto ai coetanei occupati (3,5%). La <strong>depressione </strong>è il disturbo mentale più diffuso: si stima che in Italia superino i 2,8 milioni (5,4% delle persone di 15 anni e più) coloro che ne hanno sofferto nel corso del 2015 e siano 1,3 milioni (2,5%) coloro che hanno presentato i sintomi della depressione maggiore nelle due settimane precedenti l&#8217;intervista. Rispetto alla media dei Paesi europei, in Italia la depressione è meno diffusa tra gli adulti e tra i 15-44enni (1,7% contro 5,2% media UE28), mentre per gli anziani lo svantaggio è di 3 punti percentuali”. </p>



<p>È quanto afferma l’ISTAT nel suo report <em>La salute mentale nelle varie fasi della vita</em>, pubblicato nel luglio del 2018 e con riferimento agli anni 2015-2017.</p>



<p>Neanche un anno dopo da questa pubblicazione, <strong>Marco</strong>, cinquantaseienne di origini piemontesi, è uscito da una grande azienda italiana di abbigliamento – celebre in tutto il mondo – dove si occupava di facility e security a livello manageriale. Lo abbiamo sentito in esclusiva per <em>SenzaFiltro</em> perché vogliamo capire che cosa succede agli inattivi o disoccupati della fascia d’età tra i 35 e i 64 anni che cercano di rientrare nel mondo del lavoro: quali le difficoltà che incontrano lungo il cammino di reinserimento e quali le conseguenze sulla propria salute mentale durante questa (annosa) ricerca.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiLieto-1.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiLieto-1.jpg" alt="" class="wp-image-52772" /></a></figure></div>


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<h2 id="h-da-security-manager-a-disoccupato-la-storia-di-marco">Da security manager a disoccupato. La storia di Marco</h2>



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<p>Quando chiamiamo Marco troviamo un uomo deciso, per nulla rassegnato e pronto a raccontarci la propria storia.</p>



<p>“Ho lasciato l’azienda perché la mia figura professionale sarebbe stata sostituita da un altro profilo, legato al nuovo amministratore delegato che sarebbe arrivato in azienda.</p>



<p>Una vera e propria <strong>riorganizzazione aziendale</strong>: <strong>l’ex articolo 1, comma 40 della legge Fornero</strong>. Nel mio ruolo lavorativo avevo mansioni direttive, ero procuratore dell’azienda, poi sono stato costretto a lasciare: ho provato un misto di delusione, rabbia e frustrazione. Poi, ho affrontato la questione e per tutelarmi ho deciso di avvalermi di un supporto legale per concordare l’uscita.”</p>



<p>Marco non sapeva che nelle <em>sliding doors </em>della vita professionale sarebbe stato complicatissimo rientrare nel mondo del lavoro, soprattutto con gli standard economici e professionali precedenti. Eppure sembrava che per lui questa regola potesse essere disattesa, in totale controtendenza.</p>



<p>“Prima del COVID-19 ho ricevuto un’offerta di lavoro sempre per un’azienda multinazionale dello stesso settore, con <strong>un’offerta economica e professionale</strong> decisamente <strong>migliorativa</strong> rispetto alla precedente. Così, dopo i colloqui andati a buon fine e prima della firma – per intraprendere la mia nuova avventura professionale – decido quindi di regalarmi una meritata <strong>vacanza</strong> dopo sette anni di stress psicofisico, dove ero arrivato al <strong>burnout</strong>. Mi sono reso conto che stavo esagerando dal punto di vista fisico, psichico e mentale. Arrivavo a lavorare 13 ore al giorno, senza contare la reperibilità quando ti chiamavano anche di notte”.</p>



<p>Marco si gode le meritate vacanze e poi, al rientro, la doccia fredda. “Arriva la <strong>prima ondata di COVID-19</strong>, c’era stato un calo del fatturato e l’azienda con cui pensavo di iniziare la collaborazione mi comunica che il management non se la sentiva di investire tutti quei soldi nell’inserimento della mia figura professionale, preferendo far crescere figure al proprio interno visti i tempi incerti che stavano per arrivare con la pandemia.”</p>



<p>Da lì, più nulla, per Marco solo muri di gomma e stress mentale per <strong>cercare in fretta una nuova occupazione</strong>.</p>



<p>“Ho cominciato a cercare annunci e a rispondere, per poi inviare la mia candidatura, per offerte di lavoro in linea con la mia esperienza professionale. Così quando mandi il cv provi in primis a scavalcare il muro dell’<strong>ATS</strong> (<em>Applicant Tracking System: si tratta di un software per la selezione del personale. Per superare la fase di selezione automatica assegnata a questi software, è bene compilare un curriculum specifico e leggibile da parte di una macchina: esistono siti specializzati che spiegano come fare, N.d.R.</em>)<em>, </em>ma anche se riuscissi a passarlo sono sicuro che li guarderà un ‘ragazzo di bottega’ – non un senior – che quando noterà la mia data di nascita sul cv passerà oltre.”</p>



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<h2 id="h-le-illusioni-dei-recruiter-e-l-intossicazione-da-linkedin-cosi-ora-faccio-il-macellaio">Le illusioni dei recruiter e l’intossicazione da LinkedIn: “Così ora faccio il macellaio”</h2>



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<p>Eppure in tutto questo tempo qualche chiamata è arrivata.</p>



<p>“A volte mi chiedevano addirittura che lavoro facessi. E poi ho maturato la convinzione che <strong>i recruiter cerchino di illuderti</strong>, gente veramente franca ne ho trovata pochissima. A onor del vero, una sola volta un direttore del personale è stato davvero sincero sul perché fosse stato scelto un altro candidato al mio posto. Poi ho trovato campioni nell’arte del <strong>ghosting</strong>, sia agenzie del lavoro che aziende: ti lasciano in stand-by e non ti danno più risposta, sparendo letteralmente dalla circolazione senza contare le aziende che ti tengono in ballo a tempo indeterminato: da una di Bergamo aspetto una risposta da sei mesi”.</p>



<p>Dal burnout per eccesso di lavoro a un altro tipo di malessere: la sua salute mentale ne sta risentendo tuttora, anche se in maniera diversa. “Sto vivendo una sorta di <strong>tossicodipendenza da LinkedIn</strong>: controllo offerte di lavoro, rispondo e interagisco con aziende e recruiter. Non ti nascondo che ho pianto molte volte e non dormo una notte intera ormai da quasi quattro anni, senza contare gli amici ed ex colleghi che spariscono quando non fai più parte di un certo mondo, dove ostentavi un certo status economico e sociale. <strong>Rimani da solo</strong>.”</p>



<p>Nel frattempo è finita anche la NASpI, il sostegno economico di disoccupazione. “Per fortuna, quando ero giovane, per pagarmi gli studi avevo imparato il ruolo di <strong>macellaio</strong>, e mi sono ‘riciclato’ così nel mondo del lavoro, grazie ai maestri piemontesi da cui ho appreso l’arte di trattare la carne. È stato come tornare in bicicletta: sono cose che ti rimangono. La cosa buffa è che anche qui i contratti sono precari e sei costantemente sotto pressione. <strong>Ero security manager e adesso faccio il macellaio. Ma non mollo</strong>.”</p>



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<h2 id="h-l-head-hunter-gabriele-ghini-un-contratto-a-progetto-a-cinquant-anni-non-e-lesa-maesta">L’head hunter Gabriele Ghini: “Un contratto a progetto a cinquant’anni non è lesa maestà”</h2>



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<p>Per provare a capire meglio le difficoltà oggettive che un over 50 può incontrare per trovare lavoro abbiamo dialogato con <strong>Gabriele Ghini</strong>, head hunter, presidente della ProperdelMare Consulting e professore a contratto di Personal branding e Digital identity presso l’Università Cattolica di Milano, oltre che autore del libro pubblicato da Este nel 2018: <em>Diario di un cacciatore di teste</em>. <em>Oltre social, algoritmi e coronavirus.</em> Dal 2013 è managing director di Transearch Italy.</p>


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<figure class="alignleft size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Ghini-per-Norman-3.jpg"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Ghini-per-Norman-3-740x1024.jpg" alt="" class="wp-image-52655" width="370" height="513" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong>Gabriele Ghini</strong>, e professore di Personal branding e Digital identity presso l’Università Cattolica di Milano</figcaption></figure></div>


<p><strong>È così difficile ricollocarsi per chi è uscito dal mondo del lavoro con un ruolo manageriale e con un’età delicata?</strong></p>



<p>Guardi, ho collocato proprio l’altro giorno una persona over 60 e ne avevo assunta personalmente una di 64 anni, ricercatrice, che poi dopo neppure un anno è andata in un’altra azienda, migliorando la sua posizione.</p>



<p><strong>Mi sembra di capire che la risposta per lei sia no.</strong></p>



<p>Il mercato del lavoro oggi è duro e chiuso per tutti: poi, nel caso specifico che mi ha raccontato, per i cinquantenni che escono dal mondo del lavoro con una posizione da dirigente è fondamentale per loro ricominciare a guadagnarsi la fiducia e a lavorare sulla propria brand reputation. Quando queste persone intendono ricollocarsi lo fanno con delle pretese molto alte da parte loro, al fine di mantenere il livello di retribuzione precedente, ma occorre dimenticare di mettere i “soldi sul tavolo” ai primi colloqui: è importante dimostrare anche flessibilità. Ripartire con un contratto a tempo determinato, magari anche a progetto, non è lesa maestà. Sinceramente non ho mai trovato aziende che mi facessero problemi sull’età, ma forse è perché mi occupo di profili alti.</p>



<p><strong>Cosa risponde a chi parla di ghosting da parte di chi fa selezione per le aziende?</strong></p>



<p>Quando lavoravo per un’agenzia di recruitment di middle management – dove trattavo una mole di curriculum infinitamente più alta di quelli che tratto oggi e dove ho rischiato anche io il burnout – rispondevo sempre comunque a tutti: è la mia cultura del lavoro. Quando insegno nelle università dico sempre ai giovani: se volete differenziarvi rispetto agli altri, la netiquette è importante. È fondamentale portare rispetto per chi cerca di entrare in contatto con te.</p>



<p><strong>Ora Marco fa il macellaio, ma era facility e security manager in un’azienda internazionale.</strong></p>



<p>Di recente ho concluso un corso dedicato proprio a questa figura professionale richiesto da un’associazione dei security manager e dei professional, perché hanno visto che c’è una fetta dei loro associati che è stata espulsa dalle aziende e fa fatica a ricollocarsi: un successo di partecipanti, con alcune persone che poi sono state assunte proprio con quel ruolo. Una di loro mi ha chiamato l’altro giorno per comunicarmelo. Nel corso ad hoc per questa figura professionale abbiamo tenuto fondamenti di personal branding e digital identity nella ricerca del lavoro, concetto di employability ed elementi che rendono employable, come elaborare un curriculum a prova di ATS, prova pratica del funzionamento dell’algoritmo di LinkedIn utilizzato dai cacciatori di teste, come ottimizzare in modo strategico il profilo LinkedIn, rispondere agli annunci su LinkedIn, tecniche di networking online.</p>



<p><strong>Network?</strong></p>



<p>Sì. È fondamentale per mettersi in rete con altre persone e creare connessioni nuove, cercando di trovare nuove opportunità professionali.</p>



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<p>Ci auguriamo che queste indicazioni non rappresentino solo una sorta di placebo, per Marco e per chi come lui è alla ricerca di reinserimento nel mondo del lavoro, in una situazione di disagio per la salute mentale.</p>



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<p><em><strong>In copertina foto di Zhugher da Pixabay</strong></em></p>


Da security manager a macellaio: la via crucis degli over 50 in cerca di lavoro

<p>Lo puoi immaginare così: seduto davanti al televisore con indosso una felpa o una maglia comoda, il sonoro indistinto e le immagini indifferenti, la casa silenziata dal sonno di chi la abita. In testa tante domande, varianti di una sola: <strong>sono un fallito?</strong></p>
<p>È l’esemplificazione della condizione emotiva vissuta da migliaia di <strong>imprenditori e liberi professionisti</strong>, uomini o donne che siano, abituati a vivere per il proprio lavoro. Lo stesso che definisce la loro identità, anche rispetto alla famiglia e alla comunità.</p>
<p>“I più fragili tra loro, soprattutto se uomini, assumono <strong>il fallimento dell’impresa come fallimento personale</strong>, perdono fiducia e stima in se stessi, tendono a isolarsi per orgoglio, perdono lucidità e fanno tanta fatica a chiedere aiuto”. È la via crucis percorsa da tanti tra quelli che si rivolgono alla Fondazione antiusura Buon Samaritano di Foggia, in cerca di un aiuto economico utile a superare la crisi della loro piccola o piccolissima azienda, e che incrociano la dottoressa <strong>Annamaria Petito</strong>, docente di Psicologia clinica all’Università di Foggia e consulente della stessa Fondazione.</p>
<p>Chi ci arriva, chi riesce a superare “lo <strong>stigma sociale</strong>” del fallimento, che “grava particolarmente sugli <strong>imprenditori più anziani</strong>” e con una maggiore visibilità sociale, a parere di Annamaria Petito compie un enorme passo in avanti: “Comprende di aver bisogno di aiuto per salvare se stesso, di aver bisogno di aiuto per contrastare il malessere e nutrire l’autostima”.</p>
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<h2 id="h-i-suicidi-per-motivazioni-economiche-e-i-due-tipi-di-imprenditori-in-fallimento">I suicidi per motivazioni economiche e i due tipi di imprenditori in fallimento</h2>
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<p>Purtroppo, a farlo è una minoranza a fronte di una <strong>silenziosa e sofferente maggioranza</strong> in cui c’è anche chi non riesce a sfuggire al gorgo della depressione e delle sue conseguenze estreme. Lo confermano i dati, ancora in fase di elaborazione, raccolti dall’Osservatorio Suicidi per motivazioni economiche, attivato dieci anni fa dall’Università privata Link Campus University di Roma, e anticipati a <em>SenzaFiltro</em> dal suo direttore, <strong>Nicola Ferrigni</strong>, professore associato di Sociologia generale: “Con la ripresa post lockdown, i <strong>suicidi per motivazioni economiche</strong> sono <strong>aumentati del 15%</strong> e sono ancora gli imprenditori le vittime più numerose di questo fenomeno”, che pure si sta diffondendo in misura preoccupante tra quanti perdono il lavoro.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiBari1.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiBari1.png" alt="" class="wp-image-52777" /></a></figure>
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<p>È bene precisare che la motivazione economica è minoritaria (mediamente il 5% nell’ultimo decennio) tra quelle che annualmente provocano una media di 4.000 suicidi in Italia; è altrettanto indubbio che se ne rileva l’incremento in presenza di crisi sistemiche come quella provocata prima dalla pandemia e poi dagli effetti della speculazione energetica, enfatizzate dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiBari2.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiBari2.png" alt="" class="wp-image-52776" /></a></figure>
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<p>A parere di Ferrigni, si possono individuare due macrocategorie di vittime tra chi gestisce un’impresa: l’<strong>imprenditore altruistico </strong>e l’<strong>imprenditore rabbioso</strong>. Il primo “non riesce a far fronte agli impegni assunti con i dipendenti e i fornitori”, si grava anche delle loro difficoltà, di cui assume la totale responsabilità, e “vive il fallimento come una vergogna così profonda da essere insopportabile”. L’altro “interpreta il suicidio come estremo gesto di denuncia” di fattori distorsivi del sistema economico, su cui non ha alcun potere e che hanno provocato il fallimento della sua azienda, com’è il caso di chi “vanta importanti crediti dalla pubblica amministrazione, non riesce a riscuoterli e non può utilizzarli per fronteggiare la crisi”.</p>
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<h2 id="h-ma-quale-crisi-gli-imprenditori-non-credono-agli-allarmi-della-stampa">Ma quale crisi. Gli imprenditori non credono agli allarmi della stampa</h2>
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<p>La depressione profonda, all’origine della scelta di togliersi la vita, “non è un malessere che ho riscontrato e riscontro nella mia attività”, afferma <strong>Stefano Bianchi</strong>, direttore di CONFAPI Emilia. “Anzi, i piccoli imprenditori con i quali parlo sono molto determinati a superare anche questa fase critica”.</p>
<p>A suo dire, le emozioni prevalenti sono <strong>incertezza</strong> e <strong>frustrazione</strong>. La prima ha segnato soprattutto la fase acuta della pandemia, ed era conseguenza del “non sapere quando sarebbe finita, quando si sarebbe potuto riprendere a lavorare” con un minimo di serenità e una prospettiva più lunga del bollettino settimanale o delle fasi stagionali. La frustrazione è quella che si vive oggi: “Il fatturato aziendale è aumentato, in molti casi anche oltre i livelli del 2019”, riprende Bianchi. “Gli ordini arrivano, gli occupati aumentano, però non si può programmare nulla, neanche a medio termine”, a causa dell’instabilità e delle speculazioni.</p>
<p>Le analisi e le esperienze di Nicola Ferrigni e Stefano Bianchi convergono su una valutazione: gli <strong>imprenditori</strong> <strong>non si fanno influenzare dai continui allarmi</strong> diffusi a mezzo <strong>stampa</strong>. “Qualcuno ha aperto le procedure di cassintegrazione o ha attivato forme di tutela finanziaria basandosi sull’esperienza negativa di qualche collega – testimonia il direttore di CONFAPI Emilia – ma poi non ha utilizzato né l’una né l’altra”, perché nella realtà non si sono prodotti gli effetti negativi temuti.</p>
<p>“Gli allarmi sono più funzionali all’<strong>orientamento delle scelte politiche </strong>che a quelle delle decisioni aziendali”, aggiunge il docente di Sociologia generale, che poi annota: “Parlare poco o per nulla dei suicidi economici, però, è un errore”. O può essere una scelta, effetto degli eccessi allarmistici che hanno segnato le cronache nel biennio 2008-2010, quando a scatenare la depressione fu la crisi finanziaria sistemica e la gran parte degli organi d’informazione smarrì la capacità di distinguere tra le motivazioni che spingono una persona a togliersi la vita, e diffuse la percezione che non passasse giorno senza il suicidio di un ‘fallito’.</p>
<p>Tra gli imprenditori il cui equilibrio emotivo è stato destabilizzato dalle crisi, i “più <strong>giovani</strong> hanno una <strong>maggiore consapevolezza</strong>” della distinzione tra ciò che si è e ciò che si fa, riprende Annamaria Petito; quindi, “si sentono meno soli, sono più disponibili a farsi aiutare, anche per rimettersi in gioco”, e riescono ad analizzare più compiutamente il fallimento.</p>
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<h2 id="h-quasi-fallita-colpevolizzata-ma-non-depressa-la-giovane-imprenditrice-a-due-anni-dalla-chiusura">“Quasi fallita, colpevolizzata, ma non depressa”. La giovane imprenditrice a due anni dalla chiusura</h2>
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<p><strong>Silvana</strong>, nome di fantasia scelto per una giovane imprenditrice che ha deciso di vivere a Milano e di farne la base per la sua piccola impresa nel settore della moda, ci sta provando, a ripartire, eppure non riesce a fare a meno di avvertire il peso – anche personale – del fallimento: “L’azienda non l’ho chiusa, però sento di non essere stata capace di sviluppare imprenditorialmente la mia idea”.</p>
<p>Con alle spalle studi e stage nel settore del design, otto anni fa decise di avviare la produzione di accessori capaci di “valorizzare la mia creatività e l’abilità di piccoli artigiani che ho individuato e selezionato con cura, anche sulla base dei materiali utilizzati”. Una piccola impresa orientata alla sostenibilità ambientale e alla responsabilità produttiva, costruita “senza chiedere un euro in prestito alle banche o un sostegno pubblico”, che dalla pandemia è stata affossata: “I negozi che vendevano i miei prodotti prima hanno chiuso e poi non hanno pagato le forniture; per ottenere quanto mi dovevano ho dovuto fare ricorso ai solleciti a mezzo avvocato e ho perso i clienti”.</p>
<p>L’esplorazione dell’e-commerce non ha prodotto i frutti sperati, perché è diventato “lo sbocco di tantissimi, dai più piccoli ai più grandi, con l’effetto di far crescere i costi di gestione”, e così anche “l’attesa rivalutazione del Made in Italy artigianale” è diventata una chimera per chi non ha grandi risorse da investire in promozione.</p>
<p>Nei due anni che abbiamo alle spalle, Silvana ha dovuto fare i conti con “un <strong>contesto economico e burocratico non inclusivo e non accogliente</strong> verso chi vuole produrre rispettando i fornitori, i lavoratori, i clienti e la comunità”. Nei momenti più difficili “<strong>mi sono colpevolizzata o mi hanno colpevolizzata</strong>, ad esempio chi mi ha detto che ho sbagliato a non chiedere prestiti per avviarmi; ma ho reagito, perché credo di aver fatto tutto ciò che potevo fare”.</p>
<p>È la ragione per cui “non sono depressa”, piuttosto “mi sento a scadenza: la mia azienda è attiva, però non vende; opero sui social e qualcuno mi riconosce, ma non acquista. Quando sono partita mi dicevano: ‘Supera i primi due anni di attività e vedrai che andrà bene’; ora sono io a dirmi: se tra due anni non sei ripartita, liquida tutto. Quella è la mia scadenza”.</p>
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dibari-cover

Gianni di Bari

Ho speso 34 dei miei quasi 58 anni ad occuparmi di comunicazione. Ho iniziato come giornalista, pubblicista dal ‘92 e professionista dal ’97, per testate locali, regionali e nazionali. Sono passato alla comunicazione per le aziende e per le istituzioni, che pratico tutt’oggi. L&#8217;interesse professionale si è focalizzato sulla promozione delle produzioni agroalimentari italiane, anche facendo leva sulle connessioni tra cibo e cultura, e su azioni di marketing territoriale orientate all&#8217;incremento dei flussi turistici, anche attraverso la valorizzazione delle forme d&#8217;arte tradizionali. Nel mentre ho fatto parte del gruppo di progettazione e organizzazione del Gargano Film Festival, prima rassegna cinematografica estiva realizzata nel territorio garganico, e del concorso Sud in Corto, realizzato in collaborazione con la Warner Bros. Ho presieduto il Circolo Arci Bellamì, luogo di promozione della cultura teatrale e musicale di base, e gestito la vineria Anime Brille, nel centro storico di Foggia, dove organizzo rassegne teatrali, musicali e librarie. Il tempo del mio volontariato lo dedico all&#8217;organizzazione e alla comunicazione di eventi culturali e comunitari per l’associazione Casa Di Vittorio. MOTTO Sono senza filtro perché condividere un’opinione diversa fa bene a chi legge &#8212; MAIL DI REDAZIONE: gianni.db@fiordirisorse.eu Città di origine: Foggia Città di adozione: Quella dove trascorrerò la vecchiaia in riva al mare Titolo di studio: Diploma di maturità scientifica Il mio lavoro: È prevalente l’attività di comunicazione istituzionale e assistenza legislativa. Poi organizzo eventi ed elaboro progetti di marketing territoriale mentre collaboro a Senza Filtro Per SenzaFiltro scrivo di: Attualità e politica Film preferito: C’era una volta in America (Sergio Leone), però ho pianto al termine di The rise of Skywalker (ultimo capitolo della saga di Star Wars 40 anni dopo il primo visto al cinema) Disco preferito: “Harvest”, Neil Young (solo perché è stata la mia porta d’accesso al rock ‘n ‘roll) Libro preferito: Tutto ciò che hanno scritto Borges e Calvino

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Gianni di Bari - Informazione senza filtro

#crisiaziendali

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Aumenta il numero di quanti si tolgono la vita e non se ne parla. La testimonianza di una giovane imprenditrice &#8220;a scadenza&#8221; e le opinioni di Nicola Ferrigni, dell&#8217;Osservatorio suicidi per motivazioni economiche, con il contraltare di Stefano Bianchi, direttore di CONFAPI Emilia.

Falliti e depressi: suicidi economici e imprenditori che non reggono la crisi - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Foto-di-Hands-off-my-tags-Michael-Gaida-da-Pixabay-.jpg


<p>Tutto è iniziato dal desiderio di <strong>conoscere gli studenti</strong> a cui avrebbe dovuto insegnare filosofia e storia. Un paio di mesi fa, una mattina di settembre, è entrato in aula e ha dato un test di venti domande, una quindicina di minuti e non di più per rispondere, l’invito a scrivere senza dare peso al giusto o sbagliato, il rispondere di getto a cui la scuola non li abitua perché alla scuola non interessa il lato irrazionale e istintivo che marca l’identità di ognuno.</p>



<p>Intercetto su Facebook il post con cui racconta l’esperimento. Leggo. Sento entrarmi una ventata in testa. Il post iniziava con la parola <strong>ABBANDONO</strong> scritta da sola e senza alcuna parola accanto a confortarla, in stampatello, le lettere dritte come colonne antiche.</p>



<p>Lo definiva un <strong>test esistenziale e in forma anonima</strong> per i suoi nuovi alunni, l’intento di capire chi avesse davanti per preparare al meglio le lezioni: domande di ogni genere, passando anche per la musica, il cinema, i libri. Merita un richiamo la domanda finale, anche per la cura con cui l’ha posta limando i livelli di consapevolezza tra i più piccoli e i più grandi nelle varie classi: “Cosa ti fa paura” e, a salire, “quale è la tua angoscia”.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/test-professor-Aversano.jpeg"><img width="526" height="698" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/test-professor-Aversano.jpeg" alt="" class="wp-image-52674" /></a><figcaption class="wp-element-caption">Alcune delle risposte al test anonimo proposto dal Professor Aversano ai suoi studenti </figcaption></figure></div>


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<p>“La risposta finale di tanti è stata per me sorprendente e un colpo al cuore. Più di 40 di loro hanno risposto che <strong>la paura è l&#8217;abbandono o la solitudine</strong>. Altri, come mi aspettavo, hanno detto ‘<strong>la morte</strong>’, ‘<strong>il fallire</strong>’, ‘<strong>deludere’</strong>, che comunque dicono di cose serie. Loro che non sono così ricchi di vocaboli appropriati usano la parola abbandono, che non mi ha mai sfiorato se non pensando ai cani sull’autostrada.”</p>



<p><strong>Gianni Aversano</strong> è un professore di filosofia e storia in un liceo di Caserta. È rientrato quest’anno sui banchi di una scuola superiore dopo averne passati 15 all’infanzia, dove ha preso e dato gioia col suo metodo didattico inedito. Un metodo che gli sta a pelle perché è un artista, un musicista, un attore, un autore.</p>



<p>Quando lo ascolti, tira fuori dalle cose piccole e comuni tutta la nobiltà della cultura napoletana e parecchio altro, fino a Fossati e Montale raccontati insieme. Senza chitarra in mano Gianni Aversano non sembra nemmeno lui. Tutte le sue lezioni sono fatte di musica e poesia con cui ogni mattina apre per una decina di minuti.</p>



<p>“I primi giorni i ragazzi del liceo erano perplessi a iniziare col mio metodo che li costringe a fare <strong>musica e poesia</strong>, ma che soprattutto li costringe a essere guardati e a guardarsi negli occhi perché nessuno li guarda più. Dico volutamente di <strong>costringerli</strong> e lo dico come gesto positivo. Da settembre conoscono già L’Infinito, Il canto di Ulisse, Guantanamera, Montale. Il mio è un invito alla coralità, all’abituarsi a fare insieme le cose”.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Gianni-Aversano.jpeg"><img width="765" height="464" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Gianni-Aversano.jpeg" alt="" class="wp-image-52677" /></a><figcaption class="wp-element-caption">Gianni Aversano, professore di filosofia e storia ma anche cantante, artista e attore</figcaption></figure></div>


<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Un giorno uno studente ha detto ad Aversano: “Prof, si vede che lei mi guarda”. Io me lo immagino Gianni Aversano a scuola. “La mattina, quando entro in classe, non dico subito buongiorno. Entro, li guardo, faccio in modo che possiamo trovarci tutti negli occhi: finché non mollano la loro distrazione non li mollo nemmeno io, <strong>li tengo d’occhio con la massima cura possibile</strong>. Entrano in classe svogliati e coi cellulari in mano, ma anche se si sentono forzati si sentono anche finalmente considerati”.</p>



<p>Su quel test anonimo poi ci hanno ragionato, ne hanno discusso, ci hanno giustamente riso in classe, tutti. “Sono loro che <strong>hanno voluto leggessi le risposte in ogni classe</strong>. È venuto fuori un mondo sommerso. Ho persino scoperto che una ragazza di sedici anni ha in Philip Roth il suo autore preferito, Philip Roth a sedici anni vuol dire che dietro questi ragazzi c’è un’irrequietezza e una complessità che grida di essere ascoltata. Che facciamo spesso noi, in consiglio di classe, quando discutiamo dei ragazzi con voti bassi? Diciamo che sono intelligenti ma non studiano. Le solite etichette che ci hanno ridotto a quello che siamo”.</p>



<p>Mi racconta che coi piccoli era una festa, chitarra e corse tra i banchi, ma arrivando dai 130 studenti che si è trovato a gestire da settembre – in totale ha ben cinque classi – si è accorto della tristezza profonda, dell’indifferenza, dei silenzi. Spesso la tristezza dei genitori, però, è la stessa.</p>



<p>“Per quanto, all’infanzia, ci fossero genitori anche giovanissimi, coppie di ventisette o ventinove anni, erano già tutti impregnati di apatia per la vita, rinunciatari, nessuna gioia, sempre affannati. <strong>La crisi dei giovani di oggi è il riflesso della crisi degli adulti</strong>. I ragazzi non vedono intorno a loro gente adulta contenta, appassionata, con una speranza che costruisce. Vedono un disfacimento, è questo che li diseduca. E intanto gli adulti pontificano dicendo di fare o non fare questo o lamentando che i figli non hanno alcun ideale. E loro che ideale rimandano? Adulti che hanno rinunciato a fare gli adulti e che spesso si atteggiano a fare i ragazzini.”</p>



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<h2 id="h-la-scuola-pensa-a-dare-voti-senza-pensare-ai-ragazzi">La scuola pensa a dare voti senza pensare ai ragazzi</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>“La <strong>scuola</strong> è diventata un <strong>giudizio continuo sui ragazzi</strong>, sta lì solo a dare voti, e non le interessa tirare fuori di cosa sono fatti, il dolore o uno slancio felice. I giovani non vengono accompagnati alla scoperta di sé stessi, sanno benissimo cosa è bene e cosa è male ma non riescono a aderire a quei valori perché tutta la società intorno non aderisce e non è coerente con ciò che dice. Allora non vedono il senso di doverlo fare per primi”.</p>



<p>Il dibattito italiano sui <strong>voti</strong> e sul <strong>merito</strong>, anche in ambito scolastico, si rinnova ciclicamente scivolando ogni volta sul conflitto; senza guerra non sappiamo parlare.</p>



<p>A inizio anno scolastico era scoppiata la polemica sui cosiddetti mezzi voti nella scuola secondaria, sui meno meno o sui più in fondo al numero. Era stato chiamato in causa su <em>Repubblica</em> <strong>Antonello Giannelli</strong>, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi: “La prassi di assegnare <strong>voti non interi</strong> attraverso l’uso dei ‘mezzi punti’ e dei ‘+ e –’ è <strong>molto infelice</strong>. Non ha un fondamento normativo e risulta ambigua nei confronti dello studente. In più si complica la comunicazione tra scuola, studenti e famiglie e non si riempie di senso la valutazione della prestazione didattica”.</p>



<p>Molti docenti avevano allora rivendicato la propria libertà di insegnamento, anzi della propria libertà didattica e pedagogica. Ogni tanto dovremmo andare a cercare se possono venirci in soccorso buone norme, in questo caso l’<strong>articolo 1 del Testo unico sull</strong><strong>’</strong><strong>istruzione </strong>(decreto l.vo 297/94) che traccia così la <strong>libertà di insegnamento</strong>: “L’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”. <strong>Lo scopo sono gli alunni, non i docenti</strong>; la finalità è l’evoluzione dei ragazzi, non l’autonomia del professore. Se la scuola capisse questo, saremmo parecchi passi avanti.</p>



<p>“Io faccio una <strong>battaglia contro i voti</strong>, i voti non dicono chi siamo. Ai miei studenti chiedo se stanno in classe perché vogliono avere voti alti o se stanno in classe per avere a che fare con me, con sé stessi e con gli altri, insomma con la vita. Un giorno ho detto loro: volete un 9, un 10? Io ve lo metto subito, che problema c’è? L’entusiasmo era nell’aria, però poi ho aggiunto: Ma se siete qui solo per un voto alto allora quando entrate in classe mettetevi da una parte, giratevi di spalle e tagliate i ponti con la classe, non parlate e non interagite. Alla fine nessuno ha detto che lo voleva a quelle condizioni. Nessuno chiede mai in profondità cosa vogliono e nessuno li mette mai davanti a un bivio interiore. Ce le hanno, le risposte, se poni bene le domande.”</p>



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<h2 id="h-il-ruolo-dei-professori-nell-era-della-rete">Il ruolo dei professori nell’era della rete</h2>



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<p>Lungo tutta l’intervista non trattiene il dubbio massimo, la domanda con cui credo entri in classe ogni giorno: ma <strong>a cosa servono i professori</strong> in un mondo che, banalizzando il discorso, offrirebbe su un semplice canale come YouTube già tutta la sintesi delle nozioni e della conoscenza?</p>



<p>“Mi chiedo a che cosa serva quindi oggi un insegnante. A correggerti quattro compiti e interrogarti tre volte se riesce? A dire ai tuoi genitori che non studi? A lamentarsi di te con altri colleghi proprio come gli stessi alunni si lamentano dei prof con i loro compagni?”. E mi cita Pavese con <em>Il mestiere di vivere</em>, era il 1950:<em> </em>“Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”. Un insegnante ti guarda, percepisce la tua vibrazione profonda, la tua ferita, il tuo desiderio, e con la sua materia e con la sua passione “in-segna”.</p>



<p>Il professore di Aversa ne è sicuro e ci affonda ogni giorno mani e cuore: quello che manca è <strong>un godimento condiviso, un desiderio personale</strong> che possa essere di tutti. Mi racconta che la sua convinzione di mettere insieme le persone intorno a una forma di bellezza comune lo ha portato da poche settimane a inaugurare <strong>un suo teatro</strong>: “Il mio sogno, finalmente. E l’ho fatto proprio in uno spazio dentro casa mia”. Il progetto si chiama Smoda (Spazio Maccus Officina delle Arti), il teatro sta nel suo paese, a Sant’Arpino, sempre Caserta, non lontano da Aversa.</p>



<p>I giovani non sanno a chi dirla, la paura di essere abbandonati. Hanno <strong>nostalgia di un presente che non conoscono</strong>. Hanno bisogno di sentirsi attesi da qualcuno, e vorrei vederli la mattina quando sanno che Gianni Aversano li aspetta in classe con la luce negli occhi. Vogliono essere attesi oggi, non domani; attesi da noi che corriamo, ridicoli, verso parole vigliacche come futuro o innovazione senza chiedere loro se e come vorrebbero andarci, in quel domani.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/scuola/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Scuola</a></strong>.</em></p>



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<hr class="wp-block-separator has-text-color has-black-color has-css-opacity has-black-background-color has-background is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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<p><em>Foto di copertina: credits Stanley Morales su Pexels</em></p>


Gianni Aversano e il test ai nuovi alunni del liceo: “Cosa ti fa paura? L’abbandono, prof”

<p>“<strong>Per la salute mentale è rilevante la condizione lavorativa</strong>: inattivi e disoccupati tra i 35-64 anni riferiscono più spesso disturbi di depressione o ansia cronica grave (10,8% e 8,9%) rispetto ai coetanei occupati (3,5%). La <strong>depressione </strong>è il disturbo mentale più diffuso: si stima che in Italia superino i 2,8 milioni (5,4% delle persone di 15 anni e più) coloro che ne hanno sofferto nel corso del 2015 e siano 1,3 milioni (2,5%) coloro che hanno presentato i sintomi della depressione maggiore nelle due settimane precedenti l&#8217;intervista. Rispetto alla media dei Paesi europei, in Italia la depressione è meno diffusa tra gli adulti e tra i 15-44enni (1,7% contro 5,2% media UE28), mentre per gli anziani lo svantaggio è di 3 punti percentuali”. </p>
<p>È quanto afferma l’ISTAT nel suo report <em>La salute mentale nelle varie fasi della vita</em>, pubblicato nel luglio del 2018 e con riferimento agli anni 2015-2017.</p>
<p>Neanche un anno dopo da questa pubblicazione, <strong>Marco</strong>, cinquantaseienne di origini piemontesi, è uscito da una grande azienda italiana di abbigliamento – celebre in tutto il mondo – dove si occupava di facility e security a livello manageriale. Lo abbiamo sentito in esclusiva per <em>SenzaFiltro</em> perché vogliamo capire che cosa succede agli inattivi o disoccupati della fascia d’età tra i 35 e i 64 anni che cercano di rientrare nel mondo del lavoro: quali le difficoltà che incontrano lungo il cammino di reinserimento e quali le conseguenze sulla propria salute mentale durante questa (annosa) ricerca.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiLieto-1.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/DiLieto-1.jpg" alt="" class="wp-image-52772" /></a></figure>
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<h2 id="h-da-security-manager-a-disoccupato-la-storia-di-marco">Da security manager a disoccupato. La storia di Marco</h2>
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<p>Quando chiamiamo Marco troviamo un uomo deciso, per nulla rassegnato e pronto a raccontarci la propria storia.</p>
<p>“Ho lasciato l’azienda perché la mia figura professionale sarebbe stata sostituita da un altro profilo, legato al nuovo amministratore delegato che sarebbe arrivato in azienda.</p>
<p>Una vera e propria <strong>riorganizzazione aziendale</strong>: <strong>l’ex articolo 1, comma 40 della legge Fornero</strong>. Nel mio ruolo lavorativo avevo mansioni direttive, ero procuratore dell’azienda, poi sono stato costretto a lasciare: ho provato un misto di delusione, rabbia e frustrazione. Poi, ho affrontato la questione e per tutelarmi ho deciso di avvalermi di un supporto legale per concordare l’uscita.”</p>
<p>Marco non sapeva che nelle <em>sliding doors </em>della vita professionale sarebbe stato complicatissimo rientrare nel mondo del lavoro, soprattutto con gli standard economici e professionali precedenti. Eppure sembrava che per lui questa regola potesse essere disattesa, in totale controtendenza.</p>
<p>“Prima del COVID-19 ho ricevuto un’offerta di lavoro sempre per un’azienda multinazionale dello stesso settore, con <strong>un’offerta economica e professionale</strong> decisamente <strong>migliorativa</strong> rispetto alla precedente. Così, dopo i colloqui andati a buon fine e prima della firma – per intraprendere la mia nuova avventura professionale – decido quindi di regalarmi una meritata <strong>vacanza</strong> dopo sette anni di stress psicofisico, dove ero arrivato al <strong>burnout</strong>. Mi sono reso conto che stavo esagerando dal punto di vista fisico, psichico e mentale. Arrivavo a lavorare 13 ore al giorno, senza contare la reperibilità quando ti chiamavano anche di notte”.</p>
<p>Marco si gode le meritate vacanze e poi, al rientro, la doccia fredda. “Arriva la <strong>prima ondata di COVID-19</strong>, c’era stato un calo del fatturato e l’azienda con cui pensavo di iniziare la collaborazione mi comunica che il management non se la sentiva di investire tutti quei soldi nell’inserimento della mia figura professionale, preferendo far crescere figure al proprio interno visti i tempi incerti che stavano per arrivare con la pandemia.”</p>
<p>Da lì, più nulla, per Marco solo muri di gomma e stress mentale per <strong>cercare in fretta una nuova occupazione</strong>.</p>
<p>“Ho cominciato a cercare annunci e a rispondere, per poi inviare la mia candidatura, per offerte di lavoro in linea con la mia esperienza professionale. Così quando mandi il cv provi in primis a scavalcare il muro dell’<strong>ATS</strong> (<em>Applicant Tracking System: si tratta di un software per la selezione del personale. Per superare la fase di selezione automatica assegnata a questi software, è bene compilare un curriculum specifico e leggibile da parte di una macchina: esistono siti specializzati che spiegano come fare, N.d.R.</em>)<em>, </em>ma anche se riuscissi a passarlo sono sicuro che li guarderà un ‘ragazzo di bottega’ – non un senior – che quando noterà la mia data di nascita sul cv passerà oltre.”</p>
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<h2 id="h-le-illusioni-dei-recruiter-e-l-intossicazione-da-linkedin-cosi-ora-faccio-il-macellaio">Le illusioni dei recruiter e l’intossicazione da LinkedIn: “Così ora faccio il macellaio”</h2>
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<p>Eppure in tutto questo tempo qualche chiamata è arrivata.</p>
<p>“A volte mi chiedevano addirittura che lavoro facessi. E poi ho maturato la convinzione che <strong>i recruiter cerchino di illuderti</strong>, gente veramente franca ne ho trovata pochissima. A onor del vero, una sola volta un direttore del personale è stato davvero sincero sul perché fosse stato scelto un altro candidato al mio posto. Poi ho trovato campioni nell’arte del <strong>ghosting</strong>, sia agenzie del lavoro che aziende: ti lasciano in stand-by e non ti danno più risposta, sparendo letteralmente dalla circolazione senza contare le aziende che ti tengono in ballo a tempo indeterminato: da una di Bergamo aspetto una risposta da sei mesi”.</p>
<p>Dal burnout per eccesso di lavoro a un altro tipo di malessere: la sua salute mentale ne sta risentendo tuttora, anche se in maniera diversa. “Sto vivendo una sorta di <strong>tossicodipendenza da LinkedIn</strong>: controllo offerte di lavoro, rispondo e interagisco con aziende e recruiter. Non ti nascondo che ho pianto molte volte e non dormo una notte intera ormai da quasi quattro anni, senza contare gli amici ed ex colleghi che spariscono quando non fai più parte di un certo mondo, dove ostentavi un certo status economico e sociale. <strong>Rimani da solo</strong>.”</p>
<p>Nel frattempo è finita anche la NASpI, il sostegno economico di disoccupazione. “Per fortuna, quando ero giovane, per pagarmi gli studi avevo imparato il ruolo di <strong>macellaio</strong>, e mi sono ‘riciclato’ così nel mondo del lavoro, grazie ai maestri piemontesi da cui ho appreso l’arte di trattare la carne. È stato come tornare in bicicletta: sono cose che ti rimangono. La cosa buffa è che anche qui i contratti sono precari e sei costantemente sotto pressione. <strong>Ero security manager e adesso faccio il macellaio. Ma non mollo</strong>.”</p>
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<h2 id="h-l-head-hunter-gabriele-ghini-un-contratto-a-progetto-a-cinquant-anni-non-e-lesa-maesta">L’head hunter Gabriele Ghini: “Un contratto a progetto a cinquant’anni non è lesa maestà”</h2>
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<p>Per provare a capire meglio le difficoltà oggettive che un over 50 può incontrare per trovare lavoro abbiamo dialogato con <strong>Gabriele Ghini</strong>, head hunter, presidente della ProperdelMare Consulting e professore a contratto di Personal branding e Digital identity presso l’Università Cattolica di Milano, oltre che autore del libro pubblicato da Este nel 2018: <em>Diario di un cacciatore di teste</em>. <em>Oltre social, algoritmi e coronavirus.</em> Dal 2013 è managing director di Transearch Italy.</p>
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<figure class="alignleft size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Ghini-per-Norman-3.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/Ghini-per-Norman-3-740x1024.jpg" alt="" class="wp-image-52655" width="370" height="513" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><strong>Gabriele Ghini</strong>, e professore di Personal branding e Digital identity presso l’Università Cattolica di Milano</figcaption></figure>
</div>
<p><strong>È così difficile ricollocarsi per chi è uscito dal mondo del lavoro con un ruolo manageriale e con un’età delicata?</strong></p>
<p>Guardi, ho collocato proprio l’altro giorno una persona over 60 e ne avevo assunta personalmente una di 64 anni, ricercatrice, che poi dopo neppure un anno è andata in un’altra azienda, migliorando la sua posizione.</p>
<p><strong>Mi sembra di capire che la risposta per lei sia no.</strong></p>
<p>Il mercato del lavoro oggi è duro e chiuso per tutti: poi, nel caso specifico che mi ha raccontato, per i cinquantenni che escono dal mondo del lavoro con una posizione da dirigente è fondamentale per loro ricominciare a guadagnarsi la fiducia e a lavorare sulla propria brand reputation. Quando queste persone intendono ricollocarsi lo fanno con delle pretese molto alte da parte loro, al fine di mantenere il livello di retribuzione precedente, ma occorre dimenticare di mettere i “soldi sul tavolo” ai primi colloqui: è importante dimostrare anche flessibilità. Ripartire con un contratto a tempo determinato, magari anche a progetto, non è lesa maestà. Sinceramente non ho mai trovato aziende che mi facessero problemi sull’età, ma forse è perché mi occupo di profili alti.</p>
<p><strong>Cosa risponde a chi parla di ghosting da parte di chi fa selezione per le aziende?</strong></p>
<p>Quando lavoravo per un’agenzia di recruitment di middle management – dove trattavo una mole di curriculum infinitamente più alta di quelli che tratto oggi e dove ho rischiato anche io il burnout – rispondevo sempre comunque a tutti: è la mia cultura del lavoro. Quando insegno nelle università dico sempre ai giovani: se volete differenziarvi rispetto agli altri, la netiquette è importante. È fondamentale portare rispetto per chi cerca di entrare in contatto con te.</p>
<p><strong>Ora Marco fa il macellaio, ma era facility e security manager in un’azienda internazionale.</strong></p>
<p>Di recente ho concluso un corso dedicato proprio a questa figura professionale richiesto da un’associazione dei security manager e dei professional, perché hanno visto che c’è una fetta dei loro associati che è stata espulsa dalle aziende e fa fatica a ricollocarsi: un successo di partecipanti, con alcune persone che poi sono state assunte proprio con quel ruolo. Una di loro mi ha chiamato l’altro giorno per comunicarmelo. Nel corso ad hoc per questa figura professionale abbiamo tenuto fondamenti di personal branding e digital identity nella ricerca del lavoro, concetto di employability ed elementi che rendono employable, come elaborare un curriculum a prova di ATS, prova pratica del funzionamento dell’algoritmo di LinkedIn utilizzato dai cacciatori di teste, come ottimizzare in modo strategico il profilo LinkedIn, rispondere agli annunci su LinkedIn, tecniche di networking online.</p>
<p><strong>Network?</strong></p>
<p>Sì. È fondamentale per mettersi in rete con altre persone e creare connessioni nuove, cercando di trovare nuove opportunità professionali.</p>
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<p>Ci auguriamo che queste indicazioni non rappresentino solo una sorta di placebo, per Marco e per chi come lui è alla ricerca di reinserimento nel mondo del lavoro, in una situazione di disagio per la salute mentale.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/over-50/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Over 50</a></strong>.</em></p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 116, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-116/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Cavalli di battaglia</strong></a>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Sua Sanità PNRR</strong></a>&#8220;.</em></p>
<hr class="wp-block-separator has-text-color has-black-color has-css-opacity has-black-background-color has-background is-style-wide" />
<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>
<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>
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<p><em><strong>In copertina foto di Zhugher da Pixabay</strong></em></p>


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