Si moltiplicano le dichiarazioni programmatiche, gli attivismi buoni a lavare le coscienze e le risposte istituzionali più ipocrite del silenzio. Così uno dei più recenti casi di cronaca nera viene spremuto fino all’ultima goccia, oscurando tutto il resto
È verde? No, è lavato con greenwashing
La direttiva europea contro le autocertificazioni delle aziende sedicenti sostenibili è un buon inizio, ma non considera la pubblicità che avviene con la sponda dei giornali: il mondo degli addetti stampa ha urgente bisogno di regolamentazioni
Con una direttiva (l’ennesima) approvata nei giorni scorsi con una maggioranza ancora una volta schiacciante, l’Europarlamento comunica (ancora una volta) di voler dotare l’Unione di strumenti severissimi affinché le aziende non possano definirsi a piacere loro “green”.
Direttiva sacrosanta, eh. In pratica (e in linea con quanto discusso e deciso finora nelle sedi comunitarie) il Parlamento europeo dice che alle pratiche pubblicitarie scorrette vanno aggiunti una serie di comportamenti riconducibili a quello che genericamente chiamiamo “greenwashing” (o, nella traslitterazione italiana, “ambientalismo di facciata”). Esempio: la lavatrice non potrà più dirsi da sola che funziona per 5.000 lavaggi se questa cosa non è verificata in condizioni normali di utilizzo. Le cartucce d’inchiostro non potranno iniziare a tormentarti ogni volta che accendi la stampante al grido di “yuhu, stiamo finendo” se in realtà c’è ancora mezzo serbatoio a disposizione. I dispositivi tecnologici non potranno definirsi riparabili se in realtà non lo sono.
Ma la volontà di stiracchiare il più possibile il ciclo di vita del prodotto è solo la punta dell’iceberg. La direttiva UE innanzitutto mira a eliminare sul nascere le ambiguità in etichetta e in promozione date dal generico utilizzo di termini come “amico degli animali”, “amico della natura”, “a impatto zero” e via così. Per potersi definire in qualsiasi modo vi sarà la necessità di certificare tali best practice, e tale certificazione non può venire da una qualsivoglia cordata di sconosciuti, ma da enti certificati o governativi.
Come in ogni occasione di questo tipo ci sarebbe comunque da porre il classico quesito del “chi controlla il controllore?”. Ma non è il punto che voglio sollevare in questa sede.
Gli europarlamentari hanno dettato una linea apprezzabile e condivisibile che però almeno nel comunicato non tiene conto di uno dei veicoli principali con cui il greenwashing si consuma: il rapporto tra le aziende e i giornali. Con interviste, articoli (autoprodotti) e servizi in cui la responsabilità di dire determinate cose e sostenere l’appartenenza a determinati valori viene ribaltata sul giornalista, su chi “riceve” tali informazioni e decide di avallarle mettendole in pagina.
E veniamo quindi allo stato dell’arte.
Dotarsi di un addetto stampa, anche per un’azienda, non è mai una cattiva idea. Quella che invece in questi anni si è rivelata una cattivissima idea è stata mettere tale addetto stampa, in origine un lupo solitario un po’ giornalista un po’ curatore di interessi di parti, in strutture organizzate (specialmente in quella famosa città sedicente capitale morale d’Italia) come reparto marketing e aver fatto finta – per anni – che tale deriva sia da ritenersi accettabile.
Ruolo destinato a chi le redazioni e le logiche di giornale le conosce, l’addetto stampa. La sua dovrebbe essere una sapiente mediazione tra le logiche di notiziabilità di un evento e il linguaggio giornalistico. Non a caso sarebbe auspicabile che venisse ricoperto da un giornalista, che all’atto di iscrizione all’Albo è tenuto a osservare una serie di regole deontologiche, tra cui “non vendere niente” è quella cardinale.
Negli anni la mia casella di posta elettronica personale e professionale è stata invasa invece da qualsiasi tipo di comunicazione possibile, indegna di finire su qualsivoglia organo che si professi d’informazione: da fatti di poco conto elevati a notizia a opinioni non richieste da parte di perfetti semisconosciuti; da leggendari racconti di ristoratori e startupper a quella cosa tremenda che ho letto stamattina in un comunicato stampa, che includeva finanche il simbolo del “marchio registrato” nel testo che parlava del suo prodotto.
Nel regno delle markette ogni cosa va bene e ogni cosa finisce per trovare il suo spazio, in un’estasi infodemica di copia-incolla spinto con troppi galli a cantare (per cui “non schiara mai giorno”).
In questi giorni in cui ho visto finanche le stesse note stampa rielaborate da un’intelligenza artificiale (occhio che ormai lo sappiamo come scrive Chat GPT, emoji razzo emoji razzo zitto chi ‘ssape ‘o juoco) a cui qualcuno relega la comunicazione di sé stesso – ammettendo di saper parlare di sé stesso meno di un algoritmo – dire che quello della comunicazione con la stampa è un ruolo ormai abbondantemente travisato passa anche per il fatto che c’è sempre meno pudore nello spedire da pressoffice@aziendaacaso.it comunicazioni che di press non hanno assolutamente niente. E in questo niente ci finiscono autoelogi, autopacche sulle spalle, autostrette di mano, autocomplimenti, autotraguardi. E autotraguardi green.
Nella giungla che ha portato il giornalismo moderno in queste condizioni, innanzitutto bisogna ammettere che (sotto il naso di tutti) il professionista chiamato a “rapportarsi correttamente per conto dell’ente e/o istituzione rappresentata con gli organi di informazione” ormai è il professionista “che prova a piazzare il suo cliente sui giornali per fini commerciali”. Una volta ammesso che la deriva è la seguente, l’istituzione (europea in questo caso) estendesse tali tutele di comunicazione verso i consumatori anche a quelli che scrivono comunicati stampa. Inclusi quelli che ci mettono in mezzo amichevoli vezzeggiativi su come l’azienda per cui lavorano ama il verde, il futuro e compagnia cantante.
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